La pratica e la grammatica
Mauro Boarelli - 09-07-2015
da Gli asini. Rivista di educazione e intervento sociale nn. 27-28/2015

Quando Renzi si è presentato davanti alle telecamere in maniche di camicia con i gessetti colorati in mano e una lavagna in ardesia alle spalle per spiegare la sua "buona scuola" alla vigilia della discussione parlamentare, l'ironia di molti commentatori si è concentrata sul fatto che - a un certo punto - il Presidente del Consiglio ha scambiato un aggettivo con un sostantivo. È passato in secondo piano un errore ben più grave: l'uso del verbo "ascoltare" come sinonimo del verbo "discutere". Il "vorrei discutere insieme a voi" con cui Renzi ha iniziato il suo videomessaggio è un evidente non-senso: di fronte a sé aveva solo anonimi ascoltatori che non potevano porre domande o replicare o esprimere un punto di vista critico; non potevano fare - in definitiva - tutto ciò che normalmente è implicito nel verbo "discutere". Nella visione politica renziana, però, le cose stanno diversamente. "Ascolto tutti, ma poi dobbiamo decidere" è il leitmotiv dei suoi discorsi, compresi quelli sulla riforma scolastica. In realtà le decisioni sono già prese, ma l'assicurazione reiterata circa la propria disponibilità all'ascolto non è solo retorica, è anche sincera incomprensione del fatto che ascolto, discussione e decisione siano tre aspetti distinti, l'uno propedeutico all'altro, l'uno strettamente intrecciato con l'altro.
A chi era destinato il videomessaggio di Renzi? Non agli insegnanti. L'adesione massiccia allo sciopero generale degli inizi di maggio ha dimostrato che il suo progetto non ha il consenso del mondo della scuola, e così è andato a cercarlo laddove pensa, con qualche ragione, di poterlo trovare e incrementare. Il suo invito a "discutere" era quindi rivolto prioritariamente alle famiglie, perché da quelle parti non sono ancora rintracciabili forme di protesta organizzate, e questo rappresenta una differenza significativa rispetto al passato. Le ragioni di questa assenza sono di diversa natura. Non è da sottovalutare la sfiducia nella possibilità di incidere sulle scelte politiche che percorre la società nel suo complesso, non ancora in grado di elaborare in forme pienamente autonome il vuoto di rappresentanza generato dal disfacimento del sistema dei partiti e dall'afasia delle organizzazioni sindacali. Da quasi quindici anni i movimenti per la scuola pubblica sperimentano sulla propria pelle la sensazione di impotenza generata dall'impermeabilità delle istituzioni alla partecipazione popolare e dall'isolamento rispetto alle forme organizzate della rappresentanza.
Ma qualche motivo va rintracciato anche nei modi in cui la scuola ha silenziosamente mutato la propria natura nello stesso arco di tempo in cui i movimenti hanno raggiunto la loro maggiore espansione, tra la "riforma" voluta dal ministro Moratti e quella varata sotto il ministero Gelmini. L'ingresso sempre più accentuato di meccanismi propri del mercato (la competizione in luogo della cooperazione) ad opera di strumenti insidiosi perché apparentemente neutrali (la valutazione standardizzata e quantitativa) ha contribuito a modificare progressivamente il clima nelle istituzioni scolastiche, la loro organizzazione, la loro didattica. L'ideologia del "merito" - un concetto nebuloso e ambiguo, che promette eguaglianza mentre le scava la fossa - ha già prodotto risultati tangibili sul piano culturale modellando un senso comune assai fertile per creare consenso intorno a una riforma che sventola proprio il "merito" come vessillo.
