Gioventù bruciata
Gaspare Serra - 29-11-2012
« "Se i giovani non hanno sempre ragione, la società che li ignora e li emargina ha sempre torto..." (François Mitterand)

DALLA "BEAT" ALLA "NEET" GENERATION: GIOVANI SULL'ORLO DI UNA CRISI DI NERVI...»

Così si apre il saggio che Gaspare Serra ha pubblicato sul suo blog " Panta Rei" e che ci segnala con una premessa:

« Di tutto e di più si è detto sui giovani italiani (bamboccioni, sfigati, fannulloni...) ma "choosy", francamente, nessuno se lo sarebbe aspettato, nemmeno dalla "verve" del miglior Brunetta!
Lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato con successo anche dai tecnici- sembra il "tiro al bersaglio dei giovani", una gara senza regole ad offendere, umiliare, bistrattare un'intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a "pane e televisione", oggi maldestramente rabbonita con "bastoni e carote"!).
In questo surreale clima mi sono spinto ad analizzare un po' più a fondo le cause ricorrenti del disagio giovanile, di quella cd. "generazione Y" frettolosamente liquidata dal premier Monti come "perduta".»

Nel ringraziare Gaspare, scegliamo di proporre qui parte dell'ultimo spunto, rimandando all' originale per una lettura integrale, immagini e link compresi.

La Redazione


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L'"EQUAZIONE PERFETTA" PER USCIRE DALLA CRISI

Ripartiamo dalla Costituzione, che chiunque governi dovrebbe leggere e rileggere come un "mantra" prima di assumere qualsiasi decisione:
Art. 1: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro";
Art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto";
Art. 35: "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni";
Art. 36: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa";
Art. 37: "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore".

+ SCUOLA

Sempre più spesso si sono spacciate per riforme strutturali mere riforme di bilancio, utilizzando impropriamente il verbo "riformare" come sinonimo di "tagliare".
Ciò è particolarmente vero nel settore dell'Istruzione, considerato alla stregua di uno dei tanti capitoli di spesa dell'imponente bilancio statale.
Non sorprende scoprire che, secondo uno studio dell'Ocse ("Educationat a glance 2011"), in Italia:
- nel 2008, solo il 4,8% del Pil è stato speso per l'Istruzione, rispetto alla media Ocse del 6,1% (posizionandosi al 29simo posto su 34 paesi);
- tra il 2000 e il 2008, la spesa sostenuta per studente è aumentata solo del 6%, contro una media Ocse del 34% (il secondo incremento più basso tra i 30 paesi considerati);
- la spesa per studente non aumenta notevolmente in base al livello d'istruzione, passando da 8.200 dollari al livello pre-primario a 9.600 al livello terziario, rispetto ad un aumento medio nell'area Ocse da 6.200 dollari al livello pre-primario a 13.700 al livello terziario;
- tra il 2000 e il 2009, gli stipendi degli insegnanti sono leggermente diminuiti (-1%), mentre nell'are Ocse sono aumentati in media del 7%, in termini reali.
Investire sulla Scuola vuol dire investire sul futuro dei giovani, dunque del Paese di cui questi sono la sola speranza.
Occorre rimettere la Scuola, l'Università e la Ricerca "al centro" dell'agenda politica di qualsivoglia governo, prescindendo dai vincolo di bilancio: è "miope" immaginare di ridurre il debito pubblico di un Paese aumentando il suo "debito culturale"!

Come ridare centralità alla Scuola?

Ecco alcuni suggerimenti:

- superamento della "parità scolastica" (causa della distrazione di risorse pubbliche in favore di istituti scolastici paritari) per ridare centralità alla scuola pubblica.
La leggen.62 del 2000 ha equiparato le scuole private a quelle pubbliche.
La realtà, però, ci rivela che:
- il 90% delle famiglie italiane continua a preferire le scuole pubbliche per i propri figli (solo uno studente italiano su dieci frequenta una scuola privata, nonostante queste già rappresentino circa un quinto delle scuole italiane);
- l'Italia è all'ultimo posto tra i paesi Ocse per la qualità dell'insegnamento nelle sue scuole private, in molte materie;
- la riforma sulla parità scolastica raggira sostanzialmente il dettato dell'art. 33 della Costituzione, secondo cui "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato".

