tam tam |  NO WAR  |
La guerra spiegata da mio figlio
Italia Democratica - 11-03-2003
DIALOGHI. La guerra spiegata da mio figlio

di Nando dalla Chiesa

l'Unità, 11 marzo 2003


"Io ho ventiquattro anni, posso almeno a questa età
sognare un governo di sinistra,
desiderare di essere rappresentato, posso?"


"Voi dite che quelli dei pacifisti sono metodi inaccettabili
prima ancora di dire che c'è la guerra da evitare..."




I treni, i disobbedienti. La politica e le nuove generazioni, la pace e il senso comune. Tornai a casa a mezzanotte passata, dopo il consiglio comunale e un'assemblea con i movimenti milanesi. Tornò anche mio figlio. Il tempo di incominciare a parlare e giunsero le immagini di un telegiornale. I pacifisti che bloccavano non so quale treno e le consuete dichiarazioni messe in fila, comicamente lottizzate come sempre. Rifondazione, comunisti e verdi che difendevano i manifestanti. Le anime governative che attaccavano. L'opposizione maggiore che taceva o prendeva le distanze. Mio figlio scoppiò subito per la rabbia. Ma perché tacciono?, mi chiese. Ma perché non devono dire che fanno bene? Stanno cercando di impedire la guerra, o no? Perché li devono attaccare, per piacere agli altri?
E andò subito oltre. Con foga, con irruenza. Ma che cosa sono Ds e Margherita? Eh, dimmi: a che cosa servono la Margherita e i Ds? A niente servono. Un ammasso di persone per non dire niente.
L'orgoglio e l'amor proprio risultarono feriti da subito, inutile negarlo. Che cosa potevo mai rispondergli, gli enumeravo le battaglie di un anno e mezzo in cui ne abbiamo viste e dovute inventare di ogni colore? Lui queste cose le sapeva benissimo. Della giustizia, della Cirami, delle manifestazioni sempre più grandi. Tutto sapeva e aveva visto. Lui continuava a dirmi "Io ti stimo, lo so quello che hai fatto", ma capivo perfettamente che la sua rabbia chiamava in causa anche me. E che ogni volta che incrocia le esigenze o i sentimenti dei giovani, la politica si muove felpata, non li vede, quei volti e quei corpi, non sa sorridergli, non ne annusa gli istinti vitali e incontenibili. Gli istinti che ora portavano questo capo scout che ama i suoi bambini, che dedica loro serate e week end, che osserva la politica da lontano, ad appassionarsi e infuocarsi come sempre, quando giunge il momento della pace, del terzo mondo offeso, dei diritti umani calpestati dagli interessi economici.




Tranquilli, nessun terzomondismo di ritorno. No, mio figlio non sa nemmeno che cosa sia il cattocomunismo. Ha solo un senso elementare di giustizia che gli esplode dentro, come già a Genova, quando andò per partecipare e tornò sconvolto per quel che aveva visto. Genova e ora i treni. Noi politici del centrosinistra e loro, i giovani "che non fanno più politica", del "guardiamoci stasera, in questa sala non c'è neanche un giovane", gag numero sette delle nostre riunioni, con moti di assenso assicurati. Io non mi sento rappresentato, diceva e ripeteva, metà ira metà disperazione. Io voglio un governo di sinistra, basta con questa idea del centrosinistra che deve stare attento, prudentemente attento, a dire dov'è il giusto, questo centrosinistra sempre muto e che non può parlare. Bravo, gli ribattei seccato a mia volta, e allora tieniti Berlusconi per dieci anni. Perché così stanno le cose. Se lo vuoi sconfiggere devi mettere insieme tutto, e ci sono anche quelli che i blocchi dei treni non li condividono. Sul valore della legalità di fronte alla guerra senza Onu sapevo già che era proprio inutile spendere ogni parola. Perciò cercavo di tenere il discorso su un altro piano. Noi non possiamo essere solo sinistra. Abbiamo delle responsabilità. Noi dobbiamo governare proprio per evitare le cose che a te non piacciono e che ti fanno male. E allora, insorse lui, ha ragione Bertinotti. Altre volte proprio no, ma ora è Bertinotti che mi rappresenta. Almeno lui parla, come a Genova. Gli altri stanno zitti. Non servono a niente.
Fremevo anch'io, di disagio più che di rabbia. C'è una divisione dei ruoli, ripresi. E anche Bertinotti ci sta dentro, e cerca di trarne il massimo vantaggio anche lui. Noi se vogliamo tenerci il voto del nostro elettorato non possiamo seguire i pacifisti su queste forme di lotta, ma come fai a non capirlo? Ragionamenti ultrapolitici e al tempo stesso nemmeno troppo. Perché se Rifondazione dovesse mai pesare molto a sinistra, magari grazie alla nostra inerzia su certe grandi questioni, anche il famoso Ulivo allargato potrebbe perdere qualche voto. Ma a queste cose non pensai affatto in quel momento. Gli dissi solo: ma che cosa stai dicendo, non lo sai che c'è mezzo Ds che su questi temi la pensa come Rifondazione e i verdi, che nella Margherita siamo in tanti a capire, almeno a capire, le lotte dei pacifisti? La risposta fu senz'appello. Ma per favore, ma per favore, per me i Ds sono Fassino e D'Alema. E la Margherita è Rutelli. Restai disorientato. Ma che dici, perché non ti leggi i giornali?, feci io praticamente annullato da quella identificazione assoluta, via la Bindi, via Realacci, via la Magistrelli o me stesso. Leggili - i giornali - e impara, invece di parlare a vanvera.
La frittata all'una e passa di notte era fatta. Ah bene, è questo il dialogo. "Impara" mi sai dire, questo adesso è il tuo modo di ragionare. Se ne andò in camera da letto, visibilmente offeso, alterato, dolorosamente umiliato. Santo cielo. Mi sembrava di risentire la litania politica numero tre: "dobbiamo conquistare i giovani". I giovani di piazza San Giovanni, delle bandiere della pace, i dodicimila del Palavobis o come si chiama ora - ogni cosa basta pagare e le cambiano il nome - tutti lì a sentir musica per la pace un lunedì sera. Dobbiamo conquistarli e io non ero capace neanche di parlare con mio figlio. Che non ha mai messo piede a un'assemblea politica, che ce l'ha con quelli che masticano e rimasticano ideologie di sinistra, ma che mostrava, per la seconda volta nella sua vita, una radicalità sorprendente.

