Perchè non possiamo non dirci insegnanti
Anna Pizzuti - 12-10-2001
Se “molta è la confusione sotto il cielo” , questo non vuol dire che non possiamo, se lo vogliamo, trovare il filo di Arianna che, tenuto dalla mano giusta e dipanato con cura, ci guidi, anche ora – soprattutto ora – ad orientarci nel labirinto e, magari, ad uscirne anche migliori, soprattutto se, dentro il labirinto riusciamo ad allacciare i nostri fili con quelli di tutti gli altri che, come noi, vi si aggirano.

Molti di noi si sono chiesti, a partire dall’11 settembre, che senso abbia più il quotidiano che si vive a scuola, che senso abbiano l’impegno e le polemiche per i pof, le funzioni obiettivo, i progetti, arrivando anche a chiedersi che senso abbia insegnare oggi. Alcuni sentono quasi impossibile emergere da sotto quelle terribili macerie, altri hanno invece avvertito la necessità di dichiarare l’intenzione di voler continuare nell’impegno didattico “senza sentirsi in colpa”, quasi a volersi scusare con i primi.

Su questo sfondo, ma non in maniera meno urgente o preoccupante – almeno per quanto mi riguarda – una serie di interventi dai quali si percepisce l’impostazione autoritaria e svilente delle sue funzioni specifiche che sta per essere dato alla scuola. Tra questi l’annunciata separazione tra istruzione e formazione professionale che, pur da una prospettiva che potrebbe sembrare limitata, ci riporta al nodo di cosa insegnare, come formare, come far crescere i ragazzi e, soprattutto, in quale società.

Mentre scrivevo queste cose, è arrivata la notizia dell’inizio dell’attacco. La tentazione, ovviamente, è quella di smettere di scrivere, ma mi impongo di continuare, proprio in nome dell’intenzione con la quale avevo iniziato.

E l’intenzione era quella di rileggere il dibattito all’interno della scuola, alla luce dell’articolo di Umberto Eco, articolo che, anche a partire da queste ore, dovrebbe essere un punto di riferimento essenziale.

Io l’ho letto e riletto, e l’ho percepito come se fosse stato scritto per noi insegnanti: tutto l’impianto del ragionamento, infatti, è costruito proprio a partire dalla sicurezza che esista una scuola e che essa svolga una funzione determinante per la formazione delle coscienze.

E’ vero che ad essere chiamati in causa sono i politici ed i leader religiosi, ma i destinatari veri del ragionamento siamo – a mio avviso – principalmente noi insegnanti, chiamati a “sciogliere, alla luce dello spirito critico, le semplificazioni dannose. “

Barbara Spinelli ci mette sull’avviso contro un uso distorto, fuorviante e retorico della memoria, ma come non vedere che “la discussione degli aspetti migliori della nostra cultura che noi (e solo noi della scuola pubblica) dobbiamo e possiamo fare con i giovani” è lo strumento al servizio della forza della ragione “se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi”

Ragionavo, giorni fa, con i miei alunni, del concetto di tolleranza, e mi sforzavo di metterne in luce i limiti, se lo intendiamo nella forma di condiscendenza, di bene/volenza, o se lo assumiamo come un atteggiamento che riduca L’Altro a Noi.
E’ appena il caso di dire che la discussione era nata mentre studiavamo l’Illuminismo, non mentre parlavamo degli attentati e della guerra, allora prossima ventura. E’ appena il caso di dire che non vedo differenze di possibilità di educazione delle emozioni e della mente tra i due diversi argomenti.

Ma non è di tolleranza, o meglio, non è solo di tolleranza che Eco parla, bensì del punto di vista, quando affronta il tema del confronto tra le civiltà ed è proprio a partire da questo concetto che sviluppa il ragionamento centrale dell’articolo, quello sui parametri che portano alla definizione del “sistema di valori a cui riteniamo di non poter rinunciare” sui quali si “ reggono le nostre affermazioni passionali”, e che debbono essere insegnati, analizzati, discussi dalla scuola. “Riflettere sui nostri parametri – scrive Eco – significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili” negli altri, ma – mi permetto di aggiungere – anche tra di noi.

