breve di cronaca
Le intimidazioni dei "signori della guerra"
Alba Sasso - 25-01-2003

Stanno crescendo in questi giorni le voci di dissenso nei confronti della prospettiva di un attacco armato all'Iraq, e cresce in tutti i paesi la mobilitazione promossa da chi crede che non sia ancora troppo tardi per fermare la guerra.

In Italia assistiamo a un movimento ampio, variegato, eterogeneo, animato da soggetti e protagonisti diversi: dalle associazioni pacifiste e di volontariato, alle organizzazioni sindacali, ai partiti politici, ad autorevoli settori della Chiesa e del mondo cristiano.

Realtà profondamente differenti, e però accomunate dalla ferma e matura volontà di costruire una marcata opposizione nei confronti di una guerra che avrebbe conseguenze devastanti e comporterebbe scenari mondiali assolutamente incontrollabili. Un attacco all'Iraq creerebbe fratture difficilmente sanabili nell'ampia e -finora- coesa coalizione contro il terrorismo che, con tenacia e fatica, la diplomazia internazionale è riuscita a costruire, e finirebbe col far crescere sempre più posizioni integraliste, umori e pulsioni verso il fanatismo, l'odio e l'intolleranza, terreno di coltura del terrorismo che Bush jr. e la sua amministrazione dichiarano di voler combattere.

Per non parlare poi del completo e totale annullamento delle regole e dei principi giuridici più elementari e basilari che disciplinano il diritto internazionale e la convivenza fra popoli e nazioni: l'assurda teoria della "guerra preventiva" propugnata da Bush jr. calpesta i trattati e le convenzioni internazionali e considera carta straccia le norme e lo stato di diritto. Si tratta di una dottrina sulla sicurezza che in realtà rischia di precipitare il mondo intero in un clima di conflittualità permanente, di guerra di tutti contro tutti, come è ormai chiaro ed evidente agli occhi di settori sempre più consistenti dell'opinione pubblica internazionale.

Ma contro il barbarico intento di garantire con l'utilizzo degli eserciti e delle bombe il mantenimento di un equilibrio internazionale basato sulle disuguaglianze, sulle contraddizioni sociali ed economiche, sul divario tra Nord e Sud del pianeta, si stanno levando più voci di protesta anche negli stessi Stati Uniti d'America, dove incontra sempre più consenso il movimento pacifista.

Si tratta di un risultato insperato fino a poco tempo fa, quando, anche in forza dell'utilizzo strumentale e distorto dei tragici fatti dell'11 settembre, sembrava annichilita e ridotta al silenzio ogni possibilità di dissentire rispetto al clima di crociata del bene contro il male. Ed in nome di questa "chiamata alle armi generale", l'amministrazione Bush era riuscita finanche ad operare delle vere e proprie restrizioni alle libertà democratiche e ai diritti civili negli Stati Uniti d'America, facendole passare all'interno del pacchetto complessivo della "normativa antiterrorismo." Ci è finanche toccato di assistere ai proclami di Bush che "arruola" in questa guerra l'Italia, senza che il nostro Parlamento abbia avuto modo di discuterne.

Adesso, grazie ai movimenti, alle forze pacifiste, ai religiosi, ai sindacalisti, ai politici che non hanno rinunciato ad indicare una via alternativa a quella delle bombe, si aprono prospettive del tutto nuove. Se ne sono evidentemente accorti i "signori della guerra", quei settori della politica, dell'economia e della finanza che stanno esercitando tutta la loro capacità di pressione affinché la soluzione del conflitto appaia come inevitabile: non è un caso se risultano sempre più cieche e rabbiose le reazioni contro le tante e vivaci forme di opposizione e di protesta. Due casi emblematici di questa volontà di intimidazione che si sta facendo sempre più pesante, a mano a mano che il dissenso cresce, provengono proprio dalla nostra Puglia: parlo delle minacce di stampo neofascista alla comunità dei padri missionari Comboniani di Bari, o dell'assurda e grottesca causa legale intentata da un consulente della Nato all'associazione pacifista Peacelink.

La volontà di instaurare una cappa di intimidazione è però in tutta evidenza destinata a non avere alcuno sbocco: oggi è davvero forte, ampio, visibile, lo schieramento di tutti quei soggetti che sono realmente convinti che si possano seguire percorsi radicalmente alternativi a quello delle armi.

Adesso, si pone il problema di come si debba costruire una effettiva strategia di pace: un problema a quale la politica può e deve trovare una risposta, cercando nuova forza e soprattutto nuove sollecitazioni e nuovi stimoli proprio a partire dall'incontro con quei movimenti che sono stati in grado di costruire il fronte del "no alla guerra".

Una prima opportunità che la politica e le istituzioni possono cogliere, per saldare le proprie istanze con gli impulsi provenienti dai movimenti e dai soggetti sociali, è rappresentata dalla mobilitazione promossa dalle organizzazioni e dalle associazioni pacifiste contro le modifiche alla Legge 185/90, vale a dire la legge che in Italia regolamenta il mercato delle armi e che il Centrodestra sta tentando di rendere meno rigida e più "flessibile", aprendo il commercio di prodotti dell'industria bellica anche a quei paesi caratterizzati da dittature, da regimi repressivi, da conflitti etnici. Ritengo, inoltre, che uno dei prossimi impegni della nostra agenda politica dovrà essere quello di incrociare i temi della guerra e della pace a quelli delle frontiere e della libera circolazione degli esseri umani e della garanzia dei diritti dei migranti.

Sono temi senz'altro impegnativi, e però ineludibili, poiché costituiscono i punti cruciali e qualificanti di un reale e concreto disegno di pace.


Da Paese Nuovo
25 gennaio 2003

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