Tra reale e possibile
Emanuela Cerutti - 04-10-2003
Ieri

"Il sessantotto non è una data. E' un'idea, una categoria della spirito, una griglia interpretativa nella quale collocare i sogni più profondi di una generazione. E come lei di molte altre".
Milano, 1974


Nel sessantotto non avevo terminato le medie.
La mia scuola non era lontana dal liceo dove sarei andata l'anno successivo. Le separava piazzale Loreto, che mi risultava difficile pensare teatro di una fine mai ricordata volentieri, nonostante tutto. Difficile immaginare una simile conclusione in mezzo al caos del traffico che vieta a passi o pensieri qualunque genere di attraversamento. Si rischia di perderla.
Mi chiedevo, quando mi trovavo lì con le amiche che non avrei più visto, se la cosa non fosse voluta, destino bizzarro, ma non avevo risposte, o le abbandonavo al sopraggiungere del batticuore con eskimo e anfibi, fiera di Senigallia doc.

In quel periodo leggevo una vecchia edizione Einaudi della Scoperta di Troia di Heinrich Schliemann, scovato in una delle librerie di casa, al di là del doveroso scorrevole in vetro (i libri non devono impolverarsi, decretava mio padre): e mi perdevo, pagina dopo pagina, dentro gli strati che uno dopo l'altro venivano alla luce, ignara di quanti altri strati stessero affiorando dalla mia isola, determinando forse non del tutto consciamente, non subito almeno, scelte successive.
Il rapporto tra i segni e i simboli, i linguaggi e le loro decodificazioni, la ricerca come incrocio di dati in movimento, la successione come regola irregolare del poligono esistenza, si facevano strada tra la collina di Hissarlik e il tesoro di Priamo.
In piazzale Loreto, intanto, le prime manifestazioni scuotevano l'aria e le finestre chiuse non ci impedivano di sentirne il rumore.

Ci volle qualche tempo prima che la domanda sulla giustizia ottenesse una risposta inequivocabile. L'eskimo riparava dalla neve e l'inverno era percorso da lampi di ribellione e di rabbia:

Non aspettatevi dunque, cittadini ateniesi, che io faccia davanti a voi cose che non ritengo né belle, né giuste, né pie, proprio io - per Zeus - che sono accusato di empietà dal qui presente Meleto. E' chiaro che se convincessi e forzassi con le suppliche voi, che avete fatto un giuramento, vi insegnerei a pensare che non ci sono dei e, appunto con questa autodifesa, accuserei me stesso di non credere negli dei.

Socrate dominava le discussioni e l'Apologia, spessore tre millimetri, si faceva pesante come un macigno.
"E se piazzale Loreto covasse sotto la cenere la propria infinita ripetibilità? Se per questo non volessimo parlarne? Per la paura di tagliare legami ai quali ci affidiamo più che alla nostra stessa libertà?"

Sai com'è silenziosa la neve, quando non vuole dare risposte.

Non è diversa, oggi, la domanda di allora, oggi che ci pare di vederlo, il grande cocomero, dentro Halloween di nuovo acquisto (buffo questo paese che si rifà con tenacia alle antiche secolari tradizioni identitarie assumendone al tempo stesso altre di genere conflittuale). Un cocomero forse transgenico, date le dimensioni globali, sicuramente fotogenico e mediatico, come si conviene alla società della conoscenza e dell'immagine. In più fagocitante, per non deludere i sondaggi sull'obesità.
Ma un cocomero che, invece di essere gustato sotto le stelle di un Messico senza confini, traccia linee di filo spinato e separa: gli uni dagli altri, e se stesso da tutti.


Oggi

"Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l'uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s'estende la terra vuota fino all'orizzonte, s'apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l'uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante..."
Tamara, 2002


Leggevo Calvino con i ragazzi e le ragazze l'anno scorso a scuola, e ci chiedevamo "Di cosa è segno il pantano?" "Della recente pioggia".
E così via, fino alle piogge che abbiamo dentro. La domanda sul significato, dicevamo, rende comprensibile un messaggio, un evento. Se il significato non è chiaro, il concetto crolla. O è instabile. E, per assumerlo, occorre farsi violenza.

