Distrazioni, consapevolezze e comunicazione intergenerazionale
Vittoria Menga - 22-10-2012
Sulla "Repubblica" del 14 ottobre 2012 è apparsa una interessante riflessione di Stefano Bartezzaghi, che analizza i cambiamenti psicologici e comportamentali indotti dalle nuove tecnologie. Così come nel dopoguerra la tv ci ha cambiato la vita, oggi il multi-tasking ci impone tempi e modalità nuovi, ai quali nessuno può sottrarsi, pena sentirsi out. La velocizzazione e il fare più cose contemporaneamente (sincronia) sono modalità naturali e spontanee per le ultime generazioni, meno per le generazioni precedenti. Ma il problema è questo: si tratta di un progresso, di una modalità mai realizzata prima, che ora lo sviluppo tecnologico rende possibile? Quando usiamo termini come "velocità", "efficienza", "sincronia", in generale essi assumono una connotazione positiva. Pensiamo ad un vantaggio e quindi associamo questi concetti all'idea di progresso. Il mondo lento e diacronico appartiene al passato. Ma non è così semplice. Molti autori, non solo Bartezzaghi, ma anche filosofi e sociologi (penso al Galimberti di "Psiche e techne" o al Bauman di "Vite di corsa") hanno evidenziato i rischi connessi a questi cambiamenti, che stanno rivoluzionando il nostro modo di vivere, di comunicare e di pensare. Si occupano del problema anche le neuroscienze, che cercano di chiarire come reagisca il nostro cervello ai nuovi stimoli e ai nuovi ritmi. E' intuitivo che allargare molto l'orizzonte delle nostre possibilità ci fa perdere in profondità: faccio tante attività nello stesso tempo, ma in superficie, perché per concentrarsi e approfondire ci vuole più tempo. Quelli che, come me, appartengono alle generazioni del dopoguerra, da un lato si trovano in difficoltà ad adeguarsi al multi-tasking; dall'altro sono fortunati perché sono stati educati e formati in una società che, essendo più lenta e meno tecnologica, lasciava il tempo all'individuo per la lettura, la scrittura, la riflessione, attività che per loro natura non guadagnano dalla velocizzazione, anzi possono solo impoverirsi o addirittura scomparire. Inoltre, il ritmo frenetico e quasi compulsivo dello zapping, della mano sul joystick, del dito sull'i Pad, mentre nelle orecchie abbiamo l'auricolare e con gli occhi visualizziamo l'arrivo di un sms sul nostro cellulare, configurano, secondo gli specialisti, una forma nuova di dipendenza a cui è difficile sottrarsi. Tra gli adulti-educatori (insegnanti e genitori in primis) serpeggia la preoccupazione e l'insoddisfazione: da un lato non possono osteggiare queste nuove modalità di comunicazione, che hanno invaso il mondo e stanno invadendo (con un certo ritardo) anche la scuola; dall'altro lato, è evidente, per chiunque svolga un'attività formativa insieme ai giovani, che essi appaiono distratti, superficiali, frettolosi. Si annoiano facilmente appena sono costretti ad attività più lente, come la lettura e l'ascolto. Per ascoltare bisogna fare silenzio non solo fuori di sé, ma soprattutto dentro, mettendo le parentesi ai propri pensieri e concentrandosi solo sul discorso dell'interlocutore. Questo oggi è sempre più difficile per i nativi digitali, proprio a causa del multi-tasking la mente non riesce più ad arginare pensieri e parole. Nella scuola questo fenomeno esiste già da parecchi anni, ma non è stato analizzato con serietà e spesso viene confuso con un problema di disciplina. Ma anche gli studenti più rispettosi si trovano in grande difficoltà quando si tratta di ascoltare in modo concentrato e attento, questo dimostra che non si tratta di un problema di disciplina e che si travalica la stessa volontà dell'individuo. Che fare? Intanto, di fronte a problemi di così ampio spessore rispondere con un adeguamento acritico e solo esteriore mi sembra miope. Della serie: comprare le lavagne digitali (LIM), portare a scuola i tablet, velocizzare apprendimenti e valutazioni, attraverso un uso e abuso di test di matrice anglosassone. Questa è la strada che purtroppo stanno imboccando i vertici della pubblica amministrazione e del ministero dell'istruzione e dell'Università. A me sembrano più utili e dotati di senso, invece, la collaborazione e lo scambio intergenerazionale che abbiano come oggetto l'approfondimento di queste tematiche, in direzione di una più diffusa consapevolezza del problema. Ciò risulta utile per sgombrare il campo dalle false soluzioni e dalla caccia ai soliti untori. E' inutile cercare i colpevoli quando le cose non vanno, come oggi avviene nel sistema formativo: se le statistiche ci dicono che ai primi posti in Europa ci sono gli studenti scandinavi, non significa che dobbiamo imitarli, traducendo tutto in test. Superare i test con successo non è indicativo del fatto che abbiamo dato risposta ai problemi suddetti. Lo si può fare facilmente scadendo nel "teaching to test", come è stato lamentato spesso in Inghilterra. Quando si afferma che gli adulti-formatori non si aggiornano, non si deve proporre come modello questo tipo di modernità, ma quella di un adulto che esercita il proprio spirito critico, mette a frutto la sua esperienza e si interroga, ricerca, elabora soluzioni insieme con i suoi interlocutori nativi digitali. In tal modo la comunicazione intergenerazionale diventa preziosa, perché permette a generazioni diverse e lontane di comprendersi, di costruire un linguaggio condivisibile e di cercare le soluzioni alleandosi e non "guardandosi in cagnesco".

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