Ero spiazzato. E parlavo a voce alta con mia moglie che lo difendeva. Dicevo a voce alta che non sopportavo quella sua arroganza proprio perché mi sentisse dalla sua stanza. Dopo un quarto d'ora aprì la porta e tornò lui in salotto. C'era qualcosa di grande nel suo tentativo di dialogo, qualcosa di grande, voglio dire, per quella che è la fisiologia dei rapporti tra padre e figlio. Voleva farmi capire, lui voleva farmi capire. Si vedeva che comprimeva i toni, per non mettersi contro di me, che schiacciava la rabbia con cui avrebbe parlato al mondo se il mondo glielo avesse consentito.
Iniziò quasi un monologo inarrestabile. Fino alle tre del mattino, titolo i giovani e la politica oggi, tutto quello che i partiti non sanno o non capiscono. Te lo ripeto, iniziò, io ti stimo, lo so che cosa fai, io voto le persone. Ho votato Rifondazione come ho votato te, come ho votato Basilio Rizzo al Comune. Forse tu hai ragione. Ma tu me l'hai sempre detto, sin da piccolo, che quello che apprezzavi era il mio senso della giustizia. Dicevi con orgoglio che era spiccatissimo. E io penso di averlo davvero, per questo io non li voglio accettare i compromessi. Magari tu li devi fare, ma io perché? Io ho ventiquattro anni, posso almeno a questa età sognare un governo di sinistra, desiderare di essere rappresentato, posso? Anche tu alla mia età eri così, o no? Ma ti rendi conto di quello che sta succedendo? Uno è più potente di tutti e decide per tutti che si fa la guerra. Poi ti porta le armi in casa tua. E a questo punto piazzò l'esempio: è come se i Piattelli che stanno a pianterreno decidessero di ammazzare il generale Cusone che sta qua sopra. E per farlo attraversassero con le armi addosso casa nostra. Tu cosa gli diresti? Fuori di qui, gli diresti. Ecco, io non sopporto che qualcuno comandi a casa mia. Io non ne posso più di queste ingiustizie. Di uno che con i dollari e con le armi decide tutto. Con la gente che muore di fame, i brevetti eterni sui medicinali contro l'Aids, e ora anche i brevetti sui prodotti dell'agricoltura. Fece anche cenno al suo esame di Diritto internazionale, che stava preparando. Ma ti sembra normale, domandò, che il Fondo monetario faccia e disfi per tutti, mandi in rovina i più poveri, e decida sempre in base al principio che lì conta di più chi mette più soldi? Dimmelo: è questa la cooperazione internazionale?


