Apprendimento e tecnologie
Bruno Santoro - 21-03-2015
Nella nostra epoca il problema dell'istruzione ovvero quello della formazione del cittadino si gioca sensibilmente attorno al rapporto tra didattica e tecnologia, in particolare le tecnologie dell'informazione. Si tratta di un rapporto che già da molti anni si cerca di bilanciare ma che spesso si scontra con una difficoltà reale dovuta a due fattori contrapposti: da una parte ad un vuoto di elaborazione di modelli didattici, dall'altra l'aggressiva esuberanza di soluzioni tecnologiche che dichiarano di potere risolvere i problemi a cui quei modelli didattici dovrebbero rispondere.
Tentare di bilanciare questo rapporto significa quindi anzitutto colmare questo vuoto e, dopo averlo fatto, selezionare le offerte e scegliere le soluzioni.

Ciò di cui abbiamo bisogno è essenzialmente una strategia, una pianificazione attenta modellata sui nostri bisogni e che, con sufficiente consapevole, approfitti dei molti, innegabili e profondi vantaggi che la tecnologia oggi offre al mondo dell'istruzione.
Perché accogliere la tecnologia all'interno della didattica si deve, quindi, ma anteponendo la necessità di una strategia, disegnandola preventivamente attorno ai problemi, ai bisogni e alle caratteristiche del contesto di apprendimento.

L'insegnante moderno, non dobbiamo dimenticarlo, è soprattutto un professionista che affronta problemi di apprendimento; per farlo realizza scenari didattici secondo le proprie competenze.
Disegnare scenari, organizzare occasioni di apprendimento, elaborare attività e soluzioni formative è quello che definisce quegli ambienti come ambienti di formazione: spazi di attività che, se vogliamo rispettare l'orientamento del costruttivismo sociale (ispirazione alla quale tutti oggi sembrano appassionatamente appartenere: basti guardare alle parole chiave che vengono usate..) deve essere realizzato, cioè modellato per l'azione didattica anche in collaborazione con i soggetti (nella doppia accezione di costruttori e di utenti ) dell'istruzione, cioè gli stessi allievi.
Un ambiente di formazione è un ambiente di modellazione dattica.

Perché un ambiente, fisico o virtuale che sia, diventi ambiente di apprendimento occorre però che esso sia scelto e abitato e non solo 'alitato': l'obiettivo non è la semplice presenza registrata ma una attiva partecipazione all'invenzione del proprio percorso formativo.
Occorre quindi quanto meno innescare quell'accredito emotivo che ogni abitante di un mondo, quindi anche il cittadino digitale, concede ad uno spazio protetto al quale affidare, seppur parzialmente, le coordinate della propria formazione di persona e in definitiva della propria rappresentazione del mondo.

La caratteristica di uno scenario di apprendimento è quella di innescare la definizione valoriale di uno spazio che non è solo non solo suddiviso, tecnicamente convissuto o praticamente co-utilizzato: come potrebbe essere, ad esempio, qualsiasi spazio telematico condiviso secondo le regole di una policy o una cartella comune su di un server remoto.
Definire uno di questi spazi telematici 'ambiente condiviso' è il segno della superficialità e della mancanza di consapevolezza con i quali alcuni si accostano al mondo digitale pensando di applicare ad esso le medesime coordinate che peraltro gli impediscono una chiara visione delle cose anche nel mondo scolastico senza la tecnologia.

Provocare questo processo, attivare il percorso di accreditamento che possa portare progressivamente un gruppo disomogeneo, composto di individualità separate a diventare una piccola comunità di apprendimento significa lavorare ad un progetto, profondamente umano e relazionale, non tecnologico, si attività comuni nelle quali ciascuno si senta sufficientemente valorizzato, valutato nelle prestazioni e mai giudicato nella persona.

