Panebianco: l'inconsapevole fascismo
Marcella Raiola - 06-01-2018

Se non è impudenza senza limiti, quella che porta a sostenere che un piazzista che scrive "cultura umanista" e tratta gli affari di Stato come un croupier le puntate sul tavolo verde, oppure che ministre imbarazzanti come quella del tunnel dei neutrini e quella del "più migliore" sono politici "patentati", e dunque unicamente abilitati a decidere sui beni comuni e sul Bene Comune, allora è concezione mistica del potere, convinzione che chiunque eserciti il potere, per il solo fatto che lo esercita, anche se abusivamente, è circonfuso di un'aura di sacralità e riceve per infusione una sapienza superiore. Non so quale delle due cose sia più aberrante. La scienza storica di Giuseppe Aragno, con i suoi "ritorni" per nulla stupefacenti e le sue corrispondenze per nulla arcane, è lo strumento che può neutralizzare questo culto malsano del sostantivo "potere", e rimpiazzarlo con il risanante infinito.


Panebianco: l'inconsapevole fascismo


Il 17 giugno scorso, al teatro Brancaccio di Roma, Paolo Foschi, giornalista del «Corriere della Sera», professionista serio, intellettualmente onesto e anche coraggioso, denunciò le condizioni in cui si lavora al «Corriere della Sera» e più in generale lo stato comatoso dell'informazione nel nostro Paese. Ne venne fuori una sorta di regno dalla censura, caratterizzato dalla «schiavitù della flessibilità» e dai condizionamenti degli «specialisti» della politica, che decidono quali notizie dobbiamo conoscere e quali no. Il quadro di un Paese in cui pochi sedicenti «grandi giornalisti», pagati fior di quattrini, manipolano le coscienze degli italiani.
Giorni fa, purtroppo quasi di concerto con Luciana Castellina, Angelo Panebianco, guarda caso opinionista del «Corriere della Sera», partendo lancia in resta contro l'iniziativa politica di «Potere al Popolo», non ha trovato di meglio che tessere l'elogio degli «specialisti» della politica, confermando così di fatto la denuncia del collega Foschi. Se la politica, ha sostenuto infatti Panebianco, non la fanno loro, gli «specialisti», c'è il rischio di un disastro.
Come vivesse sulla luna, Panebianco sembra non sapere che il disastro c'è già e che sono stati proprio i suoi inaccettabili «specialisti» a produrla. Al giornalista non importa nulla se la Consulta ha denunciato i suoi pupilli come autori di una legge-truffa e abusivi di un Parlamento che nessuno ha mai eletto. A lui va bene così: il meglio del Paese è in Parlamento, lì c'è la competenza, lì c'è la moralità più esemplare. In Parlamento c'è l'Italia che deve governare. Fuori c'è l'Italia degli incapaci, degli incompetenti. Tanto più incompetenti e incapaci, quanto più severi nei confronti dei suoi «specialisti». Pazienza se la disoccupazione giovanile ha toccato le più tragiche vette, se gli incidenti sul lavoro si sono moltiplicati e restano impuniti, se il territorio è dissestato, la precarietà è regola di vita, l'università sforna ignoranti, la scuola è in ginocchio, il servizio sanitario nazionale è in agonia e i poveri si contano a milioni e crescono sempre più. Per il giornalista strapagato, che non ha mai smentito Foschi e non si è mai accorto dei suoi colleghi schiavizzati, la solo preoccupazione è che Guevara diventi ministro. Alfano, Boschi, Madia, Fedele, Lorenzin e compagnia cantante sono per lui il trionfo della «competenza». Perché? Perché il disastro causato dai suoi «specialisti» garantisce i privilegi suoi e di quelli come lui. E', per capirci, il disastro che paghiamo noi, i «votanti incompetenti». Con il popolo al potere invece - e questo Panebianco lo sa benissimo - la gente riconquisterebbe diritti che l'editorialista dovrebbe pagare con i suoi privilegi. Questo sì, questo sarebbe il disastroso disastro che terrorizza il ben pasciuto e sazio giornalista. Ed è perciò che dall'alto delle sue «competenze» lui scomunica «Potere al Popolo».
Se tutto si limitasse a questo, potremmo lasciar perdere; in fondo il «Corriere della Sera» fa pubblicità gratuita all'iniziativa partita da un centro sociale, ci fa conoscere a chi nemmeno sapeva che esistiamo e dimostra di aver paura. Il fatto è però che l'intervento di Panebianco è più subdolo e pericoloso. Il giornalista non se ne rende conto, ma la sua indecorosa difesa del professionismo politico conduce difilato alle radici della repubblica e alle ragioni profonde della Resistenza. Lo dimostrano le parola che Giacomo Ulivi, giovanissimo partigiano fucilato a Modena dai fascisti nel novembre del 1944, scrisse in una lettera agli amici, prima di affrontare il plotone di esecuzione. Sono parole che tutti noi dovremmo imparare a memoria e la risposta al fascismo che attraversa come un filo nero l'intero ragionamento dell'editorialista.

«Cari Amici,
[...] vorrei che [...] impreparati, e gravati di recenti errori, pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano [...]; quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma [...] in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, [...] risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. [...] Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di «specialisti». Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica[...] ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: [...] ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più «roseo», io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. [...] Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? [...]
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché [...] se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. [...] No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!».

Poche ore dopo il piombo degli «specialisti» provò a spegnere per sempre assieme al giovane partigiano, anche il suo insegnamento. Sono trascorsi più settant'anni, la democrazia rischia di essere nuovamente cancellata e non a caso il giornalista del «Corriere della Sera» torna a parlarci di «specialisti». Ha capito bene che i giovani di «Potere al popolo» hanno raccolto l'insegnamento della Resistenza.
In quanto a Luciana Castellina e al Manifesto, farebbero bene a riflettere: quella di Panebianco è la loro trincea?


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