L'Europa dopo la prima guerra mondiale
Gennaro Tedesco - 21-11-2014
Il 1918 è l'anno del rientro dal fronte: ritornano a casa, alla vita civile, milioni di tedeschi, italiani, francesi, inglesi. In Italia e in Germania più che in Francia e in Inghilterra la fine del primo conflitto mondiale introduce segni evidenti di disgregazione politica e sociale oltre che economica. Certo tutta l'Europa, all'indomani della prima tragedia mondiale, è attraversata da una crisi economica lacerante e profonda. La produzione bellica cessa, non si riesce, per il momento, a intravedere qualcosa di alternativo ad essa.
Le industrie europee, uscite dal conflitto, non possono più produrre per il mercato unico e standardizzato imposto dalle esigenze belliche. Le forniture belliche richiedono una concentrazione di capitali che conduce alla formazione di cartelli industriali monopolistici, altamente tecnologici e organizzati.
La prima guerra mondiale, terminata nel 1918, lascia in eredità industrie belliche prive di mercato con milioni di operai disoccupati.
La lunga e dura esperienza bellica del '15-'18 concentra, monopolisticamente, i capitali industriali, ma razionalizza la produzione ai fini di una migliore e più innovativa organizzazione militare. La guerra, quindi, spinge i governi europei (Italia, Germania, Francia, Inghilterra) a concentrare e razionalizzare non solo l'industria ma anche i comandi militari. L'alta finanza privata si organizza e si concentra per favorire i prestiti alle industrie belliche che a loro volta vengono indirizzate da una gerarchia militare, anche essa ormai pesantemente organizzata e affiancata da una burocrazia civile sempre più militarizzata e, per certi aspetti, dispotica.
D'altra parte, la guerra di trincea riversa milioni di operai, contadini ed impiegati su un fronte che diventa anche luogo di riflessione collettiva e di presa di coscienza di classe, soprattutto per il proletariato operaio e contadino. Per gli impiegati della piccola e media borghesia la trincea diventa anche il luogo della loro elevazione sociale in quanto li colloca a posti di notevole responsabilità militare. In Italia i reduci, al rientro dal fronte, attendono riforme di ampio respiro, soprattutto una, la riforma agraria promessa ai contadini durante la guerra. I fanti, ridivenuti operai senza lavoro, attendono quanto meno un controllo sulle industrie. I protagonisti del combattentismo piccolo e medio borghese ritengono dovuto un riconoscimento politico e sociale al valore dimostrato in guerra, ma questo tarda a venire o, addirittura, i reduci sono scherniti al loro rientro in patria. Sono questi fenomeni sociali ed economici ben noti in Italia e in Germania, dove, alla crisi post-bellica, si aggiunge anche il bruciante disonore della sconfitta. L'Italia e la Germania diventano le nazioni emblematiche del primo dopoguerra. La depressione economica, seguita alla caduta della produzione industriale bellica, trova il partito socialista italiano diviso e impreparato a gestire il fermento rivoluzionario serpeggiante nelle masse operaie e contadine che, in qualche modo, si sentono tradite e abbandonate da una classe dirigente incapace di gestire, rinnovandosi, la transizione necessaria per ottenere nuovi ordinamenti politici e sociali.
In verità sia i liberali che i socialisti dimostrano una miracolistica fede nell'autorigenerazione delle ormai fatiscenti istituzioni liberali. Sulla scena politica della nostra penisola rientrano nel gioco parlamentare, attraverso il partito popolare, i cattolici italiani. Essi, per il loro carattere settoriale, non riescono ad apportare un contributo sostanziale alle istituzioni liberali. Il partito socialista è dilacerato da una crisi interna senza precedenti: da una parte i massimalisti che agitano la bandiera rivoluzionaria, ma la rivoluzione non la attuano, dall'altra, con Turati i riformisti che, in qualche modo, sono disponibili a collaborare con il governo liberale e borghese, ma nei fatti sono esitanti e la collaborazione rimane teorica. In questa situazione si inseriscono i comunisti italiani che abbandonano il partito socialista, scegliendo la via rivoluzionaria tracciata da Lenin e dal partito comunista sovietico. Gramsci e i suoi seguaci non riescono ad ottenere risultati considerevoli anche per il ridotto numero di iscritti e per la comprensibile impreparazione del nuovo partito. La Rivoluzione sovietica e il modello leninista di Stato proletario sono gli esempi a cui si ispirano i partiti comunisti dell'Italia e della Germania. Lenin ha scatenato la rivoluzione del 1917 in Russia all'insegna della ripartizione fondiaria e della cessazione della guerra contro gli Imperi centrali.
In Italia l'occupazione inconcludente delle industrie precipita la situazione politica: allontana sempre di più i tecnici del partito socialista e il ceto medio impiegatizio e avvicina sempre di più la piccola e media borghesia "reducistica" e combattentistica a un nuovo movimento politico, il movimento fascista, che riscuote quasi subito il consenso del ceto agrario e industriale del Nord. Ai fascisti ben presto si affiancheranno i nazionalisti e i liberali. Il movimento sindacale e socialista, diviso e lacerato nell'equivoco massimalista e riformista, non sa cogliere l'opportunità di divenire classe dirigente, fornendo alle forze retrive della borghesia più razionaria la possibilità di riorganizzarsi e operare quella che, a tutti gli effetti, non è che una controrivoluzione, la controrivoluzione fascista. In Germania la Repubblica di Weimar non riesce a consolidarsi: i socialdemocratici sono costretti a difendersi su due fronti interni e uno esterno: la Germania del primo dopoguerra è una nazione a pezzi, anch'essa alle prese con una crisi industriale senza precedenti, con milioni di disoccupati, con una Repubblica democratica alle sue prime prove, sorta, sulle ceneri dell'Impero tedesco; in questo clima socio-economico e politico una classe dirigente nuova come quella socialdemocratica, nel passato imperiale e bismarckiano sempre tenuta fuori da una gestione diretta e democratica dello Stato, trova l'ostilità dichiarata delle vecchie classi dirigenti conservatrici e reazionarie, che sono nettamente contrarie all'esperimento democratico dei socialdemocratici. D'altra parte alla loro sinistra i socialdemocratici si scontrano con i comunisti. I seguaci del modello leninista non accettano il riformismo democratico dei socialdemocratici e riducono il consenso popolare e proletario di cui la Repubblica di Weimar ha tanto bisogno. Sul fronte esterno le potenze vincitrici, Francia e Inghilterra, non aiutano né finanziariamente né politicamente la neonata Repubblica di Weimar, anzi la screditano. In questo clima politico e sociale anche in Germania hanno facile corso le forze della reazione che si organizzano e lentamente prendono il sopravvento.

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