Dunque avere una strategia didattica, posti come già definiti i fondamenti pedagogici dell'azione didattica (come si apprende? Perché? Come apprendono gli adolescenti? Quali dinamiche di gruppo sono riconducibili a fasi di apprendimento collettivo?) significa soprattutto creare comunità di apprendimento, utilizzando, come farebbe un buon artigiano o un progettista, i migliori materiali disponibili, gli strumenti adeguati allo scopo: e quando necessario costruendone di nuovi.

Le tecnologie possono essere un'eccellente opportunità per creare con i propri allievi ambienti integrati che possano favorire la nascita di comunità di apprendimento. Considerata l'enorme incidenza che le tecnologie digitali hanno all'esterno della scuola sulla vita quotidiana dei nostri allievi, devono certo diventarne un elemento familiare anche all'interno.
Il problema è che esse non sono semplici strumenti, come da più parti si tende ad accreditare in modo 'tranquillizzante' né tanto meno delle zone franche, neutre, facilmente plasmabili alla bisogna.
Tantomeno si tratta di ambienti portati a disegnare naturalmente ambienti formativi nel senso scolastico del termine o a modellare competenze di cittadinanza: piuttosto si tratta si aree attrezzate governate da logiche tecnico-gestionali e strettamente commerciali, di profitto: in molti casi, come nei diffusissimi modeli di social, disegnate secondo gli assiomi avvolgenti (la grande ragnatela, si sa, è...vischiosa) del marketing avanzato assistito dalle moderne neuro-scienze. Non si è molto lontani dal vero se si afferma che si tratta di ambienti che impongono all'utente/abitatore linguaggi, codici, dialetti, creando nuovi bisogni, strutturando comportamenti.
Sono i nuovi supermercati dell'informazione e qualunque soluzione 'sociale' essi progettino ed offrano al mercato è comunque un prodotto da commercializzare con profitto.
Fare distinzione tra strumenti di connessione e ambienti cui essi immettono è operazione peregrina: sono elementi intimamente co-generati e definire i primi semplici 'strumenti' serve solo a rassicurarci sul controllo che l'utente avrebbe su di essi come su un qualsiasi accessorio ad estensione delle nostre naturali facoltà.

Si tratta di vero e proprio marketing culturale quello nel quale le grandi major del settore gestiscono enormi flussi di informazioni e che canalizzano ovviamente secondo interessi aziendali.
In una società dell'informazione l'informazione, lo sappiamo, non si fa da sé: è un prodotto.
Anche nel caso di "piattaforme protette", prodotti dedicate all'istruzione, si tratta di soluzioni predisposte per un utilizzo facilitato, spazi nei quali, 'con pochissimi click' - come recitano le grrafiche pubblicitarie - anche insegnanti ancora 'poco informati' sulle possibilità del mondo digitale possono modellare, con elementi prefabbricati, interventi didattici di successo, azioni fortemente motivanti, pratiche didattiche sensibilmente formative e di perfetto gradimento degli allievi.
Devo confessare che questo tipo di tecnologia didattica, totalmente sbilanciata nella declinazione dell'accezione digitale, fatta di bacini di informazioni a pagamento ( i grandi archivi giornalistici), moduli esercitativi pre-confezionati, mappe concettuali pre-masticate, simulazioni di attività cognitiva in modelli semi-automatici e reiterativi è per me sinceramente un modello sconcertante di istruzione.

Chiunque abbia seguito un corso online obbligatorio su una qualunque delle tematiche che si sviluppano attorno e dentro il mondo del lavoro (sicurezza?) sa di che cosa parlo in quanto a interesse, motivazione, piacere dell'apprendere e soluzione delle proprie difficoltà che sono in grado di suscitare nell'utente.
Persino gli avanzatissimi corsi di tipo MOOC tentano senza successo di emulare la creazione di comunità di apprendimento e vi riescono solo con un investimento massiccio di motivazione personale da parte dell'utente. Pre-requisito che nel mondo 'normale' costituisce invece proprio l'obiettivo nobile da raggiungere attraverso l'azione didattica.