Mi accade raramente di usare l’espressione “sistema di valori” senza avvertire il fastidio di un’espressione che ha per me risonanze totalizzanti e fondamentalistiche, ma il filo del ragionamento di Eco mi porta, ci porta, anche fuori del labirinto della complessità degli intrecci creati dal processo di accettazione dell’Altro, che avvertiamo come un valore e dal rifiuto per manifestazioni ed atteggiamenti per noi (intesi come uomini, non come occidentali) che non riusciamo ad accettare.
E’, il suo, il modo più corretto di STARE nel conflitto, per trovare la strada per risolverlo, almeno nelle nostre coscienze.

Ed a proposito di stare nel conflitto: quest’inverno ho avuto modo di ascoltare, insieme ad altre colleghe e nell’ambito di un progetto di ricerca-azione sull’educazione ai diritti, un insegnante universitario africano, che parlava del modo in cui la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU veniva letta e riesaminata in alcuni organismi ufficiali del suo paese. Dal suo ragionamento emergeva un’analisi che metteva in discussione l’applicabilità “meccanica” presso culture altre dalla nostra di tutti i suoi punti, arrivando anche a considerare “relativi” i diritti stessi, o almeno alcuni dei principi sui quali si basano. Io non ho le conoscenze necessarie per stabilire se avesse ragione o meno, ma sono rimasta colpita dal disagio che il suo ragionamento ha creato nell’uditorio, solo perché introduceva elementi riferibili a punti di vista diversi, solo perché guardava, con l’occhio dell’Altro, quello che, secondo noi, è quanto di meglio la nostra civiltà abbia potuto produrre per l’Altro.

Sempre giorni fa, anzi, proprio il primo giorno di scuola, in un’altra classe leggevo l’articolo di Claudio Magris intitolato “Le nostre vite cambiate”. Lo avevo scelto per far comprendere ai ragazzi quanta storia, quanto della storia bisogna conoscere per capire quello che sta accadendo, ma grande è stata a soddisfazione quando i ragazzi hanno appuntato la loro attenzione sul passaggio in cui Magris rileva che “quella che ora sta forse cambiando non è, beninteso, la vita del mondo, ma del nostro mondo”.

Nell’articolo di Eco c’è spazio anche, naturalmente, per la storia: non quella violenta che bisogna conoscere, appunto, per inquadrare il presente così violento, ma quella che rimanda ai momenti di maggiore incontro delle civiltà.
Eco ci fa vedere i limiti di questa ricerca, affermando – giustamente – che la storia è comunque “un’arma a doppio taglio”, ma è anche vero che , più si fa buio intorno a noi, più può diventare importante sapere che certe cose sono state possibili.
Ed è appena il caso di dire che questo “sapere” possiamo trasmetterlo solo noi ed a tutti i ragazzi.

“E? proprio nei momenti di smarrimento – conclude Eco – che bisogna saper usare l’arma dell’analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole e non solo nelle conferenze stampa”.

Mi chiedo però come potrebbe essere raccolto l’appello di Eco se la scuola fosse già quella che ci prospetta il ministro, spezzata in tre tronconi, ciascuno ben delimitato e chiuso all’altro: la scuola privata, la formazione professionale e, in ultimo, ciò che resta della scuola pubblica. E’ uno scenario che oscilla tra guerre dei mondi e Metropolis, lo scenario più adatto perché non le parole di Eco vengano ascoltate, ma quelle di coloro contro i quali l’articolo di Eco è rivolto.

E’ per esprimere quest’angoscia,complementare a quella che molti altri stanno provando a partire dall’11 settembre ed oggi in particolare, - che ho continuato a scrivere, nonostante le voci concitate che arrivano dalla televisione e il pianto di mia figlia al telefono quando ha saputo dell’attacco.

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