Sordi
Piero Di Marco - 27-02-2003
Come esergo, vale la pena di notare che io sono romano, figlio e nipote di romani, tutti nati, cresciuti, fioriti e poi trapassati nelle stesse strade e negli stessi anni di Sordi.
Io amo profondamente i suoi film e ho una simpatia nei suoi confronti che non è in nessun modo intellettuale, ma viscerale e per così dire "familiare", e molto legata alla comune romanità.

Di Marino Bocchi, su Fuoriregistro:

Un grande. Tanto grande da non essere classificabile. La sinistra (una certa sinistra, la solita), spocchiosetta e intellettualoide, lo ha definito per decenni un qualunquista, l'espressione di un mondo piccolo-borghese riassunto nel genere della commedia all'italiana, prima di riscoprirlo e riscoprire il genere a cui ha dato onore e lustro e quindi cercare di fagocitarlo, quando il Rutelli era sindaco di Roma e il Veltroni si ingegnava in una delle tante imprese che non gli sono mai riuscite: quella di critico cinematografico ispirato alla nuova moda del futile.


Questo articolo è allucinante. O meglio, lo sarebbe, se non fossimo abituati ormai da anni a vedere spacciate per "opinioni" le paranoie centrate sull'ossessione della "sinistra", verso la sinistra, causata dalla sinistra, per l'esistenza della sinistra, la sinistra, la sinistra ...
Dovrebbe essere, s'intuisce, una necrologio per Alberto Sordi, o un'apologia, un ricordo, un'epigrafe, un commosso saluto, un'analisi di cinema.
Ebbene, il suo nome non è neppure fatto, ma dopo una riga già si comincia a parlare della sinistra, come se ogni cosa che succede fosse niente di più che un pretesto per dare la stura alle solite litanie - che, come tutte le litanie, sono noiose e spesso strampalate.
Una delle contraddizioni più evidenti di questo articolo è che l'autore, mentre addebita ad una sinistra di fantasia un certo atteggiamento verso l'attore, in effetti dà dei giudizi sull'attore medesimo che sono assai
peggiori di quelli che la sinistra avrebbe pronunciato - "mentalità ristretta e pruriginosa", "esprimeva nella vita privata sentimenti e idee piccolo borghesi", "lessico retorico-patriottardo", "campione del cinema di serie B", "una certa Italia cinica,arrogante e arruffona del boom economico, l'Italia meschina, intrigante, provinciale di cui era reputato il migliore interprete".

A me sembra che questo metro di giudizio - inconsultamente poggiato sulla sindrome anti- sinistrista - sia un pessimo consigliere, e che il cinema, il fenomeno della commedia di costume, Sordi e anche la complessità della nostra cultura comunicativa meritino un livello critico assai diverso. Una gran parte di questa riflessione critica assai diversa è stata già ampiamente espressa in questi ultimi trent'anni, già durante il periodo d'oro dei film di Sordi, Gassman e Tognazzi.

Bisogna ricordare che il "cinema" non è fatto soltanto di attori, registi e colonne sonore, ma anche di sceneggiatori e di ispirazioni largamente culturali, di "ambiente", di idee e modelli che circolano e che di tanto in tanto trovano la forma di un film. Susi Cecchi D'Amico, Flaiano, Pasolini, Festa Campanile, Zavattini, lo stesso Eduardo, sono nomi italiani che
trovano il proprio corrispettivo in Steinbeck, Capote, Faulkner, Williams, Simon, e anche Chandler e Westlake e King, nel panorama americano.
Difficilmente c'é grande cinema, se non c'è una cultura solida e non ci sono grandi autori - o almeno ottimi narratori - prima e dietro la macchina produttiva.
Talvolta, specialmente in Europa, il regista è il catalizzatore di molte correnti di pensiero e di suggerimenti, ed è sceneggiatore egli stesso,
molto di più di quanto non avvenga nell'industria holiwoodiana che pratica una suddivisione del lavoro più rigida tra le varie fasi della produzione.

Queste ed altre considerazioni dovrebbero indurre a qualche cautela, quando si affronta un'analisi che non sia soltanto "mitologica" del cinema, specialmente in merito alla funzione dell'attore in genere e dei grandi divi in particolare.
Non c'è alcun dubbio che uno Jack Lemmon o uno John Wayne o uno Steve Mc Queen, o la Pfeiffer o la Streep, siano delle maschere perfette per i loro
film, e che le loro stesse persone non siano così lontane da quel tipo di personaggi che interpretano, e questo giustifica l'abbreviazione mitologica che identifica l'eroina della Mia Africa con la Streep o l'impiegato dell'Appartamento con Lemmon, o il texano pistolero con il ghigno di Johnwayne. Icone.
Ma dietro le icone c'è una cultura, un'ideologia, un romanzo, un popolo o almeno un pezzo di popolo che conta, che spinge a vedere e rappresentare le cose in quel modo. Dietro Frank Capra e James Stewart c'è il New Deal.
Dietro il noir degli anni '40 c'è la guerra e la disillusione di un new deal ormai tramontato. Dietro le fbi -stories e la sociologia del potere degli anni '80 c'è il Watergate e, come genalogia sentimentale, il fallimento del Vietnam. E c'è un'industria che ha saputo cogliere l'esistenza di un polposo target, nazionale e internazionale - con tutto ciò che di bene e di male questo comporta.

