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Io ho paura
L'Unità - 16-03-2003
Nel film «Men in Black», una vicenda di fantascienza con molti effetti speciali, il filo della storia è questo: bisogna fare presto e trovare un piccolo oggetto misterioso, il solo che può impedire la guerra. L'alieno morente, rintracciato troppo tardi dai poliziotti dello spazio, ha un solo messaggio: fermate la guerra. I poliziotti sono americani. Tutta la loro avventura è basata su tolleranza per i diversi (mostri compresi) pazienza, tenacia, buon senso.
Il buon senso insegna: evitare i conflitti planetari. Quando il compito diventa «fermare la guerra» non si danno pace. Il ritmo diventa frenetico, c'è una corsa col tempo a cui noi spettatori siamo invitati ad assistere con il cuore in gola ma anche con fiducia. Possibile che i poliziotti dello spazio non vincano? Vincono. E la vittoria è la pace.
Possiamo dire, di questo film prodotto da Steven Spielberg, che è «tipicamente americano»?
So benissimo che, con questa proposta, mi metto fra coloro che nell'America non hanno mai visto il grande Satana, perché persino nei momenti degli sbagli peggiori è sempre stato il solo Paese a elaborare in se stesso gli anticorpi, gli anti-veleni, le denunce e le prove (che a volte non ci sarebbero mai state) dei propri errori.
In questo, lo so, c'è un elemento di solitudine. Da una parte c'è una tifoseria che grida accaldata all'America: «Vai, spacca tutto e vinci». E' una tifoseria in cui si aspetta e si incoraggia la guerra con irosa impazienza, qualcosa che - dalla seconda guerra mondiale - non era accaduto mai e sembrava non potesse mai più accadere. Sentite queste frasi: «Nuove esitazioni manderebbero segnali devastanti, di divisione e di impotenza, facendo il gioco di quell'ipocrita di Chirac e di quel farabutto di Saddam» (Il Foglio, editoriale 12 marzo). Oppure: «Il comportamento di Francia, Germania e Russia ha come unico precedente la resa al militarismo tedesco delle potenze che a Monaco, nel 1938, promettevano pace per la nostra epoca.
L'unico modo per rimediare a questo errore ormai è fare la guerra e vincerla». (Il Foglio, editoriale, 13 marzo).
Dall'altra parte si diffonde la persuasione che l'America sia non solo l'origine e la causa della guerra che sta per esplodere, ma l'origine di ogni altro male: consumi, penuria, sfruttamento, infelicità, negazione di diritti, fame e sete nel mondo, tutto. E si parla di America, non di George Bush, non di una scelta e di una linea politica, ma di tutta la cultura, di tutto il paese. Pensate come devono essersi sentiti soli coloro che, mentre erano impegnati nella lotta antifascista, si sentivano dire che il fascismo era l'espressione naturale e logica di tutto ciò che è italiano, qualcosa di acquisito nel passato e nella storia, qualcosa di inevitabile per il futuro.
Il fatto è che chi si è sempre sentito vicino all'America, dai tempi del piano Marshall a quelli di Robert Kennedy e della coraggiosa opposizione alla guerra nel Vietnam, dal comportamento pieno di dignità del presidente Carter, che ha evitato la guerra contro l'Iran, perfino mentre i suoi cittadini erano ostaggi, all'ostinato tentativo di Clinton di fare pace in Medio Oriente, vive questi giorni, queste ore con un senso di disorientata sorpresa. Infatti niente è più «un-american», estraneo alla vita e alla cultura americana, dell' auto-proclamarsi di George Bush solitario cavaliere investito di una missione divina. La tradizione americana, fin dal tempo dei padri fondatori, vieta ogni commistione fra Dio e la politica interna.
Quanto all'idea di arruolare Dio nella politica estera, tale idea era vista con sprezzo e compatimento come il «vezzo delle tiranniche monarchie d'Europa», come si legge nei «Federalist Papers». Per questo spaventa che i grandi fiumi di pace siano, al loro interno, percorsi da torrenti impetuosi di ostilità che implica una condanna totale, un rigetto assoluto di tutto ciò che è americano, trascurando anche i segnali di opposizione alla guerra e di impegno per la pace che vengono numerosi da quel paese, dalle voci più tipiche e riconoscibili e autorevoli della sua cultura.

Questo è un paesaggio nuovo. Nuovo e temibile. E' nuova la determinazione di questo governo americano secondo cui la guerra è la vera, la sola strada possibile. E' nuovo l'atteggiamento di disprezzo invece del dialogo verso alleati ed amici che sono al di sopra di ogni sospetto, come la Francia e la Germania. E' nuova l'incuria di gesti, movimenti, iniziative, che spezzano alleanze che sono sempre state considerate sacre, per improvvisare coalizioni di «volenterosi», del cui senso politico non si sa nulla.
E' nuova l'inclinazione a distruggere, se necessario, i soli luoghi di incontro e di intesa della vita internazionale, prima di tutto le Nazioni Unite. E' nuovo, del tutto estraneo a decenni di cultura politica americana, fissare ossessivamente lo sguardo in un solo punto, mentre il mondo, dalla ex Jugoslavia all'India, dal Pakistan alla Corea del Nord, danno forti segnali di pericolo. Ed è nuova la spaccatura europea. Dovunque è un tormento. L' Italia ha visto il sorgere degli ultras della guerra, una vera e propria invocazione all'attacco, con una frenesia da stadio.
Per questo non è sembrato fuori posto, ad alcuni di noi, dare spazio all'iniziativa Pannella-Bonino per tentare di ottenere l'esilio di Saddam Hussein e una presenza garante delle Nazioni Unite.
E' un tipo di impegno che - nel passato - a volte è riuscito e a volte no.
Ma serve a contrapporre un pezzo di lavoro in più alla invocazione assoluta della guerra come bene in se.
E' di Gandhi, ma anche di Martin Luther King, l'idea che ogni azione di pace debba avere un senso pedagogico, lasciare una traccia che insegni qualcosa.
In questo caso accende un dibattito che coinvolge anche persone non immediatamente orientate alla pace ma piene di dubbi sulla guerra. Dunque arricchisce il dibattito, allarga il cerchio. E' toccato a una donna intelligente, che è anche la moglie del capo di un governo italiano orientato alla guerra, di dire una cosa toccante: chi manifesta per la pace, manifesta anche contro il senso di isolamento che porta con se la minaccia di guerra. Chi ha vissuto la guerra ne ricorda l'orrenda solitudine.
Nei giorni scorsi Umberto Eco ha citato la frase di Erasmo da Rotterdam: «Dulce bellum inespertis». La guerra può piacere solo a chi non ne sa niente.
Forse per questo uno che ne sa qualcosa, Carlo Azeglio Ciampi, nella giornata di venerdì, ha ricordato - ci viene detto - al presidente del Consiglio Berlusconi che l'art. 11 della Costituzione italiana, e il legame con le Nazioni Unite, impediscono all'Italia di prendere parte a una guerra unilaterale e preventiva. La solitudine si è un po' diradata. La paura resta. Perché la guerra ci sarà e nessuno, tra i fidati consiglieri di Bush che l'hanno disegnata, saprebbe indicarne le conseguenze.

Furio Colombo
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