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Cittadini postumi
Il Manifesto - 07-04-2003
Soldato Gutierrez, "alieno" in guerra

FRANCO PANTARELLI
NEW YORK

José Gutierrez era un guatemalteco di 22 anni. A 12 aveva lasciato il suo paese e si era imbarcato in un'avventura non proprio acconcia a quell'età, ma se sei povero cresci più in fretta. Così lui aveva varcato il confine con il Messico, lo aveva attraversato tutto ed era entrato illegalmente nella terra promessa: gli Stati uniti. A differenza di molti altri con la sua stessa storia, che vanno avanti per anni nella condizione di «illegali» e quindi ricattabili e quindi destinati a lavorare il doppio e guadagnare la metà di quelli «con le carte a posto», lui era stato fortunato. Aveva trovato una famiglia che lo aveva adottato ed era andato perfino a scuola. Ed è stato probabilmente lì, a scuola, che si è imbattuto nei «reclutatori», cioè quelli che vanno a parlare con i ragazzi per magnificargli la bellezza della vita militare se sono cittadini americani e per prospettargli la possibilità di diventarlo se sono «alieni», come si dice qui. Con José Gutierrez non devono essere stati necessari tanti sforzi per convincerlo. La prospettiva di non essere più un «alieno» dev'essere stata di quelle che troncano ogni dubbio, e infatti subito dopo la scuola si è ritrovato nei marines e la sua avventura è finita l'altro giorno a Umm Qasr. Da uno dei 37.000 membri della «legione straniera» americana, soldati che combattono per questo Paese senza esserne cittadini, è diventato una delle prime «perdite» di questa guerra insensata. José Angel Garibay, invece, negli Stati uniti c'era arrivato da bambino, portato dalla madre che per andare incontro a una vita di portantina in un ospedale di Costa Mesa, in California, aveva lasciato il marito. Anche le carte di José Angel erano a posto, ma non abbastanza da farne un regolare cittadino con tutti i diritti connessi, e anche lui è probabile che abbia incontrato i reclutatori a scuola, visto che come José Gutierrez aveva deciso di arruolarsi subito dopo la fine delle superiori. La sua, di avventura, è finita a Nasiriyah. Di anni ne aveva ventuno.

Per tutti e due, ora, è il momento del sogno che si realizza. Non saranno più alieni. «Hanno combattuto per questo paese. E' giusto che vengano sepolti come cittadini americani», dice il maggiore dei marines Brian Dolan, con la voce tanto commossa da cancellare sul nascere ogni sospetto di ironia. Del resto sono state le stesse famiglie dei due ragazzi a raccontare che proprio quello era il loro più grande desiderio. E siccome George Bush, nella sua misericordia, proprio nel giugno scorso ha firmato un «executive order» che stabilisce il concetto di «cittadinanza postuma» e ne agevola l'iter burocratico, la cosa accadrà. La famiglia adottiva di José Gutierrez si è detta «onorata». La disperata madre di José Angel Garibay, Simona, ha raccontato invece che suo figlio non amava l'idea di combattere, che nei marines c'era andato solo per «costruirsi una vita migliore», che il suo progetto era di lasciare alla fine della «ferma» il prossimo anno per entrare nella polizia e che «il presidente dovrebbe avere pietà di madri come me e fermare la guerra».

Queste due storie, unite alle altre simili (dei dieci soldati californiani morti finora cinque erano latinos), hanno avuto anche un altro effetto collaterale: da giorni l'ambasciata americana a Città del Messico è assediata non solo da manifestanti che agitano cartelli con l'immagine di Che Guevara e slogan contro la guerra ma anche da giovani che offrono di arruolarsi in cambio della cittadinanza Usa. Nella loro disperazione, la guerra è vista come un'opportunità per conquistare allo stesso tempo un lavoro e la prospettiva di una vita «da americani». «E' un mito duro a morire - dice Jim Dickmeyer, funzionario dell'ambasciata - quello che gli Stati uniti danno la cittadinanza in cambio del servizio militare. Noi cerchiamo in tutti i modi di correggere questa falsa nozione, ma sono sempre molti quelli che continuano a crederla». In effetti, non è che le cose siano così semplici. La possibilità di passare direttamente dallo stato di «illegale» a quello di cittadino semplicemente entrando nelle forze amate non è contemplata dalla legge. Per essere arruolati bisogna già possedere la mitica «carta verde», cioè il permesso di lavoro. Ma anche le parole del funzionario dell'ambasciata a Città del Messico riflettono una verità parziale o comunque una verità recente, nel senso che fino all'attentato alle Torri Gemelle la regola di cui lui parla veniva applicata con una certa elasticità. Si sapeva per esempio che specie nelle fasi di stanca, quando fra i giovani americani si manifestavano allarmanti «crisi di vocazione» alla vita militare, c'erano molti casi di immigrati cui veniva concessa la «carta verde» in seguito alla promessa che una volta ottenutala si sarebbero arruolati e per tutti c'era la norma che dopo tre anni di «ferma» diventavano legalmente abilitati a presentare la richiesta di diventare cittadini americani. Dopo l'11 settembre 2001 si è fatto strada il timore che le maglie troppo lente in quel processo potessero consentire a qualche «malintenzionato» di infiltrarsi nelle forze armate e si è deciso di rendere le cose più rigide. L'«executive order» firmato da Bush nel giugno scorso ha anche decretato che circa la metà dei 37 mila «alieni» presenti nelle forze armate era abilitata a presentare la richiesta di cittadinanza senza aspettare che trascorressero i tre anni previsti. In pratica si è trattato di una «sanatoria», in vista del fatto che da quel momento in poi sarebbe stato più difficile per un «alieno» entrare nelle forze armate. E' stato un meccanismo a più facce, insomma, quello che ha finito per rendere possibile la mutazione di José Gutierrez e a José Angel Garibay, nati poveri, vissuti da alieni e morti da americani.

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