La trama
Rosenstrasse, il nome della via in cui nel '43, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, furono rinchiusi centinaia di ebrei provenienti dai matrimoni misti con ariani.
Di fronte all'edificio, trasformato in prigione, i loro coniugi hanno dimostrato finché non sono riusciti ad ottenere la scarcerazione dei loro cari, o almeno dei sopravvissuti (incredibile!).
Per rivivere questa drammatica pagina della storia, la regista, ci presenta Ruth Weinstein (Jutta Lampe) ormai settantenne che a New York, dove si è trasferita al termine della guerra, ha appena seppellito il marito. L'evento la riavvicina in maniera traumatica alla sua religione e per prima cosa decide di opporsi alle nozze della figlia, Hannah (Maria Schrader), con un uomo di religione non ebraica.
Questo improvviso cambiamento della madre preoccupa Hannah che inizia ad indagare sul suo passato scoprendo come la nonna fosse stata una delle vittime della Rosenstrasse e di come sua madre fosse stata adottata da Lena (Katja Riemann) una delle tante anime disperate che lottava per la liberazione del marito.
Lena, di estrazione nobiliare, vive con ancor maggior orrore gli eventi del nazismo. Ripudiata dal padre, fervente portabandiera degli ideali del Fuehrer, allontanata da una società che fino a pochi anni prima l'aveva idolatrata come una delle più promettenti pianiste della Germania, si trova a patire la fame e le umiliazioni di migliaia di altri disperati.
Dalle recensioni
Valerio Salvi
I film sull'Olocausto hanno sempre una carica emotiva devastante, come potrebbe essere altrimenti, e questo della von Trotta non fa certo eccezione. Tra l'altro va ascritto alla cineasta di essere l'unica tedesca ad aver affrontato questo tema, che è particolarmente spinoso per i teutonici.
La visione di Margarethe non è assolutamente parziale e mostra i due lati della Germania, quella oltranzista e quella della gente comune che vede deportare persone con cui ha condiviso la vita fino a pochi giorni prima, senza spesso sapere quale fosse il reale destino di quegli sventurati.
Un grande affresco realizzato con un budget hollywoodiano che si muove continuamente ed abilmente tra passato e presente, ma sofferente di una lunghezza eccessiva che allunga l'agonia dello spettatore per poi dargli lo zuccherino finale.
Rosenstrasse», le donne che piegarono Hitler di Gabriella Gallozzi
«Era da dieci anni che volevo fare questo film - spiega la regista tedesca - ma in Germania non si fa altro che produrre commedie». A suggerirle il soggetto, prosegue ancora, è stato il marito Volker Schlondorff: «Anni fa mi raccontò questa storia e mi disse che era il film che dovevo fare. Poi uscì un documentario e se ne incominciò a parlare.
Ma fino a un po' di tempo fa certi temi non erano accettati facilmente. Far conoscere episodi di resistenza come questi o come quello raccontato da Schindler's List cambia la prospettiva. Fa capire che in realtà si sarebbe potuto fare qualcosa contro il nazismo se solo si fosse stati disposti a comportamenti più coraggiosi». Come quello delle donne di Rosenstrasse, appunto. Quasi delle madri di Plaza de Majo ante litteram, anche se la regista sottolinea che il loro non fu un movimento politico come quello delle donne argentine. «A portarle lì - prosegue - era la disperazione, l'amore per i loro uomini.
La protesta fu quasi tutta al femminile perché i "mariti ariani" che si videro portare via le loro mogli ebree spesso divorziarono subito. Non perché fossero cattivi, diciamo così, ma perché sugli uomini le limitazioni dettate dalle leggi razziali erano più pesanti. Si trattava di perdere il proprio lavoro o di finire nelle fabbriche di armi. Le donne, invece, stavano comunque a casa e non avevano problemi di carriera».
Comunque sia Rosenstrasse è un film che sicuramente farà discutere molto. E riporta alle atmosfere de Il pianista, Palma D'oro a Cannes 2002.
