Zona d'ombra, una scomoda verità
Adele Augruso - 29-04-2016
Pittsburgh, 24 settembre 2002: il leggendario Mike Webster, vincitore di quattro Super Bowl con gli Steelers, si spegne a soli cinquant'anni per un attacco cardiaco, dopo una lunga battaglia contro un'inspiegabile depressione che l'ha ridotto in povertà. L'autopsia viene affidata al dottor Bennet Ifeakandu Omalu, un neuropatologo forense emigrato dalla Nigeria, per nulla convinto dalla causa ufficiale della scomparsa: l'infarto nasconde ragioni assai profonde, ancora tutte da scoprire. Pagando di tasca propria gli ulteriori esami necessari, il giovane medico trova nei tessuti del cervello di Iron Mike le risposte sottaciute opportunisticamente dalla National Football League. Tre anni più tardi Neurosurgery pubblica gli impressionanti risultati delle sue ricerche, che evidenziano correlazioni incontrovertibili tra gli scontri sul campo e i disturbi patiti dagli ex giocatori: l'ingenuo Davide rischia così d'inimicarsi un Golia miliardario, ovvero lo sport con il maggior seguito negli Stati Uniti.

La storia di Bennet Omalu sale agli onori della cronaca nel 2009, quando Jeanne Marie Laskas racconta su GQ gli eventi successivi a quell'incontro cruciale con il corpo esanime, ma in apparenza sano, di un campione-simbolo del riscatto sociale per un'intera città. L'articolo, dal titolo Game Brain, è diventato il punto di partenza per Zona d'ombra (Concussion), la seconda regia di Peter Landesman, sceneggiatore con un passato notevole nella carta stampata, dalla quale ha mutuato un debole per inchieste e ricostruzioni di forte impatto. Certamente il fiuto non gli manca nella scelta dei soggetti: l'odissea (quasi) solitaria di un paladino senza macchia né paura, che contrappone integerrimo la verità scientifica al bieco guadagno, farebbe gola a molte firme di Hollywood, sempre a caccia dell'usato sicuro con l'etichetta dell'ispirazione reale. Peccato che, come nel precedente Parkland, la rilevanza dei fatti non vada di pari passo con quella del prodotto cinematografico.

Innegabilmente, sfogliandone il curriculum, i motivi d'interesse verso la figura del dottor Omalu abbondano: da subito vanta una preparazione accademica prestigiosa, uno spirito d'osservazione sopraffino, un'etica del lavoro al limite dello stacanovismo, che confluiscono in un personalissimo modus operandi. Il protagonista, infatti, esamina le spoglie mortali dei pazienti con lo stesso rispetto riservato ai vivi, instaura un dialogo impossibile, invoca il loro aiuto per capire il contesto in cui sono avvenuti i decessi, utilizzando un bisturi diverso per ogni necroscopia. Si tratta di spie che dovrebbero segnalare positivamente l'alterità dell'eroe, lo sguardo estraneo alle dinamiche del paese d'adozione, grazie al quale può additare il proverbiale "elefante nella stanza". I primi studi sulla sindrome provocata dai contatti violenti nello sport, la cosiddetta dementia pugilistica, risalgono addirittura agli anni Venti, ma oggi, per riportarli all'attenzione dell'opinione pubblica, serve uno storytelling spendibile sui media.

Per teorizzare l'encefalopatia traumatica cronica (CTE), Omalu disseziona il rito domenicale del football con impietosa razionalità, arrivando perfino a conteggiare i 25.000 colpi alla testa che ciascun atleta subisce in carriera. La lettura omologante dell'autore, invece, ridimensiona la potenza dell'oltraggio nella rassicurante parabola del buon samaritano a stelle e strisce, disposto a rischiare tutto pur di assolvere il proprio dovere. Landesman, inseguendo l'afflato civile dei vari L'uomo della pioggia, Insider, Erin Brockovich (senza avere l'energia dei colleghi), perde di vista le specificità del caso e reitera un sogno americano fuori tempo massimo, che non trasmette l'urgenza della denuncia. Il background di Omalu, peraltro laureatosi nella natia Nigeria, conta poco o nulla: l'importante è dimostrare come i sacrifici, a prescindere dalla provenienza, vengano puntualmente ripagati nella terra delle opportunità, che concede persino la libertà di comprare un televisore e tenerlo spento in salotto. Del resto, confessa il protagonista, ha sempre collocato gli Stati Uniti su un gradino appena sotto il Paradiso.

Nonostante la traduzione italiana, l'unica Zona d'ombra del film la occupano i campioni caduti in disgrazia, abbandonati dalle luci dei riflettori nel momento del bisogno. Nell'agiografia del medico tutto ospedale, casa e chiesa, che trova l'amore con l'intercessione della parrocchia, i confini del bene sono così netti da non lasciare spazio alle sfumature, anche nella caratterizzazione dei personaggi di contorno. La moglie comprensiva (una radiosa Gugu Mbatha-Raw), gli aiutanti delusi dal business (Alec Baldwin e Albert Brooks), i nemici disonesti pronunciano soltanto frasi di circostanza al servizio del divo Will Smith, in cerca di riscatto dopo un'inaspettata serie di passi falsi al botteghino. La performance, estremamente misurata, gli è valsa un premio dall'African-American Film Critics Association (AAFCA), mentre la mancata candidatura agli Oscar ha scatenato polemiche sugli stantii criteri di selezione dell'Academy. L'innegabile adesione emotiva al ruolo, però, non risolve il problema linguistico posto dalla versione originale: l'intensità dei piani ravvicinati stride con la voce camuffata del rapper Smith, riconoscibilissima per milioni di ascoltatori, che soffre la forzatura di un accento genericamente africano. Eppure gli attori di successo con origini nigeriane non scarseggiano affatto: Chiwetel Ejiofor (12 anni schiavo) e David Oyelowo (Selma) sono giusto due esempi.

A Zona d'ombra bisogna riconoscere l'indubbio merito di aver reso accessibili, ad un pubblico spesso digiuno di football, le scomode deduzioni del coraggioso Bennet Omalu, ufficialmente cittadino americano dal 2015. La retorica paradossale dei dialoghi, che finisce per legittimare il sistema contro cui si è scagliato, lascia la sensazione d'aver assistito ad un'impresa in sostanza irrisolta.

Cast, credits e trailers su http://www.cinemafrica.org
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