Per ciascun pensiero c'è un'unica, mirabile parola
Ilide Carmignani - 24-01-2003

Intervista a Franca Cavagnoli, traduttrice di Toni Morrison, Jamaica Kincaid, William Burroughs, Edna O'Brien, Mark Twain, David Malouf, Saul Bellow, J.M.Coetzee, Nadine Gordimer, Katherine Mansfield...


Quando è nato in te l'interesse per il lavoro del traduttore e qual era allora la tua formazione?


Una quindicina di anni fa. Allora lavoravo come interprete ed ero sempre più insoddisfatta del lavoro che facevo. La consecutiva e la simultanea sono molto faticose, stressanti, mi procuravano molta ansia. E poi il linguaggio era sempre uguale, codificato, non costituiva una sfida. Così ho deciso di tornare al mio primo amore - la letteratura. Ho ripreso a studiare. Avevo studiato Storia e poi ero passata a Lingue, diedi gli ultimi esami. Ricominciai a leggere moltissimo, come nell'adolescenza.



È stato difficile iniziare a lavorare in questo settore?



No, è stato più difficile lasciare un lavoro ben retribuito per uno non altrettanto ben pagato. Mi sono iscritta ai corsi di scrittura creativa di Giuseppe Pontiggia presso il Teatro Verdi di Milano. Gli ho fatto leggere alcune cose che avevo scritto e lui mi ha incoraggiata a proseguire. E poi mi ha chiesto di fargli vedere come traducevo. Ho scelto un paio di testi che amavo particolarmente e gli ho mostrato i saggi di traduzione. Lui mi ha detto che avrei dovuto fare della scrittura, nelle sue varianti, la mia attività principale. Ho preso coraggio e ho proposto i miei saggi di traduzione ad alcuni editori. Non li hanno accettati ma mi hanno fatto fare una prova su libri che avevano già in programma. Ho cominciato così.



Che cosa significa tradurre molte opere dello stesso scrittore, come è accaduto a te con Toni Morrison?



Significa stabilire un tipo di rapporto molto stretto, intimo, con uno scrittore. Significa conoscerlo nelle sue pieghe più minute. Significa finire con il volergli molto bene, come a qualcuno della famiglia. E naturalmente significa avere un osservatorio molto privilegiato da cui guardare alla sua opera ed entrare nel suo laboratorio. Mi è successo con Toni Morrison ma anche con l'australiano David Malouf.



Quali difficoltà riserva al traduttore un testo come Pasto nudo di Burroughs?



La cosa più difficile è stata trovare il timbro giusto. L'intonazione particolare del suo "humour nero da vaudeville criminaloide" come ha scritto Emanuele Trevi. La vena noir di Burroughs si mescola a un'ironia dissacrante: niente è sacro, niente è tabù. Tutto questo si riflette nel timbro della sua voce, che è soltanto suo. E poi naturalmente i gerghi - della mala, della droga, gay - dovevano essere credibili: non bisognava edulcorare. Pasto nudo non è un libro per educande, è un pugno nello stomaco di 270 pagine, un libro per stomaci forti, come Burroughs stesso scrive nell'introduzione. E poi ho dovuto accertarmi che la terminologia scientifica fosse corretta. Ma la cosa più tormentosa è stata calarmi in questa mente in sfacelo, seguirla nella sua lenta, progressiva discesa nei gironi infernali, negli strati bituminosi dell'inconscio, nelle sue fobie (quella degli insetti è anche una mia fobia). Il fatto che spesso manchino i nessi causali e le concatenazioni temporali ha fatto sì che sovente non sapessi - come non lo sa il lettore - dove mi trovavo esattamente. Ho avuto fenomeni di vera e propria dissociazione. È stato un calvario. Ma è stato anche molto gratificante: ci sono divertentissimi giochi di parole, una sfida continua per chi traduce. E ci sono descrizioni terse, soprattutto nella rappresentazione del deforme, del mostruoso. Tradurre Burroughs è come essere distesi in un mucchio di letame a guardare le stelle. Si fa simultaneamente l'esperienza dell'infimo e del sublime.



E un classico come Huckleberry Finn?