Un film che Margarethe von Trotta dice di aver amato moltissimo e col quale ha in comune persino una parte di set: la strada, infatti, è la stessa in cui Polanski ha ricostruito il suo ghetto di Varsavia occupato dai nazisti. Nazisti spietati e senza umanità così come li ritrae anche la regista tedesca. E a chi le chiede come mai, dopo la guerra, degli uomini così spietati si siano potuti rifare una «verginità» e tornare ad una vita normale, lei risponde: «Mi sembra che una domanda del genere si possa rivolgere anche agli italiani, no?».
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Sull’episodio è da ricordare il lavoro documentario della giornalista Nina Schröder, Le donne che sconfissero Hitler (traduzione di Paola Quadrelli, Pratiche editrice, pagg. 287, lire 34.000), un libro che, pur senza ambizioni storiografiche, ha il merito di dar voce a quelle eroine inconsapevoli e dimenticate. Resistenza del cuore, l'ha definita con un'efficace formula lo storico ebreo di Harvard Nathan Stoltzfus nel suo saggio Resistance of the heart, il primo studio scientifico su quell'evento.
Il fascino di Rosenstrasse, tra le molte storie minori della guerra nazista, è anche nel velo di omissioni che, fino a qualche tempo fa, l'ha tenacemente avvolta. Una "rimozione collettiva", denuncia Nina Schröder, che può destare qualche sospetto: «Nessuno in fondo ha voluto riconoscere ciò che quelle donne avevano dimostrato: cioè che non tutti gli atti di opposizione fossero impossibili e condannati sin da principio al fallimento». Anche Gad Beck, ottuagenario arguto che nel marzo del 1943 trascorse otto giorni nell'edificio di Rosenstrasse, ne è convinto:
«Nessuno s'è occupato di quella vicenda perché la stessa possibilità di una protesta avrebbe finito per privare i tedeschi della loro pace interiore». Il lungo silenzio è imputabile anche ad altre ragioni: grazie alla manifestazione berlinese si salvò dalla deportazione soltanto un gruppo "privilegiato" (se così si può dire), costituito da quel migliaio di ebrei che poteva ripararsi dietro un genitore o un coniuge di "razza ariana", mentre tutti gli altri ebrei arrestati durante la retata ordinata da Goebbels nelle fabbriche - la cosiddetta FabrikAktion - furono spediti nei lager. «I fatti di Rosenstrasse», commenta Miriam Beck, un'ebrea catturata nel marzo del 1943, «furono messi in secondo piano da atrocità ben più terribili. Eppure è stata la prima e unica protesta pubblica contro la deportazione degli ebrei». Alla prolungata rimozione contribuirono le omissioni degli stessi protagonisti, più rivolti al futuro che verso quel passato di pura sopravvivenza. «Carnefici e vittime», commenta Gerhard Braun, «hanno effettivamente una cosa in comune: tendono a rimuovere».
L’episodio è citato anche in
Tutte le alternative al ricorso alla forza di Nanni Salio
Oltre ai casi più noti ed esemplari [Gandhi e Badshah Khan contro il colonialismo inglese, Martin Luther King per i diritti civili degli afroamericani, Nelson Mandela e Desmond Tutu contro l'apartheid] dobbiamo ricordare sia le molte lotte nel corso delle quali sono stati abbattuti regimi considerati totalitari [la cacciata di Marcos nel 1986 dalle Filippine, la stagione del 1989 con le straordinarie lotte nonviolente nei paesi dell'Europa dell'est], sia i numerosi episodi di resistenza civile non armata durante il nazifascismo [resistenza della popolazione danese contro la deportazione degli ebrei e degli insegnanti norvegesi contro il regime filonazista di Quisling], con lo straordinario episodio delle "donne della Rosenstrasse", avvenuto nel cuore stesso del nazismo, nel marzo 1943, a Berlino, quando migliaia di donne ariane, sposate con mariti ebrei, rimasero per più giorni sotto la sede della Gestapo per protestare contro l'arresto dei loro mariti, sino a quando furono liberati
Interessante il commento
Ognuno di questi episodi fu caratterizzato dall'esistenza di una posta in gioco alta, e condivisa da larga parte della popolazione, che seppe unirsi e contrastare un potere apparentemente molto più forte, dando fiducia agli oppressi attraverso la resistenza nonviolenta, la cui dinamica è caratterizzata dalla presenza di un gruppo di protesta e di azione capace di resistere alla repressione dell'avversario senza rispondere con altra violenza. Lo scopo è quello di sottrarre il consenso delle parti esterne indifferenti, sul quale si regge il potere dell'oppressore. Si verifica, allora, lentamente, lo sgretolamento delle strutture di dominio, e la violenza dell'oppressore si ritorce contro di lui in una sorta di boomerang, che Sharp chiama "ju-jitsu politico".