Le ingiustizie, pensai, le ingiustizie del mondo. Gli dissi che il mondo è pieno di tragedie e di ingiustizie, che noi come famiglia ne sapevamo ben qualcosa; non so perché - non certo perché lui sia scout - mi venne anche per la prima volta una limpida reminiscenza da chierichetto e stupendomi di me stesso gli chiesi: ma te lo ricordi quel riferimento a ³questa valle di lacrime² nel ³Salve o Regina²? Il mondo è davvero una valle di lacrime, davvero la felicità arriva una volta ogni tanto, per piccole o grandi cose, e ogni volta va presa con la consapevolezza che ce n'è poca. Poi lo so anch'io che bisogna combatterle lo stesso le ingiustizie, però sapendo che non sei tu che le elimini durante la tua vita. Almeno, io ho imparato questo. Sarà così, ma io non lo sopporto lo stesso, mi replicò. Faticava, e si vedeva, a tenere tutto ordinato nella parola, la camicia fuori dai jeans, quasi piegato in avanti per dire meglio, per tenere in equilibrio rabbia e rispetto. Questi (questi sono i capitalisti, gli americani, le multinazionali, dipende) stanno distruggendo il mondo, il senso della persona. Seminano l'ideologia del potere, del successo. Ogni cosa si legava all'altra nella sua accusa, lo sapevo, perché è così nei giovani. Sapevo che si sarebbe andati dalla guerra giù giù fino ai culi e alle tette in televisione, perché i ventenni colgono il filo che tiene insieme l'ideologia della forza e del rimbecillimento. Io, mi spiegò, ai miei ragazzini gli dico di divertirsi, di essere se stessi, che loro devono essere soprattutto dei bravi bambini, in pace con la loro coscienza, non devono vincere e battere gli altri, nella vita si vince e si perde con pari dignità, non devono avere il culto del successo che poi diventa della sopraffazione. Qua ci stanno togliendo tutto, perché alla fine sono degli insensati, spogliano tutto di senso.

Ma ti rendi conto?, e qui arrivò la rivelazione. Mi hanno tolto perfino i mondiali di calcio. I mondiali non ci sono più. Ho sempre sognato di vivere quello che hai vissuto tu nell'82. Ma non si può, non abbiamo potuto, perché dovevano essere i mondiali delle multinazionali, che facevano investimenti nei paesi vergini di calcio. Comprati e venduti i mondiali. Lo sport più bello, tolto anche quello. Detto da lui, milanista (ahimé) che non perde una partita, che gioca con una squadra contenta di essere fatta solo di amici e per questo felicemente predisposta alle sconfitte, significava mi hanno tolto l'anima da bambino. Nessuno di noi vale più niente, insisté. E invece dobbiamo difendere il diritto di ogni persona a essere rispettata. Anzi ti comunico quello che abbiamo deciso stasera. Noi stasera agli scout abbiamo deciso di non accettare più i cuginetti, gli amici di famiglia, dentro lo stesso gruppo. Perché poi sai che succede? Che i figli o nipotini della famiglia ricca e conosciuta si mettono tutti insieme, fanno il loro bel clan che si conoscono da sempre, che vanno in montagna e al mare insieme, e poi resta il bambino che non ha il suo clan di famiglia che certo viene con noi, dorme e canta con noi ma alla fine sotto le stelle si sente solo.


Era un turbinio di riferimenti, di valori. La pace e il calcio, i bimbi emarginati e i paesi poveri. Un materiale indistinto, che si teneva insieme non solo nello sforzo fisico e affettivo ma anche in qualche passaggio logico fulminante. Finché riaprì un quaderno doloroso. Voi non lo capite, come non avete capito Genova. Obiettai che su Genova, sulla verità per Genova, mi ero speso e non poco, che avevo fatto sigillare io con un assessore provinciale la Diaz. Che non c'ero potuto andare i giorni prima, a Genova, perché come facevo ad andarci con tutte quelle minacce di guerriglia, le promesse di sfondare la linea rossa, io che sono per la legalità? Che se non ci fosse stata quella reazione pazzesca della polizia, Genova alla fine sarebbe stata più una sconfitta che una vittoria per i no o new global, con quelle prove di guerriglia mimate e fotografate all'Idroscalo di Milano. Stai facendo l'errore che ho fatto io arrivando a Genova, mi rispose, quando ho visto in manifestazione quelli con gli scudi vestiti da guerra e mi sembravano esaltati o esibizionisti. Poi però ho visto anche come polizia e carabinieri caricavano il corteo. Ormai la discussione era tornata a quasi due anni fa.


