Riforma o "controriforma"?
Elisabetta Malaman, Lorenzo Picunio - 02-12-2002
Tre premesse: due di carattere metodologico ed una di contenuto.

La prima premessa metodologica riguarda il valore dell’esperienza scolastica come “taglio educativo” di un progetto politico. La sinistra italiana ha una fortissima componente pedagogica al suo interno.si può quasi dire che esperienze come quelle di don Milani o del Movimento di Cooperazione Educativa hanno anticipato il 1968 (con Bruno Ciari, Mario Lodi, Fiorenzo Alfieri e, fuori d’Italia, Celestine Freinet). Oggi si punta ad attribuire alla comunicazione ed all’informazione un valore specifico nella costruzione di percorsi politici. È questa sembra – la scommessa di “Carta” e di tutto il mondo dell’informazione antagonistica radiofonica ed internettiana. La comunicazione è senz’altro un dato importante, ma anche l’istruzione è una forma forte e molto specifica di comunicazione, oggi forse più che in passato. Tanto più che l’istruzione se in passato è stata la principale forma comunicativa per parte della società italiana, rimane ancora un canale di un certo peso, sul quale si misura – e le vicende della riforma Moratti lo stanno a dimostrare – quanta democrazia chi governa vuole diffondere fra i governati.

La seconda considerazione metodologica riguarda la proprietà del sapere: la scuola è per sua natura nemica del “sapere proprietario”: si pensi a quante grida – nel senso manzoniano – sono state emesse contro la fotocopiatura dei libri nelle scuole e quanto questo non abbia modificato in nulla l’agire “guerrigliero” – in questo specifico campo – del professore più reazionario o della maestra più incartapecorita. La scuola è per sua natura il luogo dove le conoscenze si diffondono e si generalizzano, alla faccia di ogni capyright, e questo non è solo un “mezzuccio” per sopravvivere, ma un valore metodologico fondante, senza il quale non c’è vero insegnamento.

La premessa di contenuto riguarda lo stato dell’arte della riforma all'agosto 2002. Il governo ha stoppato la Moratti, annunciando – come si sa – che ci sono solo “fichi secchi”. La cosa è stata letta dai giornali in modo ambiguo, dicendo talvolta che nella riforma c’era qualcosa di buono. Prima di tutto – va detto – il succo della riforma riguarda la secondaria superiore, e su questa parte il progetto ha tutta l’aria di voler andare avanti, magari con piccoli aggiustamenti. Ad esempio, perfino la Confindustria si è lamentata di un troppo di parcellizzazione e di una mancanza di insegnamenti di cultura generale nella formazione professionale. Per quanto riguarda la scuola di base, si risente in giro una vecchia canzone – cara a qualche giornalista – sulla nostalgia del maestro unico. Allora, mettiamo le cose in chiaro: la riforma del 1989 non è servita ad aumentare posti di lavoro (che infatti non sono aumentati), ma a migliorare la qualità dell’insegnamento. Il modulo non ha introdotto “la maestra di matematica”, ma ha diviso fra gli insegnanti la responsabilità della preparazione delle varie materie, il cui insegnamento rimane unitario (questo a fronte della necessità di fare non più “poco di tutto” – il vecchio maestro tuttologo - ma di entrare più a fondo nei contenuti epistemologici delle discipline e nell’acquisizione delle metodologie dell’insegnamento di esse). Se in certe situazioni la cosa si è volgarizzata nella “maestra di matematica” e cose simili, dipende solo da come essa è stata attuata.
La scuola dell’autonomia ha reso questo meccanismo meno rigido, consentendo accorpamenti di aree disciplinari tale da creare una certa prevalenza, specie nel primo ciclo. Qualcuno furbescamente ha messo in piedi quelle strutture stellari che L’Espresso ha presentato come una grande novità: un insegnante di classe ed insegnanti specializzati per musica, ginnastica, disegno. Come dire che esistono discipline importanti e secondarie, che l’uomo è fatto di competenze “importanti” ed altre secondarie. Si tratta appunto di una furbata (come l’altra – simile – che consente agli insegnanti il giorno libero facendo stare i bambini a scuola dalle 8 alle 13 senza pomeriggi), che utilizza l’autonomia come trucco per far andare le cose all’indietro.



