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Le ragioni infinite contro le armi
Il Manifesto - 15-11-2002

Mentre l'America dell'amministrazione Bush scalda i motori per la seconda guerra del petrolio, un «Annuario della pace» demolisce le ragioni del conflitto «Enduring Freedom». Con saggi e contributi, tra gli altri, di Raniero La Valle, Mario Del Pero e Giulietto Chiesa per la cura di Salvatore Scaglione


Mentre Bush sta facendo scaldare i motori dei bombardieri e allenare i marines su terreni desertici per invadere l'Iraq, Asterios manda in libreria l'Annuario della pace (pp. 381, 14 Euro): una pubblicazione della «Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace», curata da Salvatore Scaglione. Con alle spalle 12 mesi in cui c'é stata l'invasione militare dell'Afghanistan e ci si avvia verso la seconda guerra del petrolio, un Annuario della pace non può che cercare di demolire le «ragioni» della guerra. E' quello che nel suo saggio fa Raniero La Valle, iniziando con questa precisazione: «La guerra globale - la cosiddetta guerra contro il terrorismo - è la verità interna della globalizzazione, ed è il punto in cui la modernità va a concludersi, e in cui esplode. La guerra globale è una guerra indistinta dalla vita, dalla pace, dalla politica. La vita, la pace, la politica, sono diventate esse stesse guerra. La guerra è pervasiva, ubiquitaria, molecolare, è la nuova modalità universale dei rapporti pubblici all'inizio del terzo millennio.» Soprattutto si tratta una guerra infinita, che marca una differenza, una discontinuità con tutte le guerre precedenti. Il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, non ha detto «ci fermeremo solo quando la civiltà sarà di nuovo sicura»?: ossia mai. Per questo siamo di fronte a una guerra senza confini, senza tempo, senza regole e che perciò spazza via in un sol colpo le stesse regole del diritto umanitario di guerra. Dopo la guerra del Golfo intrisa di petrolio, la «guerra umanitaria» in Jugoslavia, la guerra contro il terrorismo in Afghanistan, eccoci dentro l'avviata guerra infinita che sostituisce, spazzandole via, le vecchie forme di guerra come esercizio della sovranità o come punizione del reo. Ed è in questo contesto che la nuova amministrazione Usa consolida il suo unilateralismo, inteso come volontà possibilmente non concordata con altri paesi, né condizionata dai vincoli imposti dalla partecipazione a organizzazioni internazionali o dalla precedente ratifica di trattati non più corrispondenti agli attuali interessi statunitensi. Un unilateralismo germogliato dentro la convinzione della Casa Bianca che, essendo gli Usa l'unica potenza globale, essa possa sottrarsi alla rete di interdipendenze economiche, finanziarie e strategiche progressivamente estesasi nel corso della seconda metà del `900.

In un altro saggio, Mario Del Pero fa notare che la prima evidenza di tale strategia è costituita dal rigetto, da parte di Bush, di una serie di trattati per poter implementare un sistema missilistico di difesa nazionale, in grado di rendere gli Usa invulnerabili a qualsiasi forma di attacco, ma non agli aerei guidati da terroristi come è successo l'11 settembre. L'emergenza terrorismo ha, inoltre, tolto ogni ostacolo all'incremento delle spese militari Usa che, nell'anno fiscale 2003, si aggireranno intorno ai 390 miliardi di dollari, con una crescita di oltre il 15% sull'anno precedente: uno dei maggiori aumenti relativi del dopoguerra.

La globalizzazione ha ancor evidenziato che l'attuale sistema economico e sociale vincente non è in grado di rispondere ai fondamentali bisogni comuni, perché i meccanismi economici capitalistici sono congegnati solamente per far crescere il denaro distruggendo le risorse naturali, non per soddisfare i bisogni. Di fatto, un quinto del mondo è contro gli altri quattro quinti.

Per garantire alti livelli di vita a chi è già sazio, l'Occidente brandisce sul pianeta una «razionalità» fatta di selezione ed esclusione che materialmente rompe l'unità del mondo. Perché, se tutto il mondo non si può sviluppare, che continui a crescere e ad arricchirsi almeno una parte: questo è quanto impongono gli appagati agli esclusi. Ritorna in auge la teoria di Herbert Spencer che, sulla base del barbaro principio «vinca il più forte», legittima in economia il laisser-fare e la conseguente selezione sociale, affermando che «se gli uomini sono realmente in grado di vivere essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano».

Su questo ingiusto mondo irrompe l'antropologia della divisione e dell'esclusione per spiegare e legittimare la spaccatura del globo in due parti asimmetriche: quella degli uomini necessari (gli occidentali) e quella della restante parte degli uomini in «esubero».

L'ingiustizia alimenta il terrorismo. Ma il miope Bush, dopo l'attentato alle Twin Towers, ha gridato: è un atto di guerra. E ha risposto subito dopo con l'invasione dell'Afghanistan. Perché la guerra è ormai l'unica lingua della politica della Casa Bianca, e anche di Israele e della Russia. «Ma guerra e terrorismo non possono combattere l'una contro l'altro, perché sono la stessa cosa; nessuno può vincere senza nello stesso tempo far vincere anche il suo nemico», rammenta La Valle.

La tecnologia ha manufatto un mondo fragile e vulnerabile che non è compatibile né con il terrorismo né con la guerra. Questo mondo fatto di grattacieli, di telecomunicazioni, di traffico aereo può vivere solo con la pace. La violenza, la prepotenza, la guerra non chiudono nessun problema: rendono il terrorismo un intollerabile fenomeno della vita quotidiana. Tutto ciò rende l'oggi insicuro e il futuro sempre più incerto.

L'ingiustizia è diffusa, ma la gente, la gente comune capisce quello che sta accadendo? Si domanda Giulietto Chiesa in un altro saggio dell'Annuario. La risposta per milioni di persone è no. Ed è gente che non capisce perché non ha gli strumenti, non ha l'informazione. Essa sta andando verso il baratro seguendo il pifferaio di Hamelin. Ma chi è il pifferaio nella «favola» di questo XXI secolo? «Globalizzazione? Sistema mediatico? Fabbrica dei sogni? Vanno bene tutte e tre le definizioni, anzi sono la stessa cosa», scrive Chiesa, che vede un'unica speranza nell'opposizione coagulatasi attorno ai giovani dei social forum. Sono giovani che parlano spesso linguaggi così diversi, esprimono sentimenti così diversificati che, per questo, «occorre pensare a un lungo lavoro per ricostruire un tessuto comune solido, capace, tra l'altro, di tenerli assieme in previsione delle tempeste internazionali che stanno avvicinandosi». Gli fa eco La Valle: il punto è attaccare il principio della divisione, rovesciare la scelta capitalistica della discriminazione, che scinde il mondo mettendo una parte contro l'altra. Per questo è necessario costruire fattori «di unità e integrazione proprio in funzione e come caparra di quell'altro mondo che crediamo `sia possibile'».

GIANNI MORIANI
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