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Essere contro il terrore
Nurit Peled-Elhanan, Israele, Docente di "Linguaggio ed educazione" presso la
Hebrew University - Intervento alla Conferenza "GUERRA E PACE - ESISTERE OLTRE
IL TERRORE" Bari, 22 e 23 novembre 2002 - Centro Interdipartimentale di Studi
sulle Culture di genere - Università degli studi di Bari


Vi ringrazio per essere qui. Sono molto felice di partecipare a questo
incontro. Anche se la mia presenza qui è legata al mio percorso privato, vorrei
fondare il mio contributo sulle mie conoscenze professionali di linguista che
lavora nell'ambito dell'educazione.

Credo che l'importanza di tali incontri sia quella di rafforzare la voce di
tutte le madri. Perché la maternità è l'unico e comune denominatore che vince
sulla nazionalità, sulla razza e sulla religione. Le madri sono le sole che
riescono a far fronte ai politici e ai generali e vi sono sempre riuscite fin
dai tempi biblici, quando le mogli ebree riuscivano a spuntarla sul Faraone
sfuggendo al suo ordine di uccidere i neonati. Inoltre, gli studi
sull'apprendimento del linguaggio indicano le madri come le migliori insegnanti
al mondo. Difatti, non c'è mai stata alcuna madre che abbia fallito
nell'insegnare ai suoi figli tutto ciò che volesse, qualunque fosse la cultura
di provenienza o quanto grave fosse l'handicap del suo bambino. Questa è la
ragione per cui le madri possono essere le agenti principali di un cambiamento
nell'educazione. Per educazione si intende il processo attraverso cui si
insegnano al bambino le classificazioni della società. Il linguaggio stesso è
un sistema di classificazioni, classificazioni con cui diamo significato al
mondo in cui viviamo. La scuola - in quanto agente educativo primario nella
società- ha la responsabilità di insegnare ai
bambini le classificazioni particolari della loro cultura. Nel processo
educativo, i bambini imparano a classificare persone, cose e idee per far sì
che venga loro inculcato quel sapere che la loro società trasmette come verità.
Gli scolari di oggi saranno i politici e i cittadini del futuro, così come i
politici di oggi e i loro sostenitori furono gli scolari di un tempo.
Se, dunque, il linguaggio è un sistema di classificazioni e se l'educazione è
l'insegnamento di tali classificazioni, dettare regole significherà imporre le
tue classificazioni ad altri negando le loro. Per esempio, quando i bambini
israeliani imparano le prime cose sulla popolazione del proprio paese imparano
a distinguere tra ebrei e non- ebrei, imparano che la loro è una società
frantumata, divisa e stordita, lungi dall'essere multiculturale. Imparano che
la terra è o fertile o non fertile e questo significa che il deserto potrebbe
essere reso fertile qualunque sia il rischio per il paesaggio o per i beduini
che vi risiedono. Imparano anche che Gerusalemme è sempre stata la nostra
capitale tranne che per i 2000 anni in cui non siamo stati qui. In tal modo,
imparano a dire l'esclusivo "noi" che include solo gli ebrei come cittadini
legittimi della terra di Israele. Lo stesso "noi" che li relaziona con quella
gente che ha vissuto lì 4000 anni fa. Quel "noi" che li separa dai loro vicini
con cui devono invece condividere la quotidianità. So bene che una tale
situazione si ritrova anche nel sistema educativo palestinese, in Kosovo e in
altre aree del mondo lacerate, dove etnicità, identità e patriottismo sono
sinonimi di "sentenza di morte".
Probabilmente questo è il motivo per cui i bambini israeliani imparano a non
vedere alcuna
discrepanza nella loro tradizione scolastica; imparano a celebrare ogni anno
l'anniversario dell'albero piantando alberi d'olivo sulle colline di
Gerusalemme, della Galilea e di tutte le valli; imparano a obbedire come automi
ai loro ufficiali che li ordinano di sradicare gli alberi dei loro vicini,
spesso per spostare quegli alberi nei parchi giochi e perfino nel parco della
Pace di Gerusalemme.
Questo annullamento dell'altro, e ancor più, la demonizzazione dell'altro
identificato come il cattivo, l'ingiusto e colui che non dovrebbe affatto
essere lì, non è una condizione promettente che avvia al dialogo. I bambini
israeliani non imparano come parlare all'altro. Perché come è ben noto, il
dialogo è il luogo delle differenze, il luogo dove le differenze di potere, le
differenze di saperi e principi, le differenze di desideri, in breve, dove le
differenze nelle classificazioni vengono costantemente negoziate. Le persone
che non accettano le differenze e non sono ancora pronte ad aprire se stessi a
ogni tipo di conoscenza e valore, non possono parlare all'altro. Possono
continuare a prendersi in giro, ingannarsi e umiliarsi reciprocamente, ma non
riusciranno a parlare con l'altro. Le persone che non possono - o che non
