La fiducia di Luigino
Giuseppe Aragno - 24-09-2003
Dallo Speciale Racconti



Luigino Biliandi aveva avuto dalla natura il dono invidiabile e, in verità, meno raro di quanto si creda comunemente, d'una notevole propensione alla moderazione nel campo spinoso delle occupazioni redditizie, che i più sono soliti indicare, assai superficialmente, col nome ben più grave e serio di lavoro.


Era nato, è vero, in "terre di spopolamento" - come aveva letto una volta in un libro del fratello che faceva l'università a Salerno - ma portava nel suo giovane cuore di uomo del Cilento un ottimismo "anomalo" che, per dirla in breve, stava tra il non ben meditato e il superficiale - almeno così pensavano i più - e che, in un modo o in un altro, la vinceva persino sulla dottorale sapienza di suo fratello. D'altro canto, perché mai avrebbe dovuto essere pessimista o nutrire sospetti uno come lui, che, sfuggendo a un destino grigio, che si sarebbe consumato tra case ridotte a pietraie, andava incontro a un lavoro sicuro e già "assegnato", come gli aveva assicurato in una lettera un suo vecchio amico ormai "milanese"?
Eppure, a sentir le ciance di suo fratello, le cose stavano proprio così e c'era da star con tanto d'occhi aperti:
- Ma ti pare che lassù aspettano te per un lavoro buono? Luì, chissà che sarà!


E se Luigino a questo punto tirava in gioco la sua sostanziosa propensione ad ogni genere di lavoro sicuro - che nasceva probabilmente dal non averne potuto trovare mai nemmeno uno - e se poneva l'accento a suo modo su quel particolare, assai piccolo e però notevole, che lì, in paese, se la poteva solo fare con vecchie o donnette, ad aspettare l'abbacchiatura e far giusto il soldo per rischiare un colpo a bocce su un quartino, sicché tra l'alba e il tramonto stava sempre a cercare il modo di girare per sentirsi vivo, ecco, se lo faceva, il fratello sbottava e assumeva un tono alto, che alla fine sfociava immancabilmente in uno stridulo falsetto:
- La libertà! Luì, chi emigra se la gioca, la libertà! Tu qua in un modo o in un altro non ci campi? E stacci, sta a sentire a me, che di sopra ti comprano la pelle.

Non fosse stato suo fratello - e se un certo rispetto per i libri che studiava non l'avessero tenuto - Luigi un bel calcio indietro gliel'avrebbe dato di gusto, magari per dispetto e per dirgli in un suo modo paziente:
- Ma chi ti ha mai detto che a me così pare di stare libero?
Luigino aveva una sua precisa filosofia sul lavoro.
"Fatica - diceva spesso - è la nostra, quella che facciamo a schiena rotta e senza pace, senza un'ora buona o una festa che conti. Solo per rimanere in piedi e respirare, così poi torni a faticare. Lavoro è una parola diversa e complicata. Non lavora, questo è certo, non lavora chi pareggia coi soldi che prende quello che spende e non gli resta che ripetere la stessa storia tutti i giorni . Uno così fatica e muore. Se poi uno si trova una lira in più quando fa i conti, bene: così non è lavoro: è gioco. Uno così è felice. Lavoro - diceva Luigino - è una parola che non dice niente. Ci sono solo il gioco e la fatica. Che fai? Ti danni per una cosa non ti dà quanto ti serve e lo chiami lavoro? Quella è disperazione...