Una sorta di sindrome da Lego digitale, insomma, si è impossessato di una buona parte del mondo scolastico, all'inseguimento della chimera della 'formazione automatica', una soluzione che dovrebbe nelle intenzioni permettere agli insegnanti di farsi 'assistere' (sostituire?) da un sistema robotizzato, standardizzare l'apprendimento e, in futuro, chissà, magari anche orientarlo flessibilmente verso nuove e progressive necessità sociali.

In realtà le piattaforme didattiche si candidano ad essere, agli occhi di studenti già 'avvisati' (è vero che sono nativi digitali, ma mica proprio stupidi) dei veri propri 'recinti' nei quali alcuni dei vantaggi migliori della telematica (senso della scoperta, apertura sul mondo, libertà di azione) andranno perduti assieme all'"effetto wow!" non appena l'esperienza digital-didattica si istituzionalizza, diventa compito, incombenza da assolvere, tedioso esercizio.
Si può immaginare la gioia degli studenti nel collegarsi alla piattaforma digitale della scuola, con il registro elettronico, gli esercizi, i materiali da assemblare, i forum obbligatori cui partecipare: potrà mai un tale ambiente essere emotivamente connotato come spazio da 'abitare'?
Forse con il prossimo salto tecnologico, magari gli ologrammi tridimensionali.

Accogliere la tecnologie in classe significa avere ben chiaro che la scuola che stabilisce le condizioni di questo rapporto e che una didattica digitale non significa che il primo termine, il sostantivo, venga poi fagocitato dal secondo che ne è solo uno degli attributi e neanche il più importante.
La tecnologia in classe quindi è la benvenuta se gli innegabili vantaggi che il mondo digitale oggi ci offre sono utilizzati all'interno di una strategia formativa e dal punto di vista della didattica: cosa che non può avvenire se, invece, intimoriti dalle novità tecnologiche, sedotti dalla scintillante realtà virtuale, convinti da abili piazzisti, disorientati dalle condizioni attuali del sistema di istruzione ci lasciamo convincere a cercare di immaginare una didattica dal punto di vista della tecnologia, dando per scontato che qualsiasi pur lieve vantaggio essa ci offra sia pur sempre meglio delle attuali difficoltà che molti oggi trovano nel 'fare scuola', nel comprendere i propri allievi, nell'affrontare i loro problemi di apprendimento.

I problemi della scuola, infatti, non sono stati creati dall'assenza di tecnologia e da un presunto digital divide che impedisce ai nostri allievi di accedere alle medesime opportunità dei coetanei europei: i loro comportamenti, anzi, sono perfettamente in linea con i migliori 'consumatori di digitale' del mondo e se una volta si andava a scuola per ottenere informazioni oggi tutta l'informazione di cui abbiamo bisogno, compresi i contatti interpersonali e le opportunità di lavoro, passa invece all'esterno della scuola stessa. E oggi tutti, ma proprio tutti, hanno una connessione in 3G o 4G, anche nei paesini più sperduti del nostro Appennino. Elettrificare l'istruzione purtroppo non ridurrà alcuno dei gap culturali che si intende affrontare poichè la radice del problema sta piuttosto nella teoria della conoscenza e nella metodologia didattica, che è rimasta in molti casi all'Ottocento e non conosce né Dewey, né Lewin oltre ad avere dimenticato la Montessori.

Puntare con una certa gaiezza sui malfondati concetti di nativo digitale e competenze digitali naturali dei nostri giovani allievi, farne addirittura i prodromi di una ipotetica e assolutamente aleatoria intelligenza digitale frutto di una altrettanto bene inventata evoluzione epigenetica non farà altro che legittimare i problemi che una iper-digitalizzazione della nostra società sta invece già causando ai nostri ragazzi (miopia giovanile, difficoltà di lettura e comprensione del testo, difficoltà di sintesi concettuale, di calcolo) incoraggiati piuttosto sulla strada di un perfetto, circolare, avvolgente consumismo digitale.


Bruno Santoro
www.letsnet.it

Tags: Apprendimento, tecnologia didattica, ambienti di apprendimento


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