Il problema di Huck invece è la voce. Mark Twain ha insegnato agli scrittori a "scrivere libri che parlano", come ci ricorda Toni Morrison. In questo libro abbiamo un ragazzino di quattordici anni, di umili origini, che ci racconta la sua storia con le sue parole. Dare un'impronta orale a un testo scritto è cosa molto difficile, poiché si tratta pur sempre di oralità artificiosa. Nel caso di Huck, poi, essendo lui un autentico ribelle non può non avere un linguaggio ribelle, insofferente delle convenzioni e della norma. Il suo linguaggio sfugge alle convenzioni di grammatica e sintassi. Ho cercato di riprodurre la forte impronta orale del linguaggio di Huck ricorrendo all'italiano informale e colloquiale e al gergo giovanile, privilegiando la costruzione paratattica, cercando sistematicamente di evitare congiuntivi e condizionali composti, sfruttando le congiunzioni che reggono l'indicativo o "girando" le frasi in modo da ottenere indicativi il più possibile indolori. Per rendere più marcatamente orale e quotidiano il testo, ho scelto come tempo della narrazione il passato prossimo anziché il più letterario passato remoto e ho cercato di conservare le ripetizioni e le ridondanze tipiche del discorso orale. Ma l'altro grande problema è stato trovare una voce per Jim, lo schiavo nero. Ho cercato di differenziare il suo linguaggio da quello di Huck senza creare gerarchie: Jim e Huck parlano in modo diverso, non fanno a gara a chi fa più sgrammaticature. Come Huck è un ragazzino che non trasgredisce le norme bensì usa norme diverse, così Jim è un adulto, padre di famiglia, nato anch'egli nel Missouri, che è cresciuto in un ambiente rurale ed è digiuno di studi. Per la sua voce sono ricorsa pertanto alle varianti dell'italiano popolare: sarebbe stato gravemente sbagliato farlo parlare come uno straniero, o addirittura con i verbi all'infinito.



È diverso tradurre un libro già tradotto da tradurne uno mai tradotto?



Nel caso di una ritraduzione viene spontaneo andare a vedere com'erano quelle precedenti e dunque si corre il rischio di restare influenzati: nel caso di Burroughs e Twain la mia lettura era così radicalmente diversa che il problema non si è posto.



Quali sono le traduzioni a cui sei più affezionata?



È una domanda difficile: mi verrebbe da rispondere "l'ultima che ho fatto", perché ci sono ancora dentro, perché non c'è ancora il distacco. Ma a ben pensarci direi senz'altro Huckleberry Finn, perché è stato il libro che ho amato di più nella mia infanzia, e Arlecchina e altre storie di Sarah Kirsch, una poetessa della Germania Orientale, perché era un libro che ho cercato in tutti i modi di far pubblicare in italiano e ogni volta mi rispondevano picche. Poi quando è caduto il muro di Berlino, nel giro di un mese ben tre editori mi hanno chiesto di riprendere il progetto... È una lunga narrazione in prosa poetica, un testo denso, intenso, sfavillante come un diamante. Lavorarci mi ha dato una gioia grandissima.



Quando traduci un testo contemporaneo, consulti mai lo scrittore?



Sempre, se ci sono dubbi che non sono riuscita a risolvere per conto mio. Invio regolarmente un fax o un e-mail e devo dire che tutti gli scrittori che traduco si mostrano felicissimi di rispondermi. Con alcuni di loro poi mi incontro regolarmente anche tra un libro e l'altro, se vengono in Italia o io vado nel loro paese - Toni Morrison, David Malouf e, prima ancora, Nadine Gordimer - oppure sono in corrispondenza, come con Jamaica Kincaid.



C'è qualche testo che avresti tanto voluto tradurre, ma il caso ha deciso altrimenti?



No, per fortuna. Il testo che avrei tanto voluto tradurre è Le avventure di Huckleberry Finn. E grazie ad Aldo Busi e alla collana di classici che ha diretto per Frassinelli la cosa è andata in porto. Huckleberry Finn è stato il libro più importante della mia infanzia. Oltre a essere conquistata, come tutti, da quell'adorabile affabulatore che è Huck, da bambina ero rimasta molto colpita dalla storia personale di Jim, lo schiavo nero. Ricordo di aver trepidato all'idea che potessero venderlo a valle del fiume e fosse separato per sempre dalla sua famiglia. È stato per molto tempo un pensiero tormentoso. Quel libro mi è rimasto dentro, ha segnato anche le mie scelte adulte, l'interesse per l'Africa - che torna anche nel mio romanzo - e, in genere, per i margini del mondo, per chi vive ai margini.



È cambiato nel tempo il tuo modo di tradurre?



Sì, sono diventata più esigente. Non mi va mai bene niente. Scrivo, cancello, riscrivo. Continuo a correggermi. È estenuante. A traduzione finita rileggo anche quattro o cinque volte, l'ultima delle quali ad alta voce. In genere consegno afona. Sono ossessivo-compulsiva e non vedo cenni di miglioramento.