Come molti di coloro che hanno la consapevolezza d'essere nati e cresciuti tra le incertezze di fatiche che non bastano a garantire la tranquillità e che non pagano per quanto vogliono, Franco, il fratello di Luigi che aveva studiato, sentiva un'assoluta diffidenza per ogni speranza e per ogni disperazione. Non era rassegnato, perché per esserlo occorre aver sperato, e non era vinto perché non aveva lottato. Era, diceva Luigino, un "teorico", uno che non capiva la pace dell'animo di quel suo fratello contadino ignaro del sottosviluppo e dello sfruttamento, e non si spiegava come facesse a risolvere ogni questione con quella sua strampalata filosofia tutta "individualismo piccolo borghese" e isolazionismo "gretto e contadino". Uno che finiva sempre con l'accontentarsi d'una "presa per il didietro" che gli assicurasse il minimo di sicurezza materiale. Tutto questo irritava Franco, specialmente quando s'accorgeva di quanto fossero insufficienti la sua "scienza" e la sua consapevolezza delle cose, quando si trovava ad imporle a quel cocciuto contadino. Per qualunque verso s'era mai provato a prenderla, quella faccenda gli era sempre sfuggita di mano. Non aveva null'altro da opporre che chiacchiere a quella sorta d'antica fame di stabilità che c'era nel petto, per tutte le altre cose tranquillo, di Luigino.
Aveva un bel dirgli, quand'era a corto d'argomenti:
- Ma tu non ti trovi costretto! Avessi almeno famiglia o che so io...
Benché ci fosse in lui anche la speranza segreta d'insinuare non so che tarlo moralistico in seno al contendente, era troppo intelligente per non capire da sé che aveva un gran bel torto. Torto marcio. Luigi se ne andava e faceva bene. In momenti così Franco si chiedeva se tutto non accadesse davvero per una sorta di condanna ineluttabile, si sentiva impossibilitato a reagire e talora, in squarci di luce sinistra, gli si apriva dinanzi la visione dalla secolare malformazione sociale della sua gente.
Come gli altri, Luigi dimostrava di non possedere quella che Franco, con tono grave, chiamava "coscienza di classe".
A sentire Franco, quell'assenza garantiva la sopravvivenza dell'ingiustizia e, con essa, degli uomini stessi. Franco, insomma, osservando il fratello, avvertiva il beffardo dominio dello "squilibrio che - come spesso diceva - si muta in assurda garanzia d'ordine".


Venne finalmente per Luigi il giorno della partenza e, come tutte le cose di quel "maledetto paese" - com'ebbe a definirlo per l'occasione Franco - anche la sua partenza si trasformò in un avvenimento destinato al commento dei crocchi nei successivi sette giorni.
Il Cilento è terra bella e capace d'ispirare amore profondo. Però, forse per la noia che vi aveva coltivato assieme alle rare piante riarse, forse per la durezza d'animo comune ai giovani di un tempo singolarmente freddo, una cosa è certa: a Luigi partire non faceva venire alcuna particolare passione per il suo paese. Per di più, sapendo che il mostrarsi indifferente. in un momento come quello avrebbe scandalizzato le brave persone accorse in piazza per salutarlo, Luigi si sentiva notevolmente imbarazzato, mentre si rigirava a stringer mani nella piazza assolata, tanto più che il fratello se ne stava in disparte, con negli occhi un'accusa fiera per quel suo agire che doveva sembrargli un vero e proprio tradimento. Non c'è dunque da meravigliarsi se il giovane contadino si sorprese a provare sollievo per l'apparizione improvvisa, e solitamente malaugurata, di un personaggio tutto azzimato e tronfio, che compariva dal fondo della piazza, andando dritto verso di lui con l'aria consuetamente goffa, resa ancor più evidente dal contrasto tra il lampo d'orgoglio che aveva negli occhi e la figura sua stramba, che mostrava, su due gambe tozze, un ventre come un otre e le braccia forti e corte.
Don Tito era fatto così. Se poteva fare un favore e mostrar di poter muovere pedine importanti per un suo gioco, lo faceva volentieri. Aveva - di ciò Luigi era certo - qualche buon santo, tanto più che in paese c'era addirittura chi sussurrava che poteva giungere sino a Roma por faccende grosse. Per Luigino l'aveva fatto, riuscendo a "sistemarlo" senza batter ciglio. Gongolante, mentre discreti sguardi lo indicavano e berretti di velluto salutavano ossequiosi, veniva a raccogliere l'omaggio col faccione rubizzo atteggiato a compiacimento. Cercava Luigi, che a sua volta gli si affrettava incontro e l'apostrofava con vivacità: - Oh Don Tito!
A Franco il disgusto pareva salisse alla gola. E non, come si può pensare, per l'uomo grosso e per il fratello sfuggente, ma perché, con tutta la sua stizza., non riusciva a immaginare che potesse esserci un altro mondo attorno a lui o che potessero cambiare i rapporti tra quegli uomini, senza che sparisse per sempre anche la sua gente e lui con essa.
- E allora a che servirà? Si chiese amaro.
Servì. Almeno così sembrava.

