L.G. - 02-11-2011 |
Indignarsi contro l'ingerenza della finanza non basta Lo strapotere esercitato dalle cosiddette "agenzie di rating" è il sintomo più inquietante ed evidente di come il capitalismo sia ormai impazzito, ridotto alla mercé di una ristretta oligarchia di stampo mafioso, composta dai signori del denaro e della finanza. Tali agenzie costituiscono un minaccioso e destabilizzante strumento di dominio e di ricatto, esercitato a livello mondiale, una specie di "arma atomica" di cui dispone una cerchia elitaria di banchieri, uomini d'affari ed esponenti della finanza globale. In altre parole, agenzie di rating come Moody's e Standard & Poor's incarnano la "voce del padrone". Nell'assalto sferrato contro l'Italia, esse sono state le prime ad avvertire gli ambienti della speculazione internazionale che si poteva e si doveva aggredire l'Italia. Esse si arrogano il diritto di emettere sentenze sullo "stato di salute" dei vari Paesi, formulando previsioni sinistre sul loro futuro economico, senza che abbiano mai ricevuto alcuna legittimità a svolgere un ruolo tanto decisivo da condizionare e determinare il destino dei popoli, mandando in rovina intere nazioni e addirittura interi continenti. Il divario esistente tra il reddito prodotto dall'economia reale dell'intero pianeta e il reddito irreale, cioè le immani ricchezze generate da operazioni incentrate su colossali bolle affaristiche, è pari ad un rapporto di 1 a 8. In altri termini, il valore creato delle speculazioni finanziarie è otto volte superiore rispetto al valore prodotto dall'economia reale; dunque, il capitalismo dominante comporta sproporzioni a dir poco paradossali. Il complesso finanziario internazionale, così come si è storicamente determinato, presuppone un aumento spropositato delle disuguaglianze, favorendo la concentrazione dei capitali nelle mani di minoranze sempre più ristrette, avide e corrotte, formate da speculatori internazionali che adottano metodi spregiudicati e criminali, alla stregua di associazioni di stampo mafioso, capaci di estorcere le risorse che appartengono alle nazioni, sottraendo con l'astuzia, l'inganno, il ricatto e la frode finanziaria, i risparmi di milioni di piccoli investitori e dei lavoratori del mondo intero, riducendoli sul lastrico. In altri termini, il sistema si è strutturato in modo tale da estendere a dismisura le sperequazioni esistenti, creando un divario a forbice sempre più ampio tra élite finanziarie sempre più ricche, potenti e circoscritte, e moltitudini di lavoratori poveri destinati ad impoverirsi ulteriormente. Un processo che ingloba anche i ceti intermedi. In sostanza, si è imposto un metodo di accumulazione e distribuzione delle risorse sempre più iniquo e intollerabile per la maggioranza degli esseri umani, con conseguenze inimmaginabili per gli equilibri degli assetti mondiali, specie se si considera l'andamento demografico che si sviluppa in modo abnorme e irrazionale in alcuni continenti come l'Asia e l'Africa, dove le contraddizioni del sistema sono più esplosive e destabilizzanti. La crisi economica che minaccia l'integrità stessa del capitalismo, affonda le sue radici nel tempo e discende dalle incongruenze e dalle assurdità insite nell'assetto complessivo del capitalismo. Ovviamente, i fenomeni superficiali inducono a credere che l'origine della crisi sia da ricercare nell'orbita e nei meccanismi delle speculazioni affaristiche condotte dalle grandi banche, dalle borse mondiali e dall'alta finanza internazionale. E' innegabile che enormi responsabilità siano da ascrivere al cinismo del mercato borsistico e delle maggiori banche mondiali, in particolare alla spregiudicatezza delle istituzioni finanziarie internazionali. Non a caso, la rabbia e l'indignazione popolare si indirizzano contro alcuni soggetti individuati come capri espiatori, ossia i megadirigenti e i manager strapagati delle società finanziarie, bancarie e assicurative multinazionali. Nondimeno, l'origine della crisi risiede nel sistema medesimo ed è l'esito di un processo storico scaturito dalla rottura innescata dalle disfunzioni intrinseche alla natura stessa dell'economia di mercato. Trattasi di una crisi di sovrapproduzione e sottoconsumo. Negli ultimi decenni si è compiuto un ciclo produttivo che ha favorito un'accumulazione smisurata di profitti grazie allo sfruttamento eccessivo degli operai salariati. I quali, a dispetto dei ritmi, degli orari e degli standard di rendimento elevati, si sono notevolmente impoveriti. Ciò è accaduto a causa di uno sviluppo economico artefatto ed enfatizzato, che in realtà genera condizioni crescenti di miseria e precarietà ed esercita un'ingerenza imperialista tesa ad imporre livelli decrescenti del costo del lavoro su scala globale, malgrado i lavoratori del sistema produttivo facciano più del proprio dovere. Di fronte alla crisi le persone sono impotenti, da un lato, inquiete e agitate, dall'altro. L'indignazione (che sia pacifica o meno, importa poco: quello della "non-violenza" è un falso problema) da sola non basta, e nemmeno la rabbia irrazionale ed esasperata, la violenza esplosiva che genera una ribellione cieca e distruttiva, ancorché spontanea, ossia una sommossa di piazza priva di obiettivi politici rivoluzionari, frutto di una esacerbazione degli animi e una estremizzazione delle proteste e delle rivolte popolari. La situazione del popolo greco fornisce un avanzato laboratorio di esperienze politiche, capace di impartire al proletariato mondiale una serie di lezioni e prospettive assai