Il disagio di vivere: quale prevenzione?
Rolando A. Borzetti - 31-10-2002

Minorenni che uccidono deliberatamente, con premeditazione, spesso non sapendo spiegare il perché. Ragazzi che si dichiarano vinti dalla noia, ma anche adolescenti attivi, impegnati, pronti ad assumersi le responsabilità che la vita mette loro di fronte. Un Giano bifronte che è sempre esistito, ma che i fatti di cronaca sempre più crudi e frequenti tendono a rendere oggi meno speculare. Il dato allarmante è confermato anche dalle cifre che arrivano da alcuni paesi europei (Progetto Jump), che registrano un numero sempre più alto di minorenni che delinquono e, soprattutto, un incremento di omicidi commessi da minorenni, rispetto agli altri reati. In discussione soprattutto il ruolo della famiglia, la capacità dei genitori non solo di guidare i figli, di fornire loro sicurezza e regole, ma anche la disponibilità a comprenderli ed ascoltarli.
Aldilà delle analisi psicologiche e sociologiche, Redattore Sociale, sulla scorta degli ultimi episodi di violenza agiti da minorenni, ha voluto mettere a confronto alcuni progetti ed esperienze a loro dedicati, partendo dall’analisi dell’Eurispes dedicata a come gli adolescenti percepiscono la famiglia e dai dati forniti dal Progetto Jump - in cui l’Italia è impegnata insieme ad altri stati dell’Europa - nell’ultima riunione di Berlino.


Esistono molti percorsi di formazione, informazione e integrazione, largamente sperimentati e diffusi, per l’infanzia, ma per l’adolescenza non è così. Entrambe le esperienze prese in considerazione in questo servizio hanno un denominatore comune: partono dalla scuola. Nel primo caso, il progetto “Adolescenti a rischio” del Ceis, attivo su Napoli e Genova, il fenomeno della dispersione scolastica è il punto di partenza per recuperare le “dispersioni mentali”, il disagio di una generazione. Nell’altro caso, le esperienze di teatro-scuola, lo strumento dell’agire scenico viene utilizzato per colmare quel “vuoto” che gli adolescenti spesso avvertono, fornendo loro un luogo protetto, quello del palcoscenico, per riscoprire i propri sentimenti, riconoscerli e riappropriarsene in modo sano.





Rapporto Eurispes. La casa per un ragazzo su quattro è un albergo. Per qualcuno una prigione

Una recente ricerca dell’Eurispes ha analizzato come la famiglia viene percepita dagli adolescenti. L’indagine è stata realizzata attraverso un questionario semistrutturato su un campione significativo di studenti delle scuole superiori ed ha preso in considerazione gli atteggiamenti, il vissuto e le aspirazioni familiari degli giovani. L’analisi dei dati - raccolti e pubblicati all’interno del secondo Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia, della preadolescenza e dell’adolescenza - ha evidenziato che il tipo di legame che unisce gli adolescenti al nucleo familiare, è nella maggior parte dei casi dettato dall’amore (63,9%), la casa è vista come un nido (43,1%) e per il 74,7% dei ragazzi intervistati la propria famiglia è quella ideale. Tuttavia le cifre fornite dall’istituto di ricerca mostrano anche altri sentimenti.
Per un adolescente su quattro (24,7%) la casa rappresenta “un albergo”, mentre il 2% (valore disaggregato dal 7,8% della voce “altro”) non riesce a vedere la propria abitazione che come “una casa”. Un quindicesimo degli intervistati infine la paragona a “una prigione”, anche se in questo caso – avvertono gli osservatori – non è possibile capire se “a prevalere è la voglia di autonomia o una vera e propria privazione della libertà”. Insieme, queste tre risposte superano il 33%, tutti casi nei quali, anche se con motivazioni diverse, la famiglia non viene percepita come luogo di sicurezza, scambio emotivo e di intimità. Gli intervistati hanno dichiarato che la famiglia dà soprattutto protezione, ma secondo l’1,1% degli intervistati essa non da loro assolutamente nulla. Il 25, 6% ha dichiarato inoltre che all’interno del proprio nucleo familiare percepisce una carenza di “protezione” e, se per due terzi degli intervistati è “l’amore” l’elemento che tiene unita la famiglia, secondo il 4,7% si sta insieme per “abitudine”, per il 2,8% per la “sicurezza materiale” e per il 2% per la “paura della solitudine”. Un dato che fa riflettere soprattutto se messo a confronto con quel 19,4% (un ragazzo su cinque) che non ritiene di non vivere in una “famiglia ideale”.