Vero è che a Milano Luigino cui si era trovato né più né meno che come all'inferno, con la gente che non lo capiva e lui che non capiva la gente.
Per di più - e gli pareva incredibile - il "gioco" d'un tratto prese a deprimerlo e a mandargli all'aria tutte le convinte filosofie. In quel mondo lì che non capiva, anche la sicurezza del lavoro gli era sembrata estranea e aspra e se il principio del "devi lavorare per mangiare" al paese gli pareva così naturalmente ostile, ora gli sembrava che ci fosse anche un che di più duro ad aggravarlo: che gli si desse da mangiare perché lavorasse.
Era una sensazione dolorosa che non trovava modo di sopportare, che da solo, con l'animo suo schietto, non avrebbe mai saputo immaginare. Allora perse l'appetito, cominciò a pensare che Franco avesse ragione e provò una qualche passione per il suo paese.
Ora il lavoro era lavoro ed esisteva. Riguardava non lui da solo, ma gli altri come lui, lo legava a nuovi lacci, conosceva attese più brevi ma reiterate e perciò, alla lunga più snervanti. Insomma non era un gioco da sfruttare, come l'aveva sognato, ma, per quanto capiva, un oggetto di contesa.
D'altro canto, se ai problemi del lavoro non voleva pensarci, ci pensavano gli altri a tormentarlo. C'era sempre qualcuno ad aspettarlo. E volantini e richieste erano compagni di sempre. Spesso cose giuste, altro che parole di Franco, ma ancora più spesso incomprensibili e indisponenti. Era una sola monotona canzone, sempre uguale e cantata con tono diverso.
Tutto prese a sembrargli così una grande bestemmia, tutto gli divenne ferocemente estraneo: un lavoro che c'era e quasi sicuro, gli si presentava manomesso, come corrotto e snaturato. Si ribellava, certo, ma più si divincolava e lottava, più gli pareva che tutto fosse condannato a snaturarsi infinitamente.

C'era, dietro tutto quanto vedeva e sentiva qualcosa che non capiva, come un'entità oscura che dominava dall'esterno la scena furiosa nella quale si trovava ed a cui sentiva d'essere assai estraneo e non capiva perché.
Il capitale era il mostro responsabile di ciò che accadeva. Gliene parlavano in tanti, gliene parlavano sempre da quando era giunto a Milano, ma tutto quello che aveva capito era solo che il mostro che gli offriva il lavoro glielo distruggeva tra le mani e gli rendeva estraneo e inutile il solo valore che conosceva: la sicurezza.
Qui si fermava, e tuttavia, giacché non era stupido e vanesio, sentiva che in seno a tutto quel gran dibattere e discettare c'era anche una qualche ansia di giustizia, sebbene distorta e resa utile a fini oscuri da figuri oscuri che a tutto quel mondo erano in fondo estranei, e avvertiva come un senso di colpa assieme ad un profondo anelito a quella tranquillità che aveva sperato inutilmente di trovare con un trapianto radicale e, tutto sommato, assalito ben presto da una crisi di rigetto.
Era per lui, facendo un paragone antico, come per quel pastore montanaro che, tra pecore e balzi scoscesi, avverte ad un tratto il desiderio di dire una parola ad un amico, però è solo e può appena cantare e giocare col cane; quello, sebbene gli sia amico, non bada che al gioco, né sa né può avvertire la malinconia che lo suscita: è un cane inutile. Così fra i compagni di lavoro stava Luigi, con tristezza schiva e simulata pace. E come il pastore poi la sera, al fuoco, sente che forse, se scendesse al piano, non troverebbe più la parola da dire e resterebbe zitto, capiva di essere fuori posto e, insieme, di aver perduto, coi sogni, anche la voglia d'un ritorno.


Aveva sopportato la sua terra perché era certo di partirne ma a Milano non sarebbe restato. Era come in un limbo.
Né bene né male, né odio né amore.
E tutto gl'infuriava intorno in una lotta feroce.
L'oggetto della contesa, santo demonio, come finì per sembrargli, era il capitale, visto nelle categorie dell'uso, del possesso, della suddivisione.
La sua moderna filiazione era la lotta del lavoro, visto nelle categorie del molto, del poco, del nocivo: avesse avuto il tempo, avrebbe preso a tirare per l'uno o por l'altro contendente.
Tornò invece al paese in una sera di pioggia. Invalido, un occhio cieco e la pensione.
Era saltato sui suoi risparmi in una banca a Piazza Fontana.
C'erano stati tanti morti o tanti feriti.
Quella triste sventura in un clima d'odio gli marchiò l'animo per sempre.
Passò il resto dei suoi anni a ripetere al fratello affranto, con ostinata frequenza:
- Franco, non gli dare retta. Non dar retta a nessuno. Non lo fanno mai per noi. Mai. Noi perdiamo sempre.


9 marzo 1975



Base musicale : Anime salve - Fabrizio de André [ndr]

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