accetterebbero differenze o la possibilità di parlare l'uno all'altro perché
siamo differenti, o non accetterebbero che quella eterogeneità è una
benedizione - hanno un approccio monolitico al discorso, e quindi, vogliono
imporre la loro conoscenza sugli altri e dominare il pensiero dell'altro. Il
loro discorso è totalitario, intollerante e ingiurioso ed è proprio
questo tipo di approccio che riscontriamo durante la maggior parte delle
negoziazioni di pace tra israeliani e palestinesi. La scelta di un approccio
dialogico nelle relazioni implica la consapevolezza di dimenticare o trattenere
la tua conoscenza, la tua verità o la tua storia personale e nazionale, e
l'apertura alla verità e alla storia dell'altro. Le persone che parlano da una
prospettiva dialogica non credono nelle identità fisse, in un pensiero
consolidato o in realtà eterne. Un fatto interessante è che in ebraico i
termini scoperta, realtà ed invenzione hanno tutti la stessa radice. E dunque
questo significa che la realtà è ciò che noi inventiamo, la realtà è il mezzo
che scopriamo per dar significato a quello che sta accadendo intorno a noi, e
di conseguenza si può cambiare. Le madri sono ben coscienti di questa relazione
dialogica perché sono costantemente in dialogo con i loro bambini, differenti
l'uno dall'altro nell'indole, nel pensiero e nelle inclinazioni.
Fortunatamente, ci sono persone, perfino ad Israele, desiderose di mutare il
loro sistema di
classificazioni, reinventando i loro "Noi". Purtroppo, non è una volontà molto
diffusa, specialmente non inquelle società multiculturali e multilinguistiche
come Israele, che desidera avere l'assetto di stato-nazione e perpetuare un
discorso estremamente monologico, che si basa su un sistema di classificazioni
razzista e immutabile, e dove il messaggio politico è che "noi" siamo una
società monolingue e monoculturale. In tali luoghi, l'altro è sempre poco
apprezzato, per non dire disprezzato, e il sangue diventa la mercanzia più
economica nel mercato politico.
I nostri bambini muoiono perché crescono secondo principi di discriminazione
tra sangue e sangue e su quello secondo cui noi siamo più degni degli altri.
I nostri bambini muoiono o diventano assassini di altri bambini perché la voce
della madre è stata soffocata e sminuita per secoli; perché la voce della madre
è sempre sostituita dalle voci dei politici corrotti e dei generali assetati di
sangue, di avidi uomini d'affari e dei così detti leader senza scrupolo che
sono, per la maggior parte, uomini ma che non parlano mai come genitori.
Come ho detto prima, nessuna parola è così ideologicamente ed emotivamente
carica come la parola "noi". Sono cresciuta imparando che quando dicevo "noi"
io intendevo il perseguitato che risorgeva dalle ceneri, che decideva di
ricostruire una nazione, di ristabilire una civiltà e di far rivivere un lingua
e sfidare un intero mondo illuminato che diede prova di essere spietatamente
indifferente al destino del diseredato, del torturato e del massacrato. Questo
"noi", questa identità collettiva che viene fuori dalle ceneri dell'Olocausto,
era destinato a riportare dignità a un popolo logorato, per proteggere i suoi
membri contro la peggior forma di razzismo che il mondo avesse mai conosciuto,
e assicurarsi che tale male, quale quello inflitto agli ebrei, cesserà di
ripetersi.
Ma negli ultimi 35 anni questo "noi" è diventato un Golem, un mostro che
minaccia di distruggere chiunque l'abbia creato e che ci condanna tutti.
Dopo che mia figlia, Smadari, è stata uccisa perché era una ragazza israeliana,
da un giovane uomo furioso e stravolto dall'umiliazione e dalla disperazione al
punto di uccidere se stesso e altri, un reporter mi chiese come potevo io
accettare le condoglianze dell'altro lato. La mia risposta, proprio spontanea,
fu che io non accettavo le condoglianze dell'altro lato, così, quando il
sindaco di Gerusalemme venne ad offrirmi le sue condoglianze, mi chiusi nella
mia stanza. Solo più tardi ho capito che per quel reporter l'altro lato era il
popolo palestinese.
Ma io non ho mai usato il NOI nazionale e razziale. La gente che considero il
mio lato non si può definire con nessun criterio sociale né nazionale. Quando
dico "noi", non intendo gli ebrei o gli israeliani. Intendo la gente che vede
la vita come la vedo io. E qualcuno di questa gente è segnata dalla morte per
sempre. Quando dico "noi", intendo i miei amici israeliani che hanno giurato di
fronte alle tombe aperte dei loro figli che nonostante abbiano perso i loro
bambini non perderanno mai la testa.
Mi riferisco al professore Gazawi, che si è laureato con me con il premio
Sakharov e che, dopo essere stato confinato in una cella d'isolamento per il
suo desiderio di essere un uomo libero e dignitoso nella sua terra, dopo aver
