Quando il linguaggio segue l'evoluzione del quadro politico.
Prendete ad esempio l'espressione così in voga in questa era montiana-forneriana: "flessibilità in uscita". Non si tratta di una flessibilità qualsiasi, cioé di una capacità di flettersi (piegarsi) in generale, ma solo in uscita. Magari uno sprovveduto potrà pensare che si tratti di qualcuno molto alto, che ha un uscio di casa troppo basso ed è costretto a flettersi-piegarsi per poter uscire. E invece no. "Flessibilità in uscita" sta, lo giuro sul mio onore, per "licenziamento".
Considerando, pertanto, la realtà umanamente e socialmente drammatica cui allude, non c'è dubbio che l'espressione "flessibilità in uscita" si configuri come un eufemismo. Eppure "licenziamento" è una parola esteticamente bella, il suo etimo rimanda a licenza, quella che aspettano con ansia i soldati, liberi finalmente di tornare a casa; licenziare è anche dare commiato, lasciare libertà di agire. Eppoi è una sola parola, ha il pregio dell'economicità (soprattutto per i datori di lavoro), ma ha un difetto; essa è troppo usata, abusata, pronunciata, gridata e urlata in assembramenti altrimenti detti cortei di protesta, assunta in sottocodici come il giuridichese e il sindacalese, dunque è parola alquanto volgare, nel senso che la pronuncia spesso il volgo, altrimenti detto popolo, classe operaia, lavoratori, e "volgarità" di questo tipo. No, l'attuale quadro politico, così nuovo, sobrio e ricercato allo stesso tempo, con la sua aura di professoralità non può scadere in un linguaggio banale parlando, come fan tutti (ma loro non sono tra i tutti), di "licenziamento". Meglio parlare di "flessibilità in uscita" così, anche dal punto di vista culturale, oltre che economico, tutti i rozzi cipputi d'Italia si inchineranno, anzi genu-fletteranno davanti al "nuovo" stile.
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