In Italia è ovviamente avvenuto un fenomeno analogo, sebbene diverso nei contenuti specifici.
La "commedia all'italiana" è stata erede e continuatrice del neo-realismo, seguendo l'evoluzione della nostra società.
Che cosa c'era dietro queste due successive letture, quella neo-realistica e quella della satira sociologica? Una lettura moralistica di destra, o un'ideologia democristiana, o cristiana tout-court?
Il mondo culturale, le idee che circolavano, gli intellettuali e perfino i traffichini avventizi e avventurosi di questo mondo cinematografaro, erano chierichetti, focolarini, neo-avanguardisti?
Moravia ce ne dà qualche bozzetto, di questo mondo, soprattutto nel Disprezzo, così come Fellini ce lo illustra ripetutamente, a cominciare dalla Dolce Vita, passando per Otto e mezzo.
Il cinema dell'epoca ha comunque e spesso raccontato se stesso, o meglio la storia dei suoi protagonisti e comprimari - uno fra tutti, Io la conoscevo bene.
Un capitolo a parte meritano i film sul cinema e fatti di cinema di Pasolini.

Da tutto questo ne vengono fuori due rappresentazioni.
La prima, quella di una società italiana che prende atto di se stessa, si analizza, si guarda allo specchio, non si piace, e si rende conto che già il
fatto di "avere coscienza" rappresenta un decisivo passo avanti.
La seconda, quella di una società che è di fatto progressista, che ricusa la propria eredità fascista e clericale proprio in questa "coscienza" e nella feroce lucidità con la quale attua il proprio racconto.

Tutto, o quasi tutto, il mondo culturale e artistico del dopoguerra, per decenni, è un mondo "di sinistra", ma non per qualche tessera o per qualche contiguità personale con un deputato, ma per il fatto stesso di essere un mondo critico, che rifiuta - spesso con il ghigno amaro del grottesco - un ancien regime che in nessun posto come in Italia è ancien ed è regime,
radicato e implementato capillarmente in mille gesti quotidiani, nel paesaggio, nella lingua e nei sentimenti più ordinari.
In questo mondo c'è l'intera gamma degli opposti: dallo snobismo geniale di Visconti alla freddezza borghese di Moravia, dalla disperazione di Pasolini
alla vivacità solfurea di Zavattini: un mondo di grandi talenti e di grandi cani sciolti, che fanno branco soltanto perché c'è qualcuno che s'ingegna a
costruire recinti - al secolo, la vecchia, secolare, zelante opera della curia e del prefetto di polizia, con i loro anatemi, la loro censura, la loro puzza al naso.
E' lo stesso mondo intellettuale, dal cui seno escono le stroncature per Totò o per cento altri tipi di cinema: non si può essere critici e feroci a tempo, timbrando un cartellino. L'anatema artistico o intellettuale fa parte
del gioco. E' sufficiente ricordare qualche chiacchierata - se uno l'ha fatta - o qualche intervista con qualcuno di questi autori, per conoscere le
pesti e le corna che riservavano per colleghi ed amici - uno era un guitto, l'altro un questuante, l'altro un ladro di sceneggiature, un imitatore, un disgraziato, un imebecille di talento, una vacca, una strega, e tutti erano amici o acerrimi nemici fino al prossimo film, o alla prossima cena.

Ma, al di là di questo inestricabile realtà umana, è la società italiana che si riversa in questo cinema, dotata di tutte le proprie contraddizioni e insanabili convivenze.
Chi crea la satira del piccolo borghese provinciale, del cinico traffichino degli anni del boom, e chi sceglie Sordi come perfetta maschera per rappresentarlo, come può "amare" quella maschera? Eppure la ama mentre la disprezza, come noi tutti abbiamo amato amici e fratelli cinici e traffichini, e abbiamo litigato con loro, ne abbiamo disprezzato le idee e i comportamenti.
La maschera. Non l'uomo. Non l'attore.
Per l'uomo e l'attore dovremmo forse introdurci nel discorso della "romanità", ma questo è appunto un altro film.
Avere o rendere un'immagine della "sinistra" strampalata o livorosa è in fondo poco male, ma la cosa comporta effetti assai curiosi, quando la stessa
immagine ha l'ambizione di rappresentare cinquant'anni di storia nazionale, o anche il solo cinema italiano.