E tuttavia proprio Genova, il fatto che avessimo difeso le buone ragioni della maggioranza pacifica del corteo, che avessimo svolto le inchieste, che fossimo intervenuti in parlamento, che non avessimo voluto abbandonare all'oblio quella due giorni di sospensione della legalità, mi consentì di fargli l'esempio che cercavo. Vedi, gli dissi, quando io militavo nel movimento studentesco, i partiti della sinistra non stavano con noi. Spesso la cultura, i libri, gli ideali anche, erano gli stessi. Ma loro non stavano con noi. Perché c'è una divisione di ruoli tra i movimenti e chi ha responsabilità istituzionali. Noi a Milano avevamo soprattutto i socialisti, più ancora che i comunisti, che ci aiutavano, che ci facevano da sponda: la possibilità di fare le manifestazioni, i giornalisti, gli avvocati se c'era qualche problema. Sì, replicò, ma ora voi neanche questo fate. Voi dite che quelli dei pacifisti sono metodi inaccettabili prima ancora di dire che c'è la guerra da evitare. Ma li senti quando fanno le loro dichiarazioni? Non c'è rispetto per gli ideali di pace, c'è perfino paura di riconoscerli. Be', gli feci io, lo noti però che Prodi non vi attacca mai,che anche quando prende le distanze aggiunge sempre che bisogna capire gli ideali e le motivazioni dei giovani. E a me basterebbe questo, rispose, e per questo lo rivoterei. Ma la vuoi sapere una cosa? Noi, io e i miei amici voglio dire, non abbiamo quasi mai fatto riferimento alla Chiesa o ai preti, anzi, spesso le posizioni ufficiali sul sesso o sull'aborto ci creavano diffidenza. Ma ormai per noi riferirci ai preti e soprattutto al papa sta diventando normale, importante. Perché loro parlano. Loro parlano chiaro. Usano anche la parola "crimine" per la guerra preventiva.
Alle tre tornò a studiare. Io restai sulla poltrona, e mi rivoltai nella mente, al volo, molte considerazioni. Quelle affettive ve le risparmio. Un paio di riflessioni politiche però, quelle sì, si impongono ancora a distanza di giorni. La prima. Non c'è che dire, questo capitalismo (questo, dico, quello che c'è davvero) deve essere proprio cieco o stupido. Era rimasto praticamente senza nemici in occidente e con la sua infinita avidità se li è ricreati e moltiplicati in un pugno di anni. Invece di sfruttare quella che dopo la caduta del Muro sembrava una vittoria storica e irreversibile, la sta capovolgendo in delegittimazione morale. Nonostante l'11 settembre. La seconda. Forse però siamo ciechi anche noi, noi politici, che non vediamo l'immensa radicalità di questa domanda di pace e di giustizia che ci è cresciuta in casa. Tanto, tantissimo è cambiato in questi anni. La domanda di legalità dei girotondi non è affatto la stessa del "Craxi in galera" del '92 o '93. E molti hanno faticato a capirlo. Così la domanda di pace del 2003 non è affatto la stessa, tanto più ideologizzata, della guerra del golfo del '91. E anche chi ha fatto la manifestazione dei tre milioni non ne capisce spesso la profondità, la nuova forza dirompente. Il suo essere parte del nuovo, grande ciclo culturale che risponde alla ventata di egoismo e di potenza che ha impazzato con qualche eccezione per due decenni. E che, ecco il paradosso, ci viene messa in faccia da una generazione che ci sembrava assente e silenziosa. Una generazione cresciuta tra spot pubblicitari e morte della partecipazione, ma che neanche i programmi dominati dal grande padrone televisivo hanno potuto forgiare a propria somiglianza, così da darci - ma sì - il messaggio sconvolgente che alla fine il senso dell'uomo è più forte di tutte le tivù messe insieme.



Mio figlio ora è partito per l'America latina. Un mese a imparare, a girare da solo per raccogliere spunti per la sua sperimentale sociologia del diritto. Lasciandomi, mi ha regalato "Patagonia Express" di Sepulveda, lui che non ha mai letto né Pasolini né Calvino. Vuole rivedere i luoghi dove il cielo è alto e in cui, come ama dire, una donna vale perché è mamma e non perché mostra culo e tette in tivù. In cui nulla si spreca e dove se un bimbo urla che il cibo scotta, la mamma non gli dice di sputare fuori tutto, ma gli fa aprire la bocca e gli soffia dentro. Se ho raccontato tutto questo, forse, è anche per amore suo, lo ammetto. Ma è soprattutto per amore di una generazione che, con questi ideali dentro, ha il diritto di essere rappresentata. Ha il diritto di misurare la distanza tra sogno e realtà; di vedere se è vero che un altro mondo è possibile.

  discussione chiusa  condividi pdf