- riduzione a 7 anni della Scuola dell'obbligo, accorpando la Scuola elementare e la Scuola media in un comune ciclo formativo;

- riqualificazione degli Istituti professionali, per troppo tempo bistrattati e considerati meno dignitosi rispetto ai più gettonati licei;

- aggiornamento dei piani di studio, dando priorità allo studio delle lingue straniere e dell'informatica (come uscire da una scuola senza saper parlare ottimamente l'inglese o privi della competenza per un uso professionale del pc?) ed introducendo lo studio del diritto e dell'economia in ogni percorso d'istruzione (come ambire ad entrare nel mondo del lavoro ignorando i propri diritti di cittadinanza e non avendo nozione di cosa sia un contratto?);

- trasformazione delle scuole in "centri di aggregazione giovanile", aperti tutto il giorno tutti i giorni per offrire ai ragazzi ulteriori servizi e spazi usufruibili al di fuori dell'orario delle lezioni (ad esempio, tutor per gli studi, biblioteche, aule informatiche, palestre, cineforum);

- messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici. Secondo un rapporto di Cittadinanzattiva, solo un quarto degli edifici scolastici è in regola con tutte le certificazioni di sicurezza, si contano lesioni strutturali in una scuola su dieci, distacchi di intonaco in una su cinque, muffe ed infiltrazioni in una su quattro. E' davvero il Ponte di Messina, allora, la prima infrastruttura di cui il Paese più necessita? Non aiuterebbe anche il rilancio dell'economia un piano per l'edilizia scolastica che preveda almeno un cantiere aperto in ogni grande città?;

- riqualificazione delle scuole disagiate di periferia o dei quartieri più problematici delle grandi città (si pensi allo Zen a Palermo o a Scampia a Napoli), da considerare il primo "presidio di legalità";

- maggiore attenzione al merito degli studenti. Perché non premiare con borse di studio, la gratuità dei libri di testo o viaggi premio gli studenti più meritevoli di ogni istituto? Perché non stimolare negli studenti la convinzione che impegnarsi di più, nello studio come nella vita, "conviene"?

- maggiore attenzione al merito dei docenti. Perché non prevedere retribuzioni supplementari (premi, incentivi e gratifiche) in base ai risultati conseguiti dagli insegnanti, istituendo "centri di valutazione" in ogni istituto scolastico, di cui far partecipi anche le famiglie e gli studenti?

- rivalutazione del ruolo sociale dell'insegnamento. Occorre riaffermare il principio per cui compito degli insegnanti non è solo "istruire" ma anche "educare" i giovani. Ma come pretendere che i docenti esprimano il massimo impegno ed entusiasmo nel loro lavoro quando vengono sempre "meno considerati" dagli alunni -spesso col complice sostegno dei loro familiari- e sempre più "bistrattati" dallo Stato - non disposto a retribuirli dignitosamente, ma pronto ad accusarli di non lavorare abbastanza -?

+ UNIVERSITA'

La Riforma Berlinguer dell'Università, che ha introdotto il cd. "3+2" (Decretoministeriale n.509 del 1999), ha mostrato negli anni tutti i suoi limiti, fallendo negli obiettivi sia di migliorare la qualità dell'offerta formativa, sia di ridurre i tempi per il conseguimento della laurea.
La Riforma Gelmini (legge n.240 del 2010), invece, non ha prodotto altro che ridurre le risorse destinate al mondo accademico e precarizzare i ricercatori universitari, d'ora in avanti assunti "solo" con contratto a tempo determinato.
Il risultato?
Moltiplicazione di corsi di laurea per lo più inutili; caos didattico nell'applicazione del sistema dei "cfu" (crediti formativi universitari); aumento del numero dei fuoricorso (molti non riescono a laurearsi prima dei 28 anni); diminuzione del numero dei laureati (solo il 60% dei laureati di primo livello finisce la specialistica); introduzione di alquanto discutibili test d'ingresso; inaccessibilità dei dottorati; strutture sempre più inadeguate, con studenti non di rado costretti a prendere appunti a terra in aule sovraffollate; posti letto ridotti e caro degli affitti per gli studenti (favorito dalla carenza di alloggi universitari); fondi insufficienti per il pagamento delle borse di studio; tasse universitarie sempre più care...
È possibile credere che la colpa di tutto questo sia dello "scarso impegno" o dell'incapacità di adattamento dei giovani?
L'impressione è che, come al solito, "si guardi al dito per non mirare la luna":
- la spesa pubblica in educazione terziaria è pari a meno dell'1% del Pil, a fronte di una media Ocse dell'1,5%;
- la spesa per studente risulta in media di 5.628 euro, contro una media Ocse di 8.455 euro;
- nessuna università italiana risulta tra le 100 migliori al mondo;
- negli ultimi 30 anni la percentuale dei laureati è cresciuta meno che altrove (tra i 15 ed i 64 anni, solo il 15% delle persone è laureato o ha un titolo di studio equivalente, a fronte di una media Ocse del 31% ed una media europea del 28%)?

Come ridare slancio all'Università?

Occorre una riforma organica basata su alcuni principi base:

- superamento del sistema "3+2" e della follia dei "crediti universitari", istituendo corsi di laurea quinquennali;

- abolizione del "numero chiuso", sostituendolo con una valutazione del merito in itinere. I test d'ingresso sono spesso "inadeguati" per una selezione degli studenti più meritevoli, impedendo a ragazzi ancora immaturi di confrontarsi col mondo dell'Università. Sarebbe preferibile aprire democraticamente le porte "a tutti" ma selezionare meritocraticamente i migliori. Come? Inserendo al primo anno accademico alcune materie fondamentali sulle quali testarne l'attitudine e consentendo il proseguimento degli studi "solo" a coloro che avranno sostenuto tutte le materie previste o che avranno maturato una media voti elevata;

- introduzione del "principio duale" (la contemporaneità della formazione di carattere teorico, che si svolge in aula, e professionale, che si acquisisce in azienda), superando il "principio sequenziale" fin qui adottato (secondo il quale la formazione professionale segue quella di carattere teorico). Si tratterebbe di favorire la formazione professionale in itinere, ad esempio rendendo obbligatori i tirocini curriculari e coinvolgendo nell'insegnamento professionisti che operano sul campo;

- miglioramento dell'orientamento universitario, indirizzando i ragazzi nella scelta dei percorsi di studi che offrono più prospettive di lavoro (ad esempio, offrendo borse di studio premianti a coloro che scelgono le facoltà scientifiche);

- potenziamento del diritto allo studio, assicurando l'effettiva erogazione di tutte le borse di studio assegnate, approntando piani di investimenti in edilizia studentesca e garantendo agli studenti tariffe agevolate per l'utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico.


+ RICERCA

Il nostro Paese si colloca al 15simo posto in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo, preceduto persino da Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia e Slovenia.
Secondo l'Ocse, nel 2011 l'Italia ha investito solo l'1,09% del proprio Pil in tale settore: numeri da "terzo mondo", considerando che, tra i paesi più industrializzati, solo il Sud Africa fa peggio (con lo 0,92%).
Investono nettamente più del 2% del proprio Pil, invece, la Francia (2,11%), la Danimarca (2,43%), l'Austria (2,45%), la Germania (2,53%), gli Usa (2,62%), l'Islanda (2,78%), la Svizzera (2,9%) la Corea del Sud (3,23%), il Giappone (3,39%), la Finlandia (3,45%), la Svezia (3,73%) e Israele (4,53%).
Che futuro può avere un Paese che ha abbandonato l'agricoltura (surclassato dalle merci a basso costo provenienti dal Mediterraneo), arretra sempre più nel campo manifatturiero (non potendo seriamente competere con la solida manifattura tedesca o l'emergente industria cinese) e rinuncia persino ad investire sul proprio capitale umano?

Occorre ridare "centralità" alla ricerca ed allo sviluppo tecnologico.

Ecco da dove e come ripartire:

- maggiori investimenti nella ricerca, ponendosi l'obiettivo minimo di raggiungere il 2% del Pil in investimenti nel settore nell'arco temporale di 3-5 anni;
- maggiori incentivi alle imprese per l'innovazione tecnologica, ad esempio detassando gli investimenti privati in ricerca ed abolendo l'Irap;
- realizzazione della "banda ultra larga" (o fibra ottica) in tutto il Paese;
- costituzionalizzazione del diritto al "libero accesso a Internet", inserendo un apposito richiamo all'interno dell'articolo 21 sulla libertà di stampa e di parola.

Troppo poco ci si occupa dello "spread digitale" (o "digital divide") che distanzia l'Italia dal resto del mondo sviluppato.
Secondo la Commissione europea, il nostro Paese in Europa figura:
- terzultimo come percentuale di popolazione che si connette alla rete almeno una volta a settimana (preceduto persino da paesi come Cipro, Croazia e Polonia, avanti solo a Bulgaria e Portogallo);
- penultimo per la copertura di internet veloce (o Adsl) sul territorio nazionale (solo l'Irlanda fa peggio di noi);
- ultimo per la copertura di internet superveloce (o fibre ottiche), coprendo solo il 10% del territorio (la Francia copre il 20% ed ambisce al 37% entro il 2015 ed al 100% nel 2025, il Portogallo il 60%, la Svizzera il 90%, la Corea ed il Giappone il 100%).
Oltre il 41% degli italiani non è "mai" entrato in rete: il doppio o il triplo rispetto alla Francia (24%), la Germania (17%) o il Regno Unito (10%).

Quando si parla di "alta velocità" che manca, allora, si dovrebbe in primis avere in mente l'arretratezza della nostra rete internet.
Il Tav Torino-Lione (linea ferroviaria destinata a "far volare" in Europa le merci provenienti dalla Cina dopo una lenta traversata transoceanica) ci costerà tra i 15 e e i 20 miliardi di euro: le stesse risorse che basterebbero a collegare il 100% degli italiani ad Internet superveloce.
La differenza?Realizzare la banda ultralarga in Italia comporterebbe un aumento del Pil, ogni anno e fino al 2030, dall'1,5% (secondo le stime più pessimiste della commissaria europea per l'Agenda digitale, Neelie Kroes) al 3% (secondo l'Osservatorio "I costi del non fare", di Andrea Gilardoni).
Il futuro di questo Paese, allora, dipenderà dalla lungimiranza della politica nello scegliere la strada giusta.
E l'impressione è che la banda ultralarga rappresenti l'autostrada tecnologica di cui l'Italia ha più bisogno per ricominciare a correre.

... continua ...

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