Semmai, una briciola di intelligenza critica imporrebbe di aggiungere qualcosa di nuovo ai topos della sordologia - in ordine per esempio a ciò che la società italiana ci ha riservato in prosecuzione e conseguenza di quell'Italia "cinica e provinciale" dei primi decenni del dopoguerra, o al prepotente ritorno del "lessico retorico-patriottardo", e ai nuovi splendori degli "arroganti e arruffoni" della seconda repubblica.
E in ordine al fatto che ciò che allora fu oggetto della satira di costume - ossia idee e comportamenti ridicoli, patetici, grotteschi, vergognosi - oggi
sono valori in doppiopetto, e sono orgogliosamente sbandierati come segni distintivi della propria personalità.

Ma veniamo all'argomento che, in effetti, sta a cuore alle fissazione di molti e che si manifesta nell'articolo in questione.
I militanti di sinistra che preferivano i cine-club alle divertenti commedie
all'italiana.
Stupidaggini, pinzellacchere - direbbe Totò.
Innanzi tutto trovo assai stravagante creare, post mortem, la categoria antropologica del "militante di sinistra", specialmente quando l'operazione
viene fatta con tanta sbrigatività e tanto semplicismo.
Ma in effetti il problema non è questo. E' invece semplicemente che la notizia è falsa. Tutti sono andati a vedere quei film e tutti li hanno apprezzati o hanno storto qualche naso, secondo qaunto era perfettamente fisiologico e normale. Punto.
Riguardo alla critica per così dire "ufficiale" - l'Unità, tanto per essere chiari - io ricordo che AgSa. (Aggeo Savioli, per anni il guru di redazione in materia di cinema) aveva una posizione molto favorevole verso la commedia di costume, talvolta perfino eccessiva e in odore di ideologia, visto che era guardata come una critica alla società borghese, rampante, provinciale etc, che era un leit motiv usuale nella sinistra.
Nella stessa area temporale, un certo Pasolini scriveva su Vie Nuove, e non risulta che la redazione della rivista - organo non ufficiale, ma stretta emanazione del PCI - fosse assediata da manipoli di militanti, assetati del sangue di Pier Paolo.
Il Pasolini che scriveva su Vie Nuove si trovava spesso a fare analisi e discorsi in perfetta sintonia con i presupposti della commedia satirica di
llora, sia pure con le spigolosità e l'indipendenza di giudizio che lo caratterizzavano: il che significa che alcuni film, alcuni autori, alcuni stili cinematografici che appartenevano a quel cinema (e allo stesso Sordi) erano criticati da Pasolini, in parte nella sua qualità di "intellettuale politicamente impegnato" come sempre ricordava lui stesso di essere, in
parte (molto più spesso) come autore, sceneggiatore e uomo di cultura.
Com'era, aggiungiamo ovviamente, suo pieno diritto.

Infine, torniamo al Sordi attore, e alla sua identità fool, alla sua arte anarchica e devastante - secondo quanto viene affermato nell'articolo di Bocchi.
Una definizione del genere andrebbe bene per un Proietti o per un Paolo Poli, o per lo stesso Gassman.
Non si adatta a Sordi, o meglio non più di quanto sia strettamente e avaramente consentito dal tasso di foolish anarchy che è presente in ogni artista.
Detto questo, non si capisce come poter conciliare questa versione foolish
di Sordi - che dovrebbe averlo reso indigesto ai conformisti - con il suo grande successo, con gli omaggi di cui è stato fatto universale oggetto, e con la sua papalinità e le sue amicizie andreottiane, e quant'altro.
Si ha veramente l'impressione che talvolta vengano usati dei moduli preconfezionati di discorso, che si mettono, si levano e s'incollano indipendentemente dal chi e dal come.

Ricollegandomi comunque all'esergo iniziale, voglio dire che la mia comunanza di romanità con Sordi finisce qui. Come la nutella, quando qualcosa diventa un pamphlet e un oggetto di culto da costanzoshow, smettedi piacermi.

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 Giuseppe Aragno    - 27-02-2003
Quanta ostentazione di sapere, quanti bei nomi usati a sproposito, Di Marco. E quanta supponenza.
Che facciamo? Ci togliamo il cappello e le facciamo luogo?
Un delirio.
Lo temevo ed accade.
L'assalto a Fuoriregistro, annunziato sulle liste Didaweb da certe valutazioni sulla parzialità della redazione è partito.
Peccato.
Dopo i guasti già fatti in periferia, ora si va al centro. Allucinante lei dice. E sembra convinto.
E' certo di star bene? Sta bene dice?
Premeditato, quindi.
Ma è agghiacciante!
Ho una speranza: che Bocchi non le risponda. Che nessuno replichi e lei rimanga da solo.
Altro non merita: silenzio.
Se avesse potuto glielo avrebbe chiesto certamente Sordi.
Ma non può, Di Marco, Sordi non può. Lei se ne rende conto?
Silenzio. Facciamo silenzio?