Il disinteresse dei genitori per i destini della scuola pubblica frequentata dai propri figli ha origine anche dal disinteresse degli insegnanti nei loro confronti. Quanti, ieri, si sono preoccupati di spiegare alle famiglie i trabocchetti del "merito"? E quanti, oggi, si stanno dedicando a esporre in modo critico i contenuti della riforma renziana? Non è solo una questione di informazione, pure importantissima visto lo strapotere dei mezzi di comunicazione filogovernativi. È una questione politica, nel senso più ampio (e nobile) del termine. Vuol dire che la maggioranza di coloro che lavorano nella scuola non si è preoccupata di costruire alleanze sociali con tutti i soggetti coinvolti quotidianamente nella vita scolastica. Si tratta di una cesura che non nasce ora. I genitori e gli studenti sono stati di fatto espulsi dal governo delle scuole, e questo non solo a causa della natura burocratica degli organi collegiali, ma anche e soprattutto perché la loro presenza e le loro domande sono vissute da troppo tempo come una fastidiosa incombenza da sbrigare in fretta e senza impegno, senza "ascolto".
È per la convergenza di questi processi di natura differente che oggi, a parte significative ma non incisive eccezioni, genitori e studenti non sono a fianco dei docenti, oppure non lo sono nelle forme organizzate che la situazione richiede.
Vuol dire, in definitiva, che l'istruzione non è percepita come una questione sociale che riguarda tutti, ì indistintamente. La scuola pubblica si è progressivamente separata dal mondo e ora si ritrova isolata di fronte a un progetto che potrebbe (e sicuramente vorrebbe) portare alla sua disgregazione. D'altra parte, la scuola pubblica è fatta di differenze, di visioni a volte contrapposte, di contraddizioni.
Come è possibile difenderla rappresentandola come un blocco compatto, scambiando una parte per il tutto? Questo riflesso condizionato che caratterizza l'opposizione al disegno di legge governativo agisce come dispositivo di protezione verso un attacco lucido, sistematico, prolungato nel tempo. È una linea difensiva comprensibile e per certi aspetti obbligata, ma anche vulnerabile. Il "tutto" della scuola pubblica è anche il peggio della scuola pubblica, e su questa contraddizione Renzi sta giocando le sue carte in modo più spregiudicato rispetto ai suoi predecessori. Da un lato solletica il senso comune, lo stuzzica semplificando e banalizzando la realtà (tutto il suo discorso politico è costruito intorno alla semplificazione e alla banalizzazione), ma lo fa con successo perché la sua base di partenza è ciò che nella scuola non funziona, e sopra ogni altra cosa il fatto che non tutti gli insegnanti sono capaci nel proprio lavoro: una realtà che qualunque genitore o studente sperimenta quotidianamente. Dall'altro lato (e ciò ne mostra ancora una volta l'intento ingannatore) fa discendere i punti cruciali della sua riforma proprio da ciò che di peggio caratterizza la scuola pubblica: saranno infatti il burocratismo, il centralismo e l'autoritarismo a tenere a battesimo la selezione diretta dei docenti da parte dei dirigenti, una trasformazione che - attuata nelle forme previste dal disegno di legge - mette in pericolo la libertà di insegnamento e crea un terreno favorevole alla penetrazione di patologie che la scuola pubblica era finora riuscita a tenere fuori dalla porta nonostante siano ormai endemiche in larga parte del tessuto sociale: il clientelismo, i favoritismi, la discriminazione, la corruzione.
Coloro che praticano la "buona scuola" (quella vera che già esiste, non quella pubblicizzata dal marketing governativo) dovrebbero pensare se stessi per quello che sono nella realtà, cioè come una parte e non come il tutto, e utilizzare politicamente questa parzialità e questa differenza. Si tratta di una prospettiva che non indebolisce il fronte delle opposizioni alla riforma, prima di tutto perché in quel fronte mancano pezzi interi di società che devono essere recuperati. Bisogna tenere presente che l'approvazione del disegno di legge (commentato nella versione online di questa rivista il 20 marzo: La cattiva scuola) non segnerà il punto finale della vicenda. Cosa accadrà dopo dipenderà dalla capacità di disinnescare il potenziale distruttivo della riforma e di tornare finalmente a parlare di come si fa scuola , un argomento completamente ignorato dai legislatori.
L'alleanza fra coloro che hanno a cuore la scuola pubblica può essere realizzata solo sul terreno concreto della pratica educativa e della condivisione delle sue finalità sociali. Ed è proprio su quel terreno che i principi sui quali la scuola pubblica è fondata (l'universalità, l'uguaglianza, la libertà di insegnamento) cessano di essere astrazioni.

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