Il papà un ''sicurezza'', la mamma ''un'amica'', ma c'è chi preferisce stare da solo

L’Eurispes ha messo insieme più indagini condotte su campioni di bambini delle scuole elementari e medie per valutare come cambia il giudizio dei figli rispetto ai genitori col crescere dell’età. Ne è emerso che gli studenti delle superiori hanno una visione “positiva” dei genitori in misura minore rispetto agli altri due campioni e che essa muta da positiva in negativa col crescere dell’età. Hanno una visione “negativa” della propria famiglia il 18,1% degli studenti delle superiori, il 12,4% di quelli delle elementari ed il 15% degli alunni delle medie.
La figura di riferimento all’interno della propria famiglia è nel 33,8% degli studenti intervistati la mamma, per il 30,6% il papà. Al campione di adolescenti è stato chiesto come definirebbero i genitori; ne è emerso che il padre per il 10% degli intervistati è “un maestro” e per il 5,8% “un dittatore”, mentre la madre “una maestra” per l’8,3% dei figli, e una “dittatrice” dal 4,2%. Il padre da “sicurezza” (31,7%) ma è anche “un amico” (26,1%), o addirittura “un mito” ( 16,4%) mentre appare assai meno consistente è la visione di un padre educatore. La situazione si ribalta nel caso della madre che è definita prima di tutto “un’amica” dal 40,8% degli intervistati, poi “una sicurezza” dal 24,7%. Infine il 12,5% la considera un “mito” e il 3,3% una “debole”.

Per quanto riguarda la vita familiare il 33,6% del campione ritiene di trascorre poco tempo con il padre e il 10% lo ritiene pochissimo o non ne trascorre affatto. Gli adolescenti sembrano passare più ore con la mamma: il 47,3% afferma che ne trascorre in sua compagnia “abbastanza” e il 25,8% “molto” (73,1% in totale); il 21% ne trascorre “poco” ed il 4,4% “nulla o pochissimo”. L’aspetto rilevante secondo gli osservatori è il divario tra il tempo trascorso con il padre e quello trascorso con la madre: lo scarto registrato dall’Eurispes è quasi del 20%.

Quando non sono mamma e papa i compagni ideali, lo sono gli amici, anche se non sempre della stessa classe o scuola. Ma in questo senso un dato secondo gli osservatori andrebbe approfondito: un adolescente su trentacinque si definisce solitario, preferisce cioè trascorre il tempo libero da solo.




Cresce il numero di omicidi commessi da minorenni in Europa. I dati del ''Progetto Jump''

Cresce la criminalità giovanile e soprattutto crescono alcuni tipi di reati di particolare pericolosità sociale come l’omicidio. Emblematica la situazione della Germania dove in dieci anni si è passati dal 9,8% (141.244) di minori imputabili denunciati (14-17 anni) al 13,1% (298.983) del 2001. E’ raddoppiato inoltre il numero di minori denunciati per omicidio (4,2% nel 1990, 8,6% nel 2000). L’allarme arriva da Berlino, ulteriore tappa del progetto Jump (“Juveniles and models of prevention”) - promosso dall’Italia insieme a Romania, Spagna e Germania, per prevenire la criminalità minorile nell'ambito dell'Unione Europea e favorire il reinserimento sociale di giovani a rischio di devianza - insieme ad una ulteriore consapevolezza: “le iniziative a favore dei giovani non si dovrebbero proporre come unico obiettivo la prevenzione della criminalità e della devianza dei minori, ma tutte quelle situazioni di disagio sociale che spesso sono quelle più sommerse, meno evidenti, ma che nella maggior parte dei casi costituiscono l’anticamera delle più gravi manifestazioni di violenza giovanile”.
L’aumento di reati particolarmente violenti da parte dei minorenni ha spinto gli operatori del Terzo settore a privilegiare interventi di prevenzione che guardano “una piena integrazione dei bambini ma soprattutto degli adolescenti attraverso il miglioramento dello loro condizioni di vita e la riduzione delle condizioni di svantaggio economico”. A Berlino si sono confrontate le esperienze sviluppate in questo ambito dei paesi partner del Progetto e tra le più significative testimonianze c’è stata quella della città di Badia del Vallés, un comune-dormitorio alla periferia di Barcellona dove negli anni passati si erano verificati frequentemente episodi di bullismo tra gli adolescenti. Gli interventi degli operatori sociali, che hanno privilegiato progetti mirati come l’organizzazione di attività sportive non competitive, corsi di formazione professionale e un Osservatorio sul bullismo per la soluzione negoziata dei conflitti, sono riusciti a ridimensionare l’isolamento di questi adolescenti, contenendo in questo modo le potenzialità aggressive del loro comportamento.

