Riflessioni sul sapere
Andrea Bagni - 16-11-2002
Il filo del discorso potrebbe essere quello che parte non tanto dalla scuola
quanto dalle trasformazioni della società post fordista, che mette il sapere
al lavoro, e però lo riduce a sua misura, per cui se le attività direttamene
produttive si fanno sempre più flessibili segmentate precarie, allora sempre
più simile ad esse deve farsi la formazione: breve, modularizzata,
componibile come una cucina ai desideri del cliente; capace di costituire un
"capitale conoscitivo" da spendere poi come valore di scambio sul mercato.
Un sapere astratto e da certificare in qualche libretto, perché già
certificabile in quanto ridotto a una sorta di equivalente universale come
un tempo il denaro. Astratto com'è ormai tutto il lavoro. La scuola
naturalmente (e credo anche l'università) dovrebbe adeguarsi e tradurre
tutto in crediti, debiti, "quantità" e abilità prestazionali da trasmettere
e misurare. Azienda nell'anima prima ancora che nell'organizzazione.
La crisi della società lavoristica avrebbe potuto offrire l'occasione per
una riflessione in tutt'altra direzione. Una scuola più lunga e lenta, più
unitaria e di base (per non inseguire i nuovi "programmi" in continua
evoluzione, ma esserne il sistema operativo, linux meglio di microsoft,
capace di integrarli); una scuola per l'autonomia dei ragazzi e delle
ragazze nel mare aperto della società esplosa e non per il loro banale
adattamento, docilità della nuova forza lavoro alla flessibilità del
mercato; fondata su valore d'uso del sapere e non sul suo (in crisi) valore
di scambio. In questo (almeno in questo) i pasticci sulla scuola pubblica
(né burocratico-statale, né privata, di mercato o famiglia o di tutt' e due
insieme), la separazione precoce o l'intreccio confuso fra istruzione e
formazione professionale, fra scuola e lavoro, teoria e pratica (come fosse
un problema di separati percorsi attraverso i quali offrire
"democraticamente" ad ogni piede la sua scarpa e non di qualità del sapere),
questo mi sembra abbia caratterizzato sia la riflessione del centrosinistra,
sia quella della destra. Una deriva economicistica che avrebbe fatto
inorridire comunque quelli di Barbiana.


Si potrebbe cercare di capire cosa si muove e resiste (ma a me piace
dire esiste intensamente) contro questa deriva. Sia nella scuola sia fuori,
nel territorio immateriale delle reti e dei non-luoghi, come nei
materialissimi centri sociali e nelle battaglie contro il copyright. Magari
indagare anche le trasformazioni "linguistiche" del lavoro: cosa cambia
davvero nelle competenze e nelle mansioni, cosa è invece pura ideologia
(come la scomparsa del lavoro ripetitivo, "esecutivo" o del lavoro tout
court...). Cosa sono e di cosa hanno bisogno tutti quelli che stanno nei
contratti atipici, nel lavoro "autonomo di seconda generazione" o roba del
genere. Lavorare sul concetto di pubblico, un po' in bilico fra sociale e
istituzionale (ma non ho le idee chiarissime su questo - e neanche su altre
cose -; mi piacerebbe appunto parlarne). Insomma volendo ci sarebbero un
sacco di cose di cui discutere. Volendo. Però l'idea sarebbe anche di
"praticare l'obiettivo del piacere" e dunque cercare ritmi umani di lavoro
(anzi, di non lavoro...). Magari non cacciandosi subito nell'elaborazione
compiuta di teorie di sistemazione del mondo (come tendo a fare anch'io ogni
tanto), ma prendendosi il tempo anche di girare un po' a vuoto
(meravigliosamente improduttivi...), o di leggere insieme e discutere
qualcosa, da libera università del sapere sociale - che non so bene cosa
significhi ma mi sembra che suoni benissimo.

(da Firenze Social Forum)

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