Tutte le riforme che in questi anni hanno toccato l’istruzione hanno lasciato – a vario titolo – delle scontentezze: le stesse proposte Berlinguer e De Mauro, pure riconosciute positive nelle intenzioni degli autori, andavano o a toccare interessi consolidati (secondo una interpretazione) o a dare risposte, arretrate o cattedratiche o inutilmente selettive, secondo quella che è stata fra insegnanti, studenti ed operatori scolastici l’interpretazione prevalente.
A nostro parere va fatta una considerazione sulla situazione esistente: la scuola italiana è molto debole nel suo assetto istituzionale “di fondo”, assolutamente inadeguata a rispondere al dettato degli artt. 3 e 34 della Costituzione. Esiste un obbligo scolastico fermo ai 15 anni (e nemmeno del tutto rispettato); non esistono possibilità istituzionali di adattare la scuola alle esigenze dei ragazzi, non esiste una forma istituzionalizzata dei laboratori, dei progetti didattici o di qualunque attività che rispondano a specifiche esigenze di chi nella scuola lavora e studia.
Questo nelle grandi leggi d’impianto (che tutte, detto per inciso, prevedono la bocciatura, dall’elementare in avanti). Altro discorso si può fare in relazione alle norme applicative, che hanno – con fatica – seguito l’evoluzione del costume e della pratica didattica: ad esempio i programmi del 1985 e la riforma del 1989 della scuola elementare hanno raccolto mote proposte del dibattito didattico e politico avviato dagli anni ’70 in avanti. E altro ancora va detto della pratica didattica, che si rivela nei fatti molto più avanzata, seppure con un criterio di migliore qualità progressiva dalla superiore alla scuola d’infanzia; e anche da un passato più lontano via via fino all’oggi. Una riflessione all’ingrosso potrebbe anche dire che le scuole sono migliori in città che non nei piccoli centri, e nel settentrione piuttosto che nel meridione, ma forse emergerebbero molte prove in contrario a smentire – in un senso o nell’altro – affermazioni di questo tipo.

C’è un’ottima scuola d’infanzia statale, seppure non generalizzata con un corpo insegnante molto coinvolto nella formazione continua e nell’aggiornamento; c’è anche un intervento significativo in moltissimi centri delle Amministrazioni Comunali, generalmente molto attente alla qualità del servizio; bisogna anche dire che nel caso della scuola d’infanzia c’è una significativa presenza della gestione religiosa; ma questa presenza corrisponde ad un’internità – tutto sommato – delle insegnanti (suore o laiche che siano) al dibattito che attraversa questo ordine di scuola.

C’è una scuola elementare considerata di buon livello nei test internazionali, caratterizzata da una molteplicità di esperienze diverse, da un impegno notevole della maggior parte dei dirigenti e degli insegnanti, da forme ricche di aggiornamento, da un forte investimento (nella maggioranza dei casi) da parte degli enti locali, da un’organizzazione flessibile costruita (in regime di autonomia, ed anche prima che questo regime esistesse) per assicurare ai bambini laboratori, attività di gruppo, uno sfruttamento di qualità dei non molti spazi di contemporaneità oraria fra insegnanti. Anche la sfida recente dell’integrazione degli alunni stranieri è stata affrontata con impegno e buoni risultati. Rimangono in giro delle “cattive” scuole elementari ? Si dice di sì, ma si tratta di un dato abbastanza isolato e – nel tempo – autocorrettivo: un team che non collabora al suo interno si disfa nel gioco dei trasferimenti, un dirigente di bassa qualità perde consenso fra insegnanti e genitori e ripensa al proprio ruolo.

La scuola media era, qualche anno fa, a parere di tutti, un disastro: troppa parcellizzazione in un’età dei ragazzi in cui c’è bisogno di motivazione forte. Da qualche anno è in atto un ripensamento, anche grazie all’autonomia che consente molta libertà di movimento sugli orari, i progetti, i laboratori. Le norme sulla continuità, prima, e la nascita degli istituti comprensivi di elementare e media, poi (e molto di più) hanno mescolato i corpi insegnanti, allargando gli ambiti del dibattito. Oggi si vedono buone e cattive scuole medie, ma anche qui c’è autocorrezione e non sempre la moneta cattiva scaccia quella buona.

La scuola superiore è la più ferma sul piano regolamentare, anche se molte scuole hanno avviato un ripensamento forte sull’organizzazione e la qualità didattica: ci sarebbe da analizzare una ad una ciascuna scuola superiore italiana per leggervi molte esperienze positive, qualche “bolla di sapone” fra le parole e i fatti, qualche esperienza negativa.

Esiste l’integrazione degli alunni con handicap, fortemente attuata fino alla scuola elementare compresa con una qualità metodologica verificata e forte; nella scuola media con qualche difficoltà in più; nella scuola superiore il dato è più debole, e fatto più di esperienze occasionali che di una vera e propria continuità.
Esiste l’attività di educazione degli adulti, che negli ultimi anni ha trovato un segmento significativo nell’insegnamento della lingua italiana agli immigrati; anche qui norme recenti hanno creato strutture organizzative agili e facilmente mutevoli (i Centri Territoriali Permanenti) “appoggiati” alle scuole medie che in passato organizzavano le cosiddette “150 ore”. Invece in molti casi le scuole superiori hanno ridato fiato ai loro corsi serali utilizzando i fondi dell’Unione Europea.

Questo quadro è ovviamente parziale, perché occorrerebbe un’inchiesta nazionale per validare ed eventualmente modificare le letture fin qui fatte. Chi scrive può comunque garantire su un’esattezza d’insieme, a partire da conoscenza di persone ed esperienze, letture, ricerche su Internet. Ma l’ottimismo del quadro trova un’ombra non piccola in una colpa che è sia di questo governo che di quelli di centrosinistra che l’ hanno preceduto (oltre che – ovviamente – dei governi democristiani ancora precedenti fino al 1992): ed è la carenza di fondi per la scuola pubblica, che ha molto spesso vanificato ottime intenzioni e buone leggi. Negli ultimi due-tre anni si è vista un po’ di luce sul piano delle strutture (in particolare un piano d’informatica dai costi e dai risultati notevoli), ma il prezzo pagato è stata una contrazione significativa degli organici della quale si è visto qualche effetto nell’anno scolastico in corso, ma molti effetti in più si vedranno nel prossimo (tre esempi ? Il rifiuto di deroghe al rapporto “uno a quattro” nel sostegno, cioè un insegnante per ogni quattro alunni con handicap; un calo di posti nei piccoli plessi di scuola elementare e dell’infanzia; e ancora una riduzione drastica degli operatori ATA, amministrativi, tecnici ed ausiliari).
L’altro “lascito negativo” dei governi del centrosinistra riguarda il tema della parità fra scuola pubblica e scuola privata. Non è qui il caso di ricordare la ratio della questione: basta ricordare che settori consistenti del mondo cattolico si ritrovano nel sostenere quanto anche la Costituzione impone, cioè che chi apre scuole private deve farlo “Senza oneri per lo stato”.

Cosa aggiunge o toglie a tutto questo la “riforma Moratti” ?

Intanto bisogna capire cosa c’è scritto in questa riforma. Per prima cosa si sono lette delle cose, poi altre stesure ne hanno presentate delle altre: nell’insieme si possono individuare sei linee di tendenza:
1) La riduzione dell’orario d’obbligo a 25 ore settimanali nella scuola di base, con l’effetto di rendere facoltativo e a pagamento ogni incremento orario, comprendendo in questa facoltatività anche attività come la musica, l’educazione motoria, l’educazione all’immagine che tutto il dibattito didattico mondiale considera parte dell’istruzione complessiva (questo non è detto in modo esplicito, anzi si richiama al fatto che i laboratori possono entrare anche nella didattica obbligatoria: ma è evidente che la bozza “espelle” le abilità non strettamente currricolari, perfino la lingua straniera, secondo una delle interpretazioni possibili del testo criptico della commissione).
2) L’abolizione della pari dignità all’interno del team, sostituita da una forma di prevalenza di un insegnante nei primi due e forse (i testi sono confusi) anche negli altri tre anni della scuola elementare. C’è una logica di ritorno all’insegnante unico, magari raccogliendo il disagio delle famiglie di fronte alla debolezza di qualche team troppo parcellizzato.
3) La scelta precoce, in quanto fin dalla scuola media si individuano percorsi in parte separati per chi si avvierà al liceo e chi andrà alla formazione professionale. Dall’inizio della formazione superiore la divaricazione aumenterà ancora.
4) L’obbligo scolastico fermo ai 15 anni, mantenendo il concetto ipocrita (peraltro indicato anche nelle riforme precedenti) di “obbligo formativo” che nei fatti è il mantenimento della barbarie dell’apprendistato.
5) Il pasticcio delle “primine”, con la possibilità di iscrizione alla materna a due anni e mezzo (ampiamente denunciato dalle associazioni professionali) ed all’elementare a cinque e mezzo.
6) Un inquietante accenno ad “istituzioni speciali e potenziate” sull’handicap, che fa pensare a un desiderio di ritorno alle scuole speciali; questo è uno dei casi in cui l’Europa “rema contro” scelte di civiltà fatte dall’Italia.

Sono tutte tendenze che fanno pensare all’adesione degli autori della riforma alla teoria americana dei “quattro quinti”, secondo la quale in una società moderna un quinto solo dei cittadini assume incarichi di responsabilità ed i rimanenti quattro quinti svolgeranno compiti esecutivi. Del resto quando il Presidente del Consiglio parla di “tre I: impresa, Internet, inglese” intende proprio una scuola che non ha nulla a che fare con la formazione dell’uomo e del cittadino, con il luogo dove culture, etnie ed esperienze umane si mescolano, con un luogo di educazione, crescita, diritti, istruzione.
La scuola modellata dalla Moratti è tutt’altra cosa: 25 ore per tutti (825 annue) alla scuola elementare, lingua, matematica, storia e geografia, con un insegnante in prima e seconda per 21 ore e via via calando; ed una quota aggiuntiva (le prime 300 ore gratis, meno di 10 settimanali, le successive che i genitori si devono pagare) per ottenere altre attività ed un orario più lungo (anche la lingua straniera, alla faccia delle “tre I”).
La scuola media non sembra cambiare di molto rispetto alla struttura attuale: si aggiunge – elemento positivo – una stretta relazione con la quinta elementare, ma anche una significativa parte “orientativa” che costringe ad anticipare a 12 anni le scelte definitive.
La scuola superiore è divisa in otto “licei”: classico, linguistico, scientifico, tecnologico, economico, umanistico, musicale, artistico. All’interno di essi si struttura uno schema di “piani di studio”, decisi da ciascuno studente con il tutorato del docente coordinatore di classe e tali d a pescare sia nel percorso obbligatorio (italiano, matematica, scienze, filosofia, storia, lingua, matematica, più – ad esempio – latino e greco per il classico, ecc.), sia in quello facoltativo sia in quello extrascolastico. La durata è quadriennale, con verifiche alla fine di ciascun biennio Per i reietti ci sono i percorsi di formazione professionale o di “alternanza scuola-lavoro”, elegante espressione per definire quei giovani che vanno a rischiare la pelle sui tetti o nei cantieri
Gli aspetti di maggiore modernità della riforma – all’apparenza – sono nell’enfasi che viene dedicata ai temi della formazione degli insegnanti e del sistema nazionale di valutazione.
Sul primo punto va detto che molto potrebbero eccepire le associazioni degli studenti universitari, in quanto si tratta essenzialmente di temi di politica universitaria più che di politica scolastica: di formazione universitaria completa per gli insegnanti si parla ormai dai Decreti Delegati del 1974, da 27 anni. E tutto sommato le prospettive di tagli all’istruzione che si avvicinano rendono l’argomento più “accademico” (nel senso di: lontano dalla realtà) che mai.
Sul secondo tema, quello della valutazione, la questione è posta in maniera becera: si valutano dei contenuti, e questi contenuti non sono affatto espressi (a meno che – magari ! – non si consideri ancora valido il documento sui curricoli dello sorso anno). Un sistema nazionale di valutazione è una prospettiva che ha un senso, ma non è la stessa cosa se esso valuta di più le acquisizioni in assoluto, o i progressi rispetto al punto di partenza, le nozioni o le abilità, le capacità da telequiz o il sapere critico.

Ma cos’è una buona scuola, se quella della Moratti è una cattiva scuola ?

Imparare – per quanto possibile – dentro a progetti delle cui finalità l’alunno è consapevole è fare buona scuola; unire il più possibile saperi teorici a competenze di tipo pratico. Il laboratorio, con il corretto utilizzo della compresenza fra insegnanti, è la forma concreta di questa acquisizione: l’orto da coltivare alla scuola materna, il giornalino o l’inchiesta sui nonni, o lo scavo archelogico simulato alla scuola elementare, lo spazio fisico dedicato alla lingua straniera o all’informatica gestito in forma di apprendimento cooperativo, l’attività di gioco-sport, uso di libri diversi nella biblioteca che integra o meglio ancora sostituisce il libro di testo, la progettazione della città dentro i progetti “Città dei bambini”, la scrittura creativa, l’esemplificazione delle differenze del mondo e delle sue ingiustizie (attraverso la cucina,la geografia, l’economia,la storia delle religioni, il diritto, la storia) …..Buona pare della scuola italiana è una buona scuola, almeno fino a completamento dei disastri provocati dalla ministra.

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