meri - 31-01-2004
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ho visto il film, mi ha emozionato, fatto riflettere, mi ha rivelato un aspetto del nazismo che non conoscevo, è un film che bisognerebbe far vedere ai ragazzi di scuola media, la memoria di ciò che avvenne non si deve perdere, tanto più oggi che si fa revisionismo su ogni fatto storico |
Redazione - 01-02-2004
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Riceviamo una recensione , interessante per il suo porre in luce l'ambiguità del fenomeno "nazismo" e soprattutto delle sue interpretazioni, ieri come oggi.
Sembra essersi fermato nel tempo il cinema di Margarethe Von Trotta. Il suo Rosenstrasse, presentato in concorso alla 60esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, sebbene riporti la cineasta tedesca dietro la macchina da presa dopo quasi dieci anni di assenza, ci immette direttamente nelle atmosfere di quel cinema cosiddetto impegnato, che da sempre caratterizza la sua filmografia, lasciandosi la deludente sensazione di trovarsi di fronte ad uno sguardo rimasto occluso, a un cinema uguale a se stesso, diluito negli intenti critici, dove tutto suona sempre forzatamente giusto. A metà tra fiction e ricostruzione documentaristica (testimoniata da una meticolosa cura per il dettaglio), Rosenstrasse, come tutti i film della Von Trotta, vuole infatti raccontarci la Storia, quella con la S maiuscola, passando attraverso le microstorie di tre personaggi femminili. Tre donne, tre eroine al contempo fragili e forti, appartenti a tre generazioni differenti e legate tra loro, oltre che da un rapporto di amicizia e di parentela, da una identità comune: essere ebree tedesche, depositarie di una memoria storica che va indiscutibilmente preservata, soprattutto oggi, in vista dell'avanzare di un minaccioso revisionismo. Come allora, la Von Trotta adotta un punto di vista femminile e attraverso questo ci racconta un'altra Seconda Guerra mondiale, quella vissuta dagli ebrei tedeschi sposati a donne ariane. Una storia poco conosciuta, che è servita però alla regista per porre l'accento sulla fedeltà delle donne tedesche: la stessa che, come ha ammesso poi in un'intervista, ha contribuito nel 1943 all'ascesa politica di Adolf Hitler. Dopo dieci anni però, i toni sono smorzati e la sincerità pure: ciò che preme alla Von Trotta è restituirci la sofferenza e la solitudine di queste tre donne, e per farlo non manca di scivolare nel puro compiacimento, pur restando alla fine distante. Dopo dieci anni, la Von Trotta non solo quindi sembra firmare la sua rinuncia nei confronti della Germania contemporanea, ma non esita a riproporci l'ennesima variante su tema, utilizzando anche una formula straabusata, come quella del racconto del sopravvissuto, con tanto di flashback in bianco e nero. Una mancanza di vigore imperdonabile dopo un così lungo silenzio a cui si aggiunge l'amarezza per uno sguardo che oggi, in virtù degli sviluppi attuali del conflitto israelo-palestinese, rischia addirittura per apparire conservatore...
da Simona Pellino in Sentieri Selvaggi |
antonella - 27-01-2005
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Oggi ho visto questo film a scuola e anche a me ha fatto riflettere. Frequento il primo anno al liceo Scientifico e trovo interessante la proposta di far vedere nelle scuole questo film invece di quei noiosi documentari che già studiamo sui libri...grazie per l'attenzione.
Distinti saluti |