A Berlino prevale il problema di un’integrazione difficile; sopratutto le ultime generazioni hanno adottato una condotta violenta, contribuendo così a confermare i pregiudizi nei confronti dello straniero, in un circolo chiuso che nasce e si alimenta dalla marginalità. Gli interventi attivati hanno mirato ad offrire ai giovani immigrati maggiore conoscenza della nuova società. Sono stati realizzati corsi di lingua tedesca, per dare anche più possibilità professionali, parallelamente ad iniziative di contrasto del razzismo e della xenofobia.

In Romania, dove il 26 ottobre si è tenuto il penultimo seminario del Progetto – l’ultimo avrà luogo a Roma – le iniziative di prevenzione si sono rivolte prevalentemente alla lotta alla dispersione scolastica. Il fenomeno della delinquenza minorile ha assunto peso maggiore a partire dal 1990; sono prevalentemente reati di furto accattonaggio, prostituzione, fughe da casa, vagabondaggio. Segni di un malessere che “affonda le proprie radici nel basso livello di reddito delle famiglie e nella loro incapacità di offrire una futuro sereno ai propri figli”. La scuola è divenuta l’ambiente più naturale per dar vita ad una serie di interventi di prevenzione, in accordo con il corpo insegnate, per rieducare e reintegrare i minori che si sono resi responsabili di reati nella scuola.

Le considerazioni emerse da questo confronto europeo spingono gli operatori a sottolineare come ogni intervento per essere efficace debba non solo ricercare le cause della criminalità, ma soprattutto concentrarsi sul disagio sociale: occupazione, dispersione scolastica, dare un senso anche al tempo libero.



Il progetto del Ceis: ''Lavoriamo sulla dispersione scolastica per recuperare le dispersioni mentali''

Il Ceis ha dato vita ad un progetto pilota triennale - “Adolescenti a rischio” - in collaborazione con il Ministero del Welfare che si concluderà nel 2003, pensato per adolescenti in situazione di abbandono scolastico a rischio di devianza e di marginalità. E’ realizzato in collaborazione con l’Associazione “La Tenda” di Napoli e il Centro Solidarietà di Genova, le uniche due città su cui è stato attivato.

“Il progetto – spiega il coordinatore Paolo Pacchiarotti - crea non soltanto dei centri di accoglienza per gli adolescenti, ma fa lavorare insieme mondi che normalmente non comunicano - i docenti e tutti gli ambiti terapeutici e specialisti sulla famiglia - per fornire un servizio che possa andare direttamente nelle scuole facendo formazione a 360°, ma che allo stesso tempo possa accogliere chi ne ha bisogno. L’importante è che l’ambiente naturale del giovane rimanga la scuola e non diventi il corso di recupero.”

Qual è la “logica” di fondo?

“Lavoriamo su questa cosa di moda che è la dispersione scolastica cercando di recuperare le dispersioni mentali. La scuola è il punto di riferimento per colmare un disagio”.

Con quali strumenti?

“Utilizziamo all’interno del progetto docenti comