Amedeo Coraggio: una lezione di vita
Giuseppe Aragno - 02-02-2016
Nel maggio del 1927, quando iniziano i lavori di ristrutturazione dell'Ospedale "San Gennaro dei poveri", nel popolare rione della Sanità, a Napoli, come ovunque nel Paese, le "leggi fascistissime" hanno messo in ginocchio l'antifascismo e Amedeo Coraggio, muratore socialista di ventiquattro anni, non può non saperlo: chi si azzarda a manifestare un qualche dissenso rischia di averne la vita spezzata. Sulla parete dell'ospedale, però, le prove sono schiaccianti e non c'è nemmeno bisogno di star lì a indagare: sotto "una testa disegnata con un lungo naso" ci sono, infatti, una dedica e una firma: "A Sica Luigi, ricordo di Amedeo Coraggio". Nulla di compromettente, se poco più in là, accanto al ritratto, non si leggessero parole inequivocabili:

"Se noi fummo nella guerra
tra i più saldi difensori,
se strappammo gloria e onori
al nemico combattendo,
se tranquilli ci esponemmo
contro il fascio senza cuore,
dei vigliacchi e traditori
con le bombe e col pugnale
ne farem giustizia e onore.
Sul tuo nome, socialismo,
ora alziamo la bandiera.
Sopra il corpo del fascismo
la faremo sventolare".


Prontamente identificato, Luigi Sica, "manovale muratore addetto ai lavori dell'ospizio", non ha dubbi: poiché "il suo compagno Coraggio Amedeo, lo chiama col nomignolo di nasone, [...] ritiene che, come le altre scritte, anche il disegno sia opera sua". D'altra parte, basta davvero poco per accorgersi che l'improvvisato artista non ha un passato politicamente convincente. "Allievo del Corpo della Regia Guardia", infatti, "si è congedato all'atto della sua trasformazione", quando Mussolini ne ha voluto "lo scioglimento e l'assorbimento nell'Arma dei Carabinieri o nella nascente Milizia".
Arrestato e interrogato, il muratore "ammette il disegno, ma nega le frasi offensive". Un tentativo di difesa vano, dal momento che un perito calligrafo ritiene che la mano colpevole sia solo la sua. Perché l'uomo abbia voluto manifestare così apertamente il suo dissenso, non è facile dire. Sta di fatto che a marzo del 1928 il tribunale chiude la vicenda, condannando il muratore a sette mesi e mezzo di reclusione e 500 lire di multa.
Scontata la pena, l'uomo torna libero, ma è solo, inerme e in balia del regime. Invano, per evitare le periodiche perquisizioni domiciliari, passa da un'abitazione all'altra e prova a rifarsi una vita. Quando non gli manca, il lavoro è precario e tutto diventa perennemente difficile e incerto, tutto è segnato dalla miseria e da una sorveglianza ostinata e soffocante. Alla fine del 1940, dopo anni di persecuzioni e una "vita ritirata", che "non ha dato luogo a rilievi", la Questura consente che sia assunto per lavori alla metropolitana. Quando, però, il Commissario della Sezione Stella aderisce alla proposta della Questura di "radiare il muratore dal novero dei sovversivi", l'onnipotente polizia politica oppone il suo parere contrario: per gli uomini della Squadra Politica, Coraggio è un "elemento infido", che continua a "nutrire sentimenti sfavorevoli al Regime Nazionale Fascista e si mantiene estraneo a tutte le cerimonie e manifestazioni di carattere nazionale".
La polizia ha in mano tutti gli elementi necessari a valutare il caso. Sa che l'uomo si è sposato, ma "è disoccupato da due anni e vive col lavoro della moglie che fa la cameriera". E' vero, non è iscritto al partito fascista, non ha la tessera del sindacato corporativo e in cuor suo è ancora socialista; altrettanto vero, però, è che non ha contatti, non cospira ed è ormai così malridotto, che molto probabilmente là dove ha fallito la repressione, riuscirebbe un gesto di umanità. Il "regime inclusivo", di cui cianciano gli storici di questo nostro tempo buio, non ha, però, né gli uomini, né la duttilità per intuire che la crisi si avvicina rapidissima, che il fronte interno si sgretolerà ai primi colpi e la repressione non garantisce il fascismo, ma lo indebolisce.
L'ultima notizia che la polizia ci lascia sul muratore risale all'aprile del 1941. Richiamato alle armi, Coraggio è stato assegnato al distaccamento di artiglieria di via Emanuele Gianturco e da lì trasferito a Nicotera. I conti con il regime che gli ha avvelenato la vita li salderà a fine settembre del 1943, quando, tornato in città dopo l'armistizio e lo sbandamento dell'esercito, diverrà partigiano nelle Quattro Giornate e combatterà sulle barricate durante l'insurrezione. Come aveva promesso in quel fatale maggio del 1927, ha visto la bandiera del suo socialismo sventolare sul corpo del fascismo. Con lui si sono levati in armi più di duecento perseguitati politici e il loro messaggio incute ancora timore a pennivendoli e servi sciocchi: nessun diritto si conquista per sempre, ma nessuna tirannia dura in eterno.
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