visto suo figlio quindicenne venire ucciso nel cortile della sua scuola mentre
aiutava un compagno ferito, si rifiuta ancora di pensare che l'essere umano sia
cattivo, e dice che siamo noi a dover creare il mito della speranza per coloro
che non ce l'hanno.
Mi riferisco a Najakh, palestinese, che ha viaggiato con me a New York per
parlare di pace dopo aver visto suo figlio di 10 anni essere ucciso e provava
un grande affetto per mio figlio di l0 anni, israeliano.
Mi riferisco a Widad Sartawi che mi chiama la sua piccola sorella, e che ha
perso suo marito perché ha osato essere amico di mio padre, ha osato sognare la
pace. Mi riferisco ad Haled che ha trovato suo figlio maggiore con 50
pallottole nel corpo senza che gli abbiano mai detto come sia accaduto e
perché, e che 20 giorni dopo chiamò sua moglie e le disse di smettere di
piangere per il suo bambino e di iniziare a piangere
per il mio.
Mi riferisco alle madri che si rifiutano di desiderare la vendetta per la morte
dei loro figli uccidendo i figli di un'altra donna.
Oggi, quando "terrore" è il termine coniato per definire gli atti assassini dei
poveri e dei deboli, e "guerra contro il terrore" è il termine usato per
definire gli atti assassini dei ricchi e dei forti, quando le più grandi
democrazie commettono i più terribili crimini contro l'umanità usando termini
come "libertà", "giustizia" e "scontro tra civiltà" per giustificare i loro
crimini, noi, gli afflitti, le vittime del terrore o del terrorismo
anti-terrore, siamo gli unici rimasti che possano dire al mondo che non esiste
nessuna uccisione civile degli innocenti né un'uccisione barbarica degli
innocenti, ma c'è solo un'uccisione criminale degli innocenti. Noi siamo quelli
che devono dire al mondo che non c'è nessuno scontro tra civiltà, che giù nel
regno dei bambini morti che cresce costantemente non c'è nessuno scontro tra
civiltà. AI contrario: lì prevale il vero multiculturalismo, la vera
uguaglianza e la vera giustizia. E forse noi siamo coloro che dovrebbero
ricordare al mondo che l'età dell'oro del Islam e del Ebraismo si è avuto
quando essi vivevano l'uno accanto
all'altro, nutrendosi a vicenda e fiorendo insieme.
Noi siamo coloro che devono dire al mondo che la morte di un/a bambino,
qualsiasi bambino, in Palestina o in Israele, in Afghanistan o in Cecenia, è la
morte del mondo intero, che dopo la morte di un bambino, qualsiasi bambino, non
ce n'è più un altro, che nessuno può vendicare il sangue di un bambino perché
il/la bambino si porta nella sua piccola tomba, con le sue piccole ossa, il
passato e il futuro, le ragioni della guerra e le sue conseguenze.
Noi siamo coloro che devono dire al mondo che termini come "libertà" e "onore",
"Dio" e "pace", "il bene del Paese" e anche "democrazia", potrebbero essere
delle armi letali. Poiché noi siamo coloro che sanno che non c'è pace o
libertà, nessun bene e nessun Dio dopo la morte di un/a bambino. Per cui noi
siamo coloro che dovrebbero dire al mondo che l'unico modo per l'umanità di
sopravvivere è quello di unirsi a noi per gridare questa antica voce, che è
sempre stata lì, la voce della maternità, gridarla fino a quando rende sorde
tutte le altre voci. Noi siamo coloro che devono chiedere che il mondo
ridefinisca i suoi valori e priorità, ridefinisca il crimine, la colpa, i
diritti dei bambini e i doveri degli adulti e quindi ridefinisca la educazione
e la giustizia, e faccia in modo che sia ben chiaro che chiunque uccida un/a
bambino/ non sarà mai in grado di vivere in pace in questo mondo. Neanche come
Caino. Noi siamo coloro che sanno che se non alziamo la voce al più presto non
rimarrà niente da dire o scrivere o sentire tranne il perpetuo lamento di lutto
e le mute voci dei bambini morti. Per cui noi siamo coloro che dovrebbero
finire la guerra, perché sappiamo che non importa quale bandiera è posta su
quale montagna, non importa chi guarda dove quando prega, e che niente è più
importante di rendere sicura la strada che percorrerà una ragazza verso la sua
lezione di danza.
Ed è perché noi siamo coloro che si rendono conto ogni ora di ogni giorno che
in quanto genitori e adulti, noi abbiamo tradito i nostri figli perché non
siamo stati attenti, perché non abbiamo lottato per le loro vite con tutta
l'energia che avremmo dovuto usare, e perché gli abbiamo promesso una vita
felice e un mondo migliore. Noi siamo coloro che abbiamo pianto con la poeta
russa Anna Akhmotova, che conosceva lo stesso dolore, quando noi abbiamo visto
la nostra piccola bambina o il nostro piccolo bambino per l'ultima volta, prima
di girare le spalle e lasciarli nelle mani di estranei:

Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?

(Traduzione di Samanta Machich e Annarita Taronna)


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