Delle tre I due disattese
Francesco di Lorenzo - 24-10-2014
In media, nelle nostre scuole, c'è un computer ogni dodici studenti. In Europa, uno su tre. Naturalmente in assoluto le statistiche dicono poco, bisogna capire, valutare i numeri, cercare anche con un po' di creatività di interpretare i dati che ci vengono forniti. Comunque, le indagini su questo argomento (come su altri), a saperle leggere, forniscono sempre una serie di indicazioni, ed offrono altrettanti spunti di riflessioni. Certo, c'è poco da riflettere sul fatto che peggio di noi stanno la Grecia (un computer ogni 17 alunni) o la Turchia (uno ogni 22); mentre ci suggerisce qualche pensiero il fatto che gli alunni delle nostre elementari sono i più disagiati, a differenza di quelli delle superiori: da noi i computer, è un dato di fatto, sono appannaggio degli alunni delle scuole secondarie di secondo grado. E bisogna anche considerare che per gli alunni delle elementari, la connessione ad internet è attivata per 1 su ogni 333, un po' troppo poco.
L'articolo da cui vengono ripresi tali numeri, uscito su Wired.it, ci dice anche che da noi più che altrove i computer sono relegati nei laboratori, e che nelle classi ci sono solo i computer per il registro elettronico e qualche tablet sparso. Insomma, la situazione tante volte sentita di una spaccatura tra un ministero che predica l'evoluzione tecnologica con la computerizzazione spinta e una classe docente restia ad accettarla, è una profonda bugia, una 'bufala' divulgata senza alcun ritegno. La verità è che oltre all'endemica mancanza di fondi ( a parte poche realtà), si riscontrano anche mancanze di altro tipo, per esempio, quella di avere a disposizione macchinari non aggiornati, praticamente, come spesso succede, degli scarti. La considerazione finale dell'articolo citato però è quantomeno consolante e dice che non c'è correlazione tra strumenti a disposizione degli studenti e apprendimento nelle varie discipline. È determinante invece l'uso che di tali strumenti si fa nelle classi. Come dire, cambiare l'abito senza cambiare la mentalità è del tutto inutile.
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Sulle lingue straniere, la nostra scuola sconta dei ritardi enormi. Nonostante gli impegni presi con la comunità europea, ci siamo talmente incasinati con decisioni e scelte sbagliate che alla fine non abbiamo raggiunto neanche il minimo indispensabile. Si era nel 2000, con la strategia di Lisbona si diede grande rilievo allo studio delle lingue comunitarie. Addirittura alcuni paesi non avevano atteso tale data, già da decenni e fin dalle scuole elementari, nelle loro classi si studiavano proficuamente le lingue straniere, almeno due. Da noi, mentre si decideva chi dovesse insegnare l'inglese nelle scuole elementari, poi lo si insegnò con poche ore di aggiornamento e si perse l'occasione di sfruttare a dovere la metodologia CLIL, cioè l'apprendimento integrato di contenuti non linguistici in una lingua straniera: in poche parole, materie come storia, geografia o scienze in una lingua diversa dall'italiano. Il risultato è stato che nel primo decennio del 2000, nei paesi nordici e baltici, il 50% degli studenti ha imparato due lingue straniere. Da noi, i tagli alle spese scolastiche hanno affossato il poco e male che si stava faticosamente costruendo. Basti pensare che le poche scuole sperimentali statali in Italia, dove veramente si pratica la metodologia CLIL, vale a dire, i licei classici europei, si contano sulle dita della mano e sopravvivono sempre con l'ansia della chiusura definitiva.
Ma noi siamo speciali. Noi siamo il paese che per l'82% diciamo (come idea) che per stare al passo con i tempi si dovrebbe conoscere almeno una lingua straniera; però il 62% degli italiani dice di non padroneggiane alcuna, mentre il 32% dichiara di non avere mai provato a studiarne una.

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