Lo pensò Hitler, scampò al Reich, motorizzò i nostri sogni. Addio Maggiolino
Ieri a Puebla, in Messico, la Volkswagen ha prodotto il suo ultimo Maggiolino. Ha venduto 22 milioni di esemplari in tutto il mondo. Come lui nessuno mai
Il Führer lo volle, l'ingegner Porsche lo fece, sopravvisse a guerra e denazificazione, invase il pianeta. Oggi saluta tutti. L'ultimo andrà in un museo
Era il 1924, Adolf Hitler era in galera e magari non fosse mai uscito. Invece il mondo è un luogo ingiustificabile e il capo nazista uscì e mise in pratica alcune delle cose elaborate dietro le sbarre. Una non era mostruosa. L'ingegner Ferdinand Porsche ricevette l'ordine di metterla in pratica. Fammi una macchina che non costi più di mille ReichMark, non consumi più di sette con un litro, tenga i cento all'ora, sia raffreddata ad aria e porti quattro persone. Era il Maggiolino. Visse più del Reich. Ieri è morto. Un corteo funebre a Wolfsburg e un malinconico ballo di mariachi a Puebla hanno salutato la produzione dell'ultimo Volkswagen «sedan clasico», come lo chiamano ufficialmente in Messico. A Puebla, vicino ai vulcani e al luogo con la maggior percentuale di Maggiolini per abitante del mondo (che è Città del Messico, come sa chiunque abbia rischiato di essere investito, sia stato rapinato o riportato a casa ubriaco o incontrato l'avventura della sua vita a bordo di un taxi, che sono praticamente tutti Maggiolini) c'era l'ultimo stabilimento planetario che ancora fabbricava quella specie di leggenda a quattro ruote. Ormai pochissimi, una cinquantina al giorno, chiamati «ultima edicion» - «last edition» per i gringos che ancora apprezzavano e apprezzeranno i tremila ultimi esemplari a prezzi da collezione. L'ultima uscita dalla linea di produzione della fabbrica di Puebla, una struggente versione retrò con le forme pienotte e le gomme bordate di bianco come i tempi che furono, non farà un metro di strada. Sarà portata come una reliquia dove l'avventura cominciò, il Museo della Volkswagen di Wolfsburg. Ricordati che devi morire, ma sia dopo molti molti chilometri.
Il terrificante nome scelto da Hitler per la «sua» macchina sparì più velocemente di lui. Quel povero prototipo annunciato dal Führer in persona alla Fiera dell'automobile di Berlino nel `34 e prodotto nel `36 in numero di tre esemplari, testato con la tradizionale ferocia che il regime impiegava in ogni cosa, si chiamava
Kdf, Kraft durch Freude, "forza attraverso la gioia". Una vera schifezza, e mentre nello stadio olimpico il negrissimo Jesse Owens sbriciolava sui cento piani la superiorità della razza ariana, i collaudatori di Porsche tentavano di tenere alta la superiorità tecnologica sottoponendo le prime macchine a un massacro di test. Ma il vero test fu la guerra, e in questo c'è qualcosa di molto attuale.
Hitler spedì al macello qualche milione di tedeschi in divisa e qualche centinaio di migliaia di automezzi. L'auto di Porsche aveva a bordo una quantità di brevetti, il più noto il telaio portante con avantreno e retrotreno a barre di torsione. Era ammortizzata come una carrozza - cioé in modo infame - e faceva un certo qual rumoraccio, ma la carrozzeria ci andava imbullonata sopra, qualsiasi carrozzeria, e con quattro modifiche potevi attraversarci indifferentemente il deserto o la Manica. Le richieste iniziali furono modificate, tipo «tre persone, una mitragliatrice pesante e munizioni», e la Kdf che ormai si chiamava Volkswagen, auto del popolo, diventò Kubelwagen (auto a forma di secchio, in qualità di camionetta militare) e Schwimmingwagen (auto che nuota, e anche in acqua faceva dieci chilometri all'ora) e altre Chissacchèwagen, per la gloria del Reich. Finché la guerra finì.
Il Maggiolino rischiò di far parte della denazificazione, gli stabilimenti di Wolfsburg semidistrutti, l'ingegner Porsche prigioniero in Francia e accusato di crimini di guerra (dal concorrente Pierre Peugeot, peraltro). Lo salva il maggiore britannico Ivan Hirst, che nel `38 ne aveva guidato uno. Aveva una faccia assolutamente hitleriana, il maggiore Hirts del Reggimento del Duca di Wellington, nel senso di brutta, coi capelli impomatati e i baffetti, ma decise di non smantellare Wolfsburg e anzi restituirla ai tedeschi. Nel `49 l'ingegner Porsche tornò in Germania e per le strade giravano le sue macchinette. Morì quasi subito. Mentre la Volkswagen riusciva dove Hitler aveva fallito: invadere il mondo.
Volkswagen era il nome della macchina, non della fabbrica, del prodotto, non del produttore. Svizzera, Olanda, Svezia, Danimarca, Lussemburgo, Belgio, poi Stati uniti, negli anni `50 in Brasile e nei `60 in Messico e Sudafrica. La chiamano sempre in modo diverso, la vetturetta, e alla fine degli anni `60 diventa ufficiale il nome più famoso: Beetle, Maggiolino. E' il successo. Negli anni `70 il Maggiolino brucia il record mondiale di auto vendute - era della Ford modello T, mica palle, quella che la potete avere di qualsiasi colore purché nera, quella che ha creato la motorizzazione di massa, insomma la madre di tutte le auto. E cambia. Il glorioso avantreno a bracci di torsione viene sostituito da morbide ed economiche sospensioni McPherson, il muso si tondeggia, i semiassi dotati di doppio snodo, l'impianto elettrico da 6 a 12 volt. E' il Maggiolone. Quello che motorizzerà la vita e i sogni di qualche generazione.
Inseguito dalla concorrenza, nel '78 il Maggiolino finisce di essere prodotto in Europa, chiudono poco a poco tutte le linee di produzione, nel `96 resta solo quella di Puebla in Messico dove va ancora fortissimo, ha tante prenotazioni che per ingannare l'attesa la Volkswagen Mexico ne sortegga ogni mese un certo numero tra i clienti in attesa. Nel mondo ricco esce intanto la New Beetle, slogan «se avete venduto l'anima negli anni Ottanta ora potete ricomprarla», ma è un'altra cosa. Ieri la linea 28 della fabbrica di Puebla ha prodotto l'ultima gloria. Requiem.
ROBERTO ZANINI
31 luglio 2003