utili. Occorre indubbiamente una mobilitazione più estesa e radicale sul piano sociale, ma questa deve essere ispirata e sostenuta da un'analisi intelligente e rigorosa, che sappia elaborare una piattaforma rivoluzionaria di trasformazione dell'ordine esistente. Serve una coscienza politica e progettuale capace di indicare e propugnare un'alternativa seria e convincente di organizzazione dei rapporti economici, un altro modello di formazione sociale, politica e culturale, che sia davvero credibile agli occhi della gente. La crisi del capitalismo si è talmente acutizzata e radicalizzata da esigere soluzioni altrettanto drastiche e radicali, che non sono affatto possibili e praticabili all'interno dell'odierno quadro capitalistico. La risposta deve essere intelligente e deve partire dal mondo del lavoro produttivo e sociale, che rappresenta probabilmente l'unica forza materiale in grado di spazzare via le macerie create da un sistema marcio e putrefatto. |
L.G. - 04-11-2011 |
Lo spettro della democrazia spaventa i mercati All'indomani del crack finanziario del 2008 si levò un coro di voci "indignate" persino ai vertici delle più importanti istituzioni politiche mondiali (cito su tutti il presidente degli Usa) per reclamare interventi finalizzati a regolamentare e "moralizzare" i meccanismi della finanza globale, vista come "rea e perversa" e additata quale capro espiatorio. Si invocarono varie misure tese ad arginare soprattutto il cinismo, la spregiudicatezza e la sfrenatezza dei mercati speculativi, introducendo imposte fiscali sulle rendite azionarie e sulle transazioni finanziarie. In altri termini, per impedire che le attività speculative continuassero ad attrarre plusvalore sottraendolo all'economia produttiva. Sono passati tre anni, è in corso di svolgimento l'ennesimo summit mondiale (il G20 in Francia) e nessuna proposta politica degna di questo nome è stata mai adottata in tal senso. Né poteva essere altrimenti, considerando (appunto) le interferenze che le élite finanziarie sovranazionali sono in grado di esercitare, ricorrendo anche a mezzi spregiudicati e criminali, nei confronti delle autorità politiche ad ogni livello, limitando di fatto la sovranità e l'autonomia decisionale degli organismi eletti democraticamente. Perciò, cianciare di "democrazia" quando questa forma di governo è destituita di ogni legittimità e ogni fondamento, non ha più molto senso. O, per meglio dire, ha senso solo se si intende rilanciare e rinvigorire il funzionamento della democrazia ripartendo dal basso, ossia promuovendo le forme e i canali della partecipazione diretta e popolare. A tale proposito, le reazioni di panico e di feroce ostilità che le tecnocrazie europee e le oligarchie finanziarie hanno manifestato apertamente nei confronti della proposta, assolutamente legittima, avanzata dal premier George Papandreou di indire in Grecia un referendum popolare, attestano in modo inequivocabile, casomai servissero ulteriori conferme, che la democrazia è assolutamente incompatibile con il sistema capitalista. Per rendersene conto basta leggere la dichiarazione dell'agenzia di rating Fitch: "Il referendum greco - dice Fitch - mette a repentaglio la stabilità e la vitalità stessa dell'euro". Non occorre aggiungere altre parole per commentare una simile posizione. Ma cos'è accaduto in Grecia? Forse Papandreou si è ricordato improvvisamente di essere di sinistra? O, come è più facile immaginare, l'ondata di scioperi e le rivolte sociali sempre più estese e partecipate, le tenaci proteste popolari che hanno infiammato le città greche, a cominciare dalla capitale Atene, hanno sortito un effetto persuasivo? E' inutile supporre quale potrebbe essere l'esito del voto referendario, a dir poco scontato: il popolo greco si pronuncerà molto probabilmente contro le misure draconiane imposte dall'alto, provocando di conseguenza l'uscita della Grecia dall'euro. Al di là delle ipotesi sul referendum in Grecia, la questione di fondo è costituita dal diritto all'autodeterminazione dei popoli, un principio inalienabile che ispira da sempre la cultura liberale e legittima il criterio della sovranità popolare che è alla base delle democrazie moderne. Un principio che oggi è gravemente insidiato e calpestato dalle tentazioni oligarchiche e tecnocratiche insite nella natura illiberale del capitalismo. Se questa crisi ha un merito, consiste nell'aver messo a nudo le insanabili contraddizioni del sistema capitalista, rivelando la sua matrice autoritaria e antidemocratica, che è incompatibile con la sovranità popolare e con qualsiasi forma di governo democratico. |
Oliver - 09-11-2011 |
Mi chiedo e vi chiedo, se il modello capitalista è "decotto", per cortesia qualcuno mi potrebbe dire verso quale sistema economico dovremmo avviarci? Come ridimensionare questo mostro che stritola tutti e ci costringe ad assumere atteggiamenti che spesso sono di sottomissione (vedi i licenziamenti e i ricatti). E' immaginabile vivere ai bordi della società rinunciando ad un reddito per non sentirsi parte di questo mondo. Siamo capaci di riappropriarci della capacità di scambio di derrate? Cambiamenti epocali oppure giustizia sociale, lavoro, certezze. I cambiamenti epocali prevedono scontri violenti che lascerebbero sul campo disperazione, siamo sicuri che i popoli siano in grado di rinunciare ad una serie di beni che il capitalismo offre giornalmente in modo suadente facendoti sentire soddisfatti? Io sono per i giusti aggiustamenti che tengano conto dell'uomo e non solo dei beni di consumo. |