Cosa deve fare, per un traduttore, un buon redattore?



Dev'essere rispettoso del suo lavoro e al tempo stesso molto esigente. Deve esporgli ogni dubbio che ha, proporgli tutte le alternative che gli vengono in mente, sollevare interrogativi. Sempre. Ma lasciare al traduttore la libertà di disporre dei suoi consigli e suggerimenti, perché la traduzione è opera del traduttore non del redattore. Dev'essere propositivo, cioè, ma non deve mai imporsi. Un libro viene bene se traduttore e redattore lavorano bene insieme.



E un buon editore?



Dev'essere rispettoso dei tempi di lavoro del traduttore, dargli tutto il tempo che questi gli chiede per poter far bene la traduzione. Essere disposto anche a cambiare la programmazione editoriale se il traduttore gli dice che ha bisogno di un certo numero di mesi per fare un lavoro. Deve pensare al lettore, a chi comprerà il libro, ma anche all'autore che quel libro ha scritto. E dunque mostrarsi sensibile all'opera di mediazione culturale del traduttore. Il che significa a volte traduzioni meno commerciali, meno 'scorrevoli' a ogni costo, ma più fedeli all'alterità della cultura in cui quella certa opera è germogliata.



Tu, oltre a tradurre, scrivi. Ricordiamo il tuo romanzo Una pioggia bruciante. Credi che tradurre aiuti a scrivere?



Senz'altro. Grazie al confronto costante con la scrittura altrui si diventa coscienti della propria scrittura, della propria identità come scrittori. Se poi il confronto avviene con scritture forti, di spessore, si impara molto. Si impara soprattutto a riconoscere quali sono dentro di sé le corde che risuonano di più, quelle che ci fanno vibrare veramente. E poi fra tradurre e scrivere c'è lo stesso rapporto che c'è tra allenarsi e fare una gara, o una partita. Senza allenamento non potresti fare nessuna gara. Una gara la fai una volta ogni tanto, invece l'allenamento è un esercizio quotidiano, una pratica costante.



E scrivere a tradurre?



Indubbiamente. Scrivere aiuta a essere più rispettosi della parola altrui. Sappiamo quanto ci è costato trovare quella certa parola per dire quella certa cosa. E sappiamo quante ne abbiamo scartate per far cadere la scelta proprio su quella. Questa pratica la trasferisco anche nella traduzione. Non mi accontento della prima cosa che mi viene in mente per risolvere il problema. Continuo a cercare, a dirmi "questo avrebbe potuto scriverlo anche lei, o lui, invece ha scritto quest'altro". Come dice Sarah Kirsch: "Per ciascun pensiero c'è un'unica, mirabile parola".



Recentemente hai curato due raccolte di racconti australiani e una che riunisce i racconti neozelandesi di Katherine Mansfield. Vuoi parlarcene?



Sono tre mie proposte editoriali che ho realizzato con i miei studenti di traduzione dell'ISIT di Milano. Non c'erano antologie di narratori australiani, tutto qua. Ce n'erano di indiani, africani, canadesi, caraibici ma non di australiani. Grazie al mio incontro con David Malouf mi ero avvicinata alla letteratura del suo paese, ho imparato a conoscerla e ad amarla. Poi sono venuti i viaggi in Australia. E così poco per volta sono nati i due progetti, Il cielo a rovescio nel 1998, che riunisce racconti di autori contemporanei, e Cieli australi due anni dopo, che raccoglie i classici della letteratura australiana. L'idea di riunire i racconti neozelandesi di Katherine Mansfield è nata invece dal desiderio di rileggere la sua opera alla luce dei miei studi nell'ambito delle letterature postcoloniali di lingua inglese. Mansfield - come è successo a un'altra figlia delle ex colonie, Jean Rhys, sulla quale ho scritto la mia tesi di laurea - è stata vittima per decenni di un'ambiguità di fondo: è stata letta unicamente come esponente della letteratura inglese, perché la letteratura inglese l'aveva rivendicata per l'appunto tout court per sé. E invece mi sembrava interessante proporla ai suoi lettori da una prospettiva completamente diversa. Tanto più che metà della sua opera è ambientata in Nuova Zelanda.



Quali sono i tuoi progetti per il futuro?



Ho in programma la traduzione di uno dei primi libri di Naipaul, di ambientazione caraibica, e l'ultimo libro di Jamaica Kincaid. E sto lavorando a un altro romanzo, in parte ambientato in Australia.


Ilide Carmignani
Alice.it

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