Quando le parole
Francesco Di Lorenzo - 11-02-2017
È sempre più difficile accettare quello che dicono, dare credito a ciò che si dice. Specie se si ha qualche riserva dettata dalle troppe volte che le promesse non sono state mantenute. Così, quando la ministra dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Valeria Fedeli rassicura che migliorerà il decreto sull' inclusione scolastica e quando dice che studentesse e studenti con disabilità devono avere pari opportunità formative, queste sembrano parole vuote. Nessuno le prende in seria considerazione. Ormai nessuno pensa che si migliorerà davvero il decreto. Altri ancora non l'ascoltano nemmeno. Le sue sono parole nel vuoto. Parole vuote.
A tanto si è ridotta (è stata ridotta, l'abbiamo ridotta?) la politica, l'arte che invece di risolvere problemi, li crea.
In effetti, il linguaggio dell'ultima ministra dell'istruzione dovrebbe darci qualche speranza, tutto così politicamente corretto, come, del resto, quello della ministra Giannini; l'ultima, Fedeli, addirittura con qualche 'pendenza' a sinistra. Eppure, invece, non ci dice niente. Sa di niente. In effetti, è perché in cuor nostro sappiamo che niente di quello che dice si avvererà, e seppure qualcosa avverrà, alla fine si sarà modificato (in positivo) talmente poco che non se ne avrà nessun effetto.
Le parole della ministra sull'inclusione scolastica sembrano prese da un manuale di bon ton che però non tiene conto della realtà. Si è mai chiesta, la ministra, dove ha visto o presa l'idea che nella scuola e nella società noi saremmo passati dall'integrazione all'inclusione? Evidentemente abbiamo perso un passaggio.
Come dai documenti ministeriali, l'inclusione di cui parliamo oggi, sarebbe il passaggio successivo dell'integrazione che al ministero danno per cosa fatta. Ma dove? Nelle loro teste? Questi hanno confuso la visione del film 'Fuocoammare', pensando che Lampedusa sia la stessa cosa che nel resto della nazione.
Più che parole vuote che esprimono concetti politicamente corretti, servirebbero fatti. Per rispetto dei ragazzi da integrare veramente in primo luogo e per contrastare i Salvini di turno con tutti i loro 'nipotini'.

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Sulla lettera dei seicento professori che si lamentano della povertà linguistica 'non solo degli studenti universitari', le opinioni a confronto sono molte e tra le più disparate. C'è chi tra gli insegnanti si preso la propria parte di colpe, adducendo le difficoltà di insegnare oggi la lingua italiana, presi come siamo ad insegnare anche e contemporaneamente tante altre cose. Le difficoltà ci sono, sono difficoltà non certo facili da superare, presi nella morsa della presenza simultanea di molti codici, la compresenza di procedure miste sia analogiche che logiche, di un sapere spesso acquisito in modi lontani dalla scuola. Insomma, c'è chi riesce a districarsi tra queste enormi difficoltà e a stimolare la curiosità attraverso conoscenze di base , metodo di lavoro e padronanza della lingua e chi no. E' un dato di fatto.
C'è di vero, però, che queste denunce/lamentele vengono fuori a scadenze quasi regolari e diventano per alcuni giorni, qualche settimana al massimo, il centro del dibattito. L'analisi è fatta, la diagnosi pure e sembra convincente. Anche tra i più restii, l'ammissione di una qualche difficoltà diventa una presa d'atto. E poi? Poi niente! La terapia non è contemplata. È un po' come le prove Invalsi, che ci dicono quello che già tutti sanno, ma poi tutto finisce nel dimenticatoio fino alla prossima volta. Insomma, le idee di Mario Lodi, le tesi per l'educazione Linguistica democratica, insieme alle prese di posizione di Tullio De Mauro, stanno lì in attesa che qualcuno le riprenda, le rinverdisca. Che ne riproponga lo spirito che è stato tradito.

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