Ma non puoi fermarti lì. Il salto è valore aggiunto ed il suo nome è antico: l'immaginazione ci permette di cambiare le cose, di tentare nuove ipotesi, di costruire giochi giocabili e mondi sostenibili. Di rendere i nostri sogni spendibili. Il sessantotto non è passato invano, se sappiamo ancora percorrere le nuvole con un dito.

Fuoriregistro è una nuvola, nata per intuizione e proseguita per passione.
La percorriamo ogni giorno, senza sapere il giorno dopo che forma avrà. Una nuvola fatta di storia e di storie, di incontri, di arrivi e partenze.
Alle partenze si regalano saluti, come a Francesco Di Lorenzo e Noemi Lovei, che hanno accompagnato per un tratto il lavoro redazionale, lasciandoci segni dolcissimi del loro passaggio.
Per gli arrivi si preparano messaggi di benvenuto, come quello che rivolgiamo a Giuseppe Aragno, che porta con sé la ricchezza della sua storia e la lucidità di una ricerca da sempre perseguita.
Agli incontri, quelli quotidiani che annodano la rete e la rendono viva, si riserva l'idea di fondo, come fosse una promessa: "finchè avremo domande alle quali cercare ripsoste le nuvole non smetteranno di correre sopra la città confusa, rendendo reale il possibile".
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 Renata Colombo    - 05-10-2003
E' vero. Il sessantotto non è una data ma un'idea.
Mi sto chiedendo però in quale Città Invisibile mi trovo io che negli anni settanta gridavo "Operai, studenti uniti nella lotta", e che ora devo scrivere una lettera per far presente al mio capo che siamo schiavi di bidelli sindacalizzati che passano le mattinate chiacchierando e mangiando e se li chiami hanno altro da fare e per spostare una cassa di libri reclamano dicendo che non è loro compito.
E debbo scriverla io perchè le colleghe si lamentano nei corridoi ma non sono disposte a prendere in mano penna e matita o computer.

Non ero amato dagli abitanti del villaggio....

 Grazia Perrone    - 06-10-2003
Nel '68 avevo già finito le medie e frequentavo l'istituto magistrale. Ma la mia "prima" occupazione è avvenuta l'anno dopo: nel '69. Ricordo ancora l'eccitazione di quelle notti passate a scuola ... a studiare. Perché - nonostante tutto - nell'importanza dello studio ci credevo . E lo sguardo preoccupato di mio padre che già accusava i segni del male che - di lì a poco - l'avrebbe portato via.

Ricordo le bombe del 25 Aprile 1969 alla Fiera di Milano; quelle sui treni del 9 agosto; la morte dello studente Cesare Pardini ucciso da un candelotto lacrimogeno esplosogli in pieno viso da un agente nel corso degli scontri avvenuti a Pisa il 27 ottobre 1969.

E poi la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre.

Non eravamo molti - cara Emanuela - a cercare di "tenere gli occhi aperti nella notte buia".

Lo slogan "la strage di Stato" fu un'intuizione dialettica di alcuni studenti della Statale di Milano.

Nel giro di pochi anni la verità "politica" che voleva imputare agli anarchici (e alla sinistra in generale) la responsabilità delle stragi fasciste fu rovesciata e la "verità storica" (quella giudiziaria - ahimé - è ancora lontana) ha prevalso nella coscienza e nell'immaginario collettivo.

Non eravamo molti ... ripeto a "cercare" di affermare la verità storica. Ma - riprendendo la tua metafora e mutuandola da una di Einstein - vi sembran poche le nuvole nel cielo di agosto? In pochi attimi esse si organizzano, si uniscono e scaricano al suolo una quantità incredibile di acqua. E di energia. E niente e nessuno può fermare questa tempesta "purificatrice".

Uniamole ... le nostre nuvole "anarchiche" .

E non vi è mezzo migliore della rete.


P.S.: Colgo l'occasione per augurare buon lavoro a Giuseppe Aragno del quale apprezzo il rigore storico e l'onestà intellettuale.