Ulisse, Edipo e la Sfinge
Emanuela Cerutti - 24-11-2001
Il “fatto” puo’ essere un tema, andato male ai tre quarti di una classe di scuola superiore e la successiva discussione, o l’arrivo, puntuale come le bollette del telefono, delle verifiche bimestrali nella scuola elementare; o, ancora, il rifiuto senza condizioni dei correttivi che i grandi credono di poter imporre con facilità ai piccoli, imprevisti ribelli.
All’oggetto, in ognuno dei casi citati, parrebbe normale leggere: “Rapporto verità-errore.
P.s.: Conseguenti atteggiamenti valutativi consigliati”.
Si verificano, però, situazioni bizzarre, che prestano il fianco a dubbi legittimi: l’errore di chi? Quale infallibilità si sta difendendo? Quali paure si nascondono dietro la severa stigmatizzazione numericamente o percentualmente espressa?
Ciò che rende bizzarre tali situazioni non è tanto la quantificazione, fredda ed oggettiva, del distacco tra obiettivi e risultati, quanto la sproporzione tra risultati e reazioni soggettive da parte di chi valuta, il che trascina con sé una serie infinita di dinamiche conflittuali apparentemente non pertinenti.
Così l’alunno, prima, e lo studente, poi, oltre che con un rimprovero o con un quattro, si trovano a fare i conti con un quadro di riferimento valoriale determinato dal binomio approvazione-rifiuto da parte di più di un docente, dove il polo positivo è costituito da regole predeterminate, successo, consenso e quello negativo da ricerca personale, insuccesso, dissenso.
L’errore è uno sbaglio: non si accettano “messaggi” in termini di relazione biunivoca. La legge è l’unicità. Chi sbaglia è “dall’altra parte della cattedra”, è addirittura “cattivo”, come il bambino che disobbedisce. Niente feed-back positivo, paradossale crisi del rapporto, incredibile scivolata nei sensi di colpa. Le certezze non si modificano: che cosa offrire, in cambio?

Piaget parlava di un’intelligenza che va a tentoni, quasi barcollando, proprio come fa il bambino quando impara a camminare. Altri, dopo di lui, hanno evidenziato la necessità della compresenza, nella mente in formazione, della fase oscillatoria (la probabilità, la possibilità) e di quella binaria (la sicurezza, la prevedibilità). Così si costruisce la “rete”, fatta di fune e di nodi.
Senza la possibilità di errare, di quel vagare nell’incertezza alla ricerca di punti fermi, superandoli in continuazione per raggiungerne altri, non si dà conoscenza e neppure personalità equilibrata.
Il pensiero viene congelato alla superficie della ripetitività. Cancellato lo spazio creativo, cancellate le domande, il rischio, la libertà dell’essere se stessi prima che prodotto altrui. Cancellata quella capacità di autoadattarsi reciprocamente che sarà il tessuto di domani. Cancellata la fiducia in se stessi, troppo esposti al negativo per auto regolarsi; cancellata la possibilità di informazioni incrociate che aiutino ad avvicinare le diverse mappe rappresentative della realtà per procedere nella sua creazione. Cancellata la motivazione, come quando tutto è già scritto.
Tutto questo di giorno, nella finzione delle aule che rimangono asettiche, nell’allontanare da sé qualcosa che lascia quella sottile sensazione di disagio, nell’imparare a non dire.
Poi, nel tempo finalmente libero, quello di sè che conta.

Concludo con una citazione da Eugène Enriquez :”Ulisse, Edipo e la Sfinge” e la dedico, di cuore, a tutti quegli insegnanti che forse non immaginano cosa può succedere, “dentro”, dopo.
Forse.
“Edipo, dando la risposta esatta all’enigma postogli dalla Sfinge, crede di essere il portatore della verità…Egli diverrà, invece, portatore dell’incesto e responsabile…della peste di Atene. Conoscere e pronunciare le buone risposte porta …all’oblio del sapere, che va sempre rimesso in questione. Quanto alla Sfinge, mostro che propone enigmi di cui è il solo a detenere la chiave…è colei che è tutta costrizione, legge esterna totalmente arbitraria, e quindi incapace di fondare un ordine sociale in cui tutti gli uomini possano riconoscersi…Nell’un caso e nell’altro è sempre la morte ad avere l’ultima parola. Allora…che cosa ci resta se non la saggezza di Ulisse? Di colui che sa bene di dover navigare tenendo conto della forza dei venti e della volontà degli dei… colui che apprenderà di poter essere se stesso che accettando di essere sviato, messo in causa…e di poter trionfare solo assumendo queste sconfitte e queste cadute… La saggezza di Ulisse è l’accettazione del temporaneo, dell’effimero, del lavoro che va sempre ricominciato…E’ a questa sola condizione che vivrà e farà vivere gli altri”

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf