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L'IRAK IN SALDO
Famiglia cristiana - 26-03-2003
AD AMMAN FERVONO I PREPARATIVI PER IL DOPO SADDAM


Prima le bombe, poi la ricostruzione. I piani per il rilancio dell’economia irachena prevedono grandi investimenti e lauti guadagni. L’Onu ai margini, gli Usa vincono ancora.


Amman

Curiosa, la Giordania. La posizione geografica e qualche peccatuccio (aver goduto a lungo, per esempio, del petrolio comprato a metà prezzo dall’Irak) la spingono a tenere un profilo assai basso.

Ha dovuto accogliere i "consiglieri" americani, un piccolo gruppo di istruttori per i nuovi caccia F16 e 6.000 uomini delle truppe speciali, che se ne stanno zitti zitti in una base ad Al Ruwaishid, non lontano dai campi profughi per gli iracheni, a 60 chilometri dal confine, ma si fanno notare anche in borghese, quando vanno in libera uscita nella capitale: chi può avere quel taglio di capelli e quei muscoli, oltre ai Berretti Verdi?

Ma la Giordania ha anche evitato di aderire ufficialmente alla coalizione di George Bush e ha ricordato con energia agli Usa che il confine con l’Irak è terra giordana, e quindi…

Posizione strana, prudente. Così, tra le molte parti in commedia, Amman si è ritagliata quella di capitale del quattrino. Il luogo giusto per parlare del dopo: dopo Saddam, dopo guerra, dopo tutto. Sono qui tutte le grandi agenzie dell’Onu e moltissime Organizzazioni non governative (almeno 60 Ong, e solo cinque che abbiano progetti avviati in Irak; oltre alla Caritas, che ha 14 centri di assistenza a Baghdad, Mosul, Bassora e Kirkut), e da qui partirà il non troppo futuro sforzo per ricostruire l’Irak. Ma ci sono l’emergenza, i profughi, la guerra… Vero. Ma se si parla d’Irak, nulla è politico e militare come l’emergenza. E gli Usa lo hanno chiarito subito, imponendo a tutte le Ong di registrarsi presso l’Alto commando in Kuwait.

«Una mossa», spiega Fabio Alberti, presidente di Un ponte per (una di quelle famose cinque Ong, l’unica italiana), «che irrita e preoccupa le organizzazioni umanitarie. Noi non sappiamo ancora se accetteremo. Credo di no, e in quel caso non abbandoneremo gli iracheni, ma troveremo modi diversi di lavorare con loro».

L’emergenza e la politica, dunque. La prima discussione ha visto, tanto per cambiare, Onu da una parte e Usa e Gran Bretagna dall’altra.

La richiesta di Kofi Annan

Tema: il programma Oil for Food. Kofi Annan ha chiesto al Consiglio di sicurezza di alleggerire le restrizioni, per venire incontro alle esigenze di quel 60 per cento degli iracheni che prima della guerra viveva solo delle razioni alimentari distribuite dal regime e che, al cadere delle prime bombe, aveva riserve per due settimane nel migliore dei casi.

«Si può agire su molti punti dell’Oil for Food», spiega David Wimhurst, dell’Ufficio coordinamento affari umanitari dell’Onu: «Per favorire i controlli, le merci entravano in Irak da cinque soli posti di frontiera: oggi si può essere più elastici. Anche il numero e la qualità delle merci importabili può cambiare. Ma, soprattutto, sbrighiamoci a usare in modo utile quei 10 milioni di dollari di merci già pagate dall’Irak che ora sono ferme nei magazzini».

Kofi Annan vuole arrivare a una risoluzione su questo tema. La Russia freme, ha sontuosi contratti petroliferi con l’Irak e teme ogni cambiamento. Usa e Gran Bretagna fanno il pesce in barile, dicono che voteranno sì, ma intanto non sono tra i firmatari. Per una questione di buon gusto, pare.

Ma ciò che Kofi Annan vuole è che l’Onu abbia l’incarico, nell’Irak post Saddam, di gestire l’Oil for Food dall’inizio (vendita del petrolio iracheno) alla fine (distribuzione dei beni alla popolazione), e in tutti i 18 Governatorati, non solo nei tre del Nord come quando c’era Saddam. E su questo il gelo è totale.

I funzionari dell’Onu ad Amman, dietro promessa di non essere citati, ragionano così: «È solo una commedia. Gli americani ci chiederanno in ginocchio di occuparcene, tali e tanti saranno i problemi da risolvere».

Aggiunge David Wimhurst: «In base alla Convenzione di Ginevra, le forze armate Usa, quale esercito di occupazione, diventano responsabili della popolazione del Paese occupato. Mi pare che gli convenga lasciar fare a noi».

Sarà. Ma intanto le agenzie dell’Onu non ricevono dai Governi i quattrini necessari. L’Unhcr, per esempio, ha bisogno di 154 milioni di dollari (pari a sei mesi di assistenza per 600.000 profughi), ne ha avuti 25. Anche il World Food Program stenta: ha ricevuto 44 milioni di dollari (pari a cibo per due milioni di persone per un mese; gli iracheni sono 25 milioni), ma 40 arrivano dalla United States Agency for International Development (Usaid), agenzia del Dipartimento di Stato Usa: soldi di quella stessa Casa Bianca che, per "buon gusto", non partecipa alla risoluzione Onu sull’Oil for Food. In più, è un’elemosina: basta pensare che nella prima settimana di marzo, l’Oil for Food ha incassato 287 milioni di dollari, e l’Irak era comunque un Paese quasi alla fame.

A noi pare invece che la realtà sia ben diversa. In Irak gli Usa non sono di passaggio, anzi. Gli intellettuali del New American Century Project, che hanno posti nell’Amministrazione Bush e ispirano la teoria della guerra preventiva, l’hanno già detto senza mezzi termini: «…abbiamo intenzione di ricostruire l’Irak e di impiegare tutte le risorse e il tempo necessari… Fissare ora delle scadenze diminuirebbe le prospettive di successo. Sarà l’esercito americano a portare il peso maggiore… nel sostenere e organizzare gli sforzi per l’assistenza umanitaria». Chiaro, no?

Su questa linea, e in concreto, opera da mesi l’Usaid. Già in gennaio erano uscite indiscrezioni sul coinvolgimento della Halliburton, colosso dell’edilizia, del petrolio e di molto altro, di cui Dick Cheney (il vice di Bush) è stato presidente fino alla vigilia della campagna elettorale. Furono smentite.

E all’Onu resteranno le briciole

Ma guarda che succede ora: Usaid ha già lanciato una serie di gare d’appalto per giganteschi lavori in Irak e tra le aziende coinvolte (solo americane) ci sono la Halliburton, il Betchel Group (noto per il suo appoggio al Partito repubblicano) e la Fluor, dai cui ranghi sono usciti molti alti funzionari della Cia e del Pentagono. Un’altra azienda coinvolta è il Berger Group, che ha già vinto un appalto da 300 milioni di dollari per ricostruire, in Afghanistan, la strada tra Kabul e Herat. Per dare un’idea di come lavorano gli americani: Usaid ha appaltato i lavori di ricostruzione del porto iracheno di Um Qasr molti giorni prima che le truppe americane potessero dire di averlo conquistato.

La prima tornata di appalti vale un miliardo di dollari, giusto un assaggio. «Aspettate il resto», dice Andrew Natsios, direttore di Usaid, «al confronto questo non è niente. Anche se quelli che prevedono una spesa totale di 300 miliardi di dollari forse delirano: non vogliamo trasformare l’Irak in una gigantesca Park Avenue». Il prezzo è già fissato: 100 miliardi di dollari. Lo è al punto che il Senato ha approvato il piano di tagli fiscali deciso da Bush, riducendolo però da 726 a 626 miliardi, per pagare con quei soldi i lavori in Irak.

Alle Nazioni Unite, par di capire, resteranno le briciole.

Fulvio Scaglione
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