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Dietro la facciata
Le riflessioni di Aaron Jackson, professore di Economia del Bentley College di Boston
«L’economia Usa: sì al conflitto, purché breve»
Irrilevante secondo giornali e televisioni americani il ruolo dell’Italia

Il presidente Bush attento ad ogni commento sulla questione irachena, alle prese con i problemi del disarmo e dell’economia


In attesa che i sondaggi si scatenino sulle prove contro l’Iraq presentate al mondo dal segretario di Stato Colin Powell, il mondo economico guarda con distacco lo svolgersi degli eventi. Con una sola certezza: che il presidente americano George W. Bush gioca tutte le carte della sua rielezione alla Casa Bianca sul doppio binario del conflitto contro Saddam Hussein e nella soluzione dei problemi economici del Paese, con un deficit di bilancio che è stimato in 2,2 trilioni di dollari.
Ne parliamo con Aaron Jackson, professore di Economia del Bentley College di Boston, esperto di politica macroeconomica e teoria monetaria.
E’ un dato di fatto che i mercati invochino la guerra per ottenere stabilità. Cosa sta succedendo, in questo momento, negli Stati Uniti. Esiste questa sollecitazione? «L’effetto che riveste la guerra sui mercati, certamente, è qualcosa di storico, che si è visto anche nel passato, ogni qual volta affiorano situazioni di tensione internazionale di grande portata, com’è appunto una guerra».
L’economia americana è pronta per la guerra, la sente come un evento inevitabile, sicuro? «Ritengo che gran parte delle Corporation e dei grandi gruppi economici degli Stati Uniti abbiano accettato l’idea che il Paese vada in guerra. Ma resta un grosso punto di domanda al quale nessuno è davvero in grado di dare una risposta. Vale a dire: quanto durerà il conflitto? Qui risiede un altro fattore di enorme incertezza, specie per gli equilibri dei mercati».
Ci si aspetta che sia breve? «Naturalmente. Tuttavia la storia insegna che non si possono fare previsioni certe in questi casi, specie in un contesto così particolare come quello iracheno. E poi, naturalmente, è vero, c’è il rischio degli attacchi terroristici. Un’altra guerra le cui mosse non sono affatto prevedibili».
Il presidente Bush ha detto che il budget federale appena presentato al Congresso è una finanziaria da tempi di guerra. Che cosa significa dal punto di vista dei cittadini americani? «Significa, essenzialmente, che stiamo andando verso un aumento del deficit, nei prossimi due anni in particolare. Nel contempo aumenteranno le spese militari».
A proposito degli investimenti militari: il 18% del budget federale è destinato alla Difesa, e senza considerare le eventuali spese per il conflitto con l’Iraq. Come reagiscono gli Americani a fronte di spese così forti per gli armamenti, a fronte dei capitoli di Sanità (22%) e Assistenza sociale (23%)? «E’ un grosso tema. Mi sorprende che non venga evidenziato più spesso. Ritengo tuttavia che in futuro le cose siano destinate a cambiare. Nel senso che l’importo per la Difesa scenderà relativamente e vedremo maggiori investimenti per i servizi sociali». Quanto tempo sarà necessario? «Una decina d’anni. Sarà un processo piuttosto lento, specialmente nell’area della spesa sanitaria. La mia supposizione è che gli Usa muoveranno verso un sistema sanitario che oggi non hanno, più assistenziale».
Perché l’America, secondo lei, va verso un progressivo ridimensionamento delle spese militari. Non vuole più un ruolo di sentinella del mondo? «Penso che il calo degli investimenti militari sarà dovuto alla cooperazione tra i governi mondiali, più di quanto non accada oggi».
Andiamo, insomma, verso una globalizzazione delle spese militari? «Esattamente. Verso una ripartizione a livello globale, con l’impegno della Nato verso l’Europa dell’Est, con altri “ombrelli” e coperture internazionali».
La rielezione di Bush, il prossimo anno, si gioca sulla guerra all’Iraq o sulla soluzione dei problemi economici del Paese? «Penso che il deficit federale sia la preoccupazione minore, oggi, per il presidente Bush. Il suo pensiero più forte è di finire quello che suo padre, Bush senior, aveva incominciato. Molto di quello che sta facendo il presidente va, infatti, in quella direzione. Quindi penso che l’esito della performance nel conflitto con Saddam sia realmente cruciale per un nuovo mandato elettorale. Si possono fare dei paragoni con il periodo di Bush senior: l’America combattè con l’Iraq riportando un grande sucesso, ma anche allora l’economia non andava bene. Bush jr vuole andare contro Saddam sacrificando, o mettendo per ora in secondo piano, le questioni domestiche. Per concludere: l’esito della guerra sarà sicuramente importante per un secondo mandato di Bush jr, ma sarà altrettanto importante, per la Nazione, vedere la sua performance economica. La stagnazione dell’economia può non giovare al presidente».
Domenica scorsa, il New York Times, ha messo in guardia Bush dal voler correre in Guerra da solo, senza ampio e adeguato consenso degli alleati europei. E’ un consiglio saggio? «Ritengo indubbio che avere una forte coalizione aiuti il Paese nel caso di un conflitto. E’ chiaro che l’Inghilterra salirà a bordo. La Francia pare riluttante, ma è presumibile che alla fine sarà con gli Usa. La Turchia sembra disposta a concedere basi e supporto logistico».
In America che visibilità ha il ruolo dell’Italia in un potenziale conflitto? «Da quello che leggo e vedo nei servizi della tv, il ruolo dell’Italia non è ancora molto a fuoco nel contesto della collaborazione degli alleati. Come percezione, non mi sembra che il vostro Paese abbia molto da offrire in termini di uomini o basi. L’importanza politica prevalente, in Europa, sembra appartenere a Francia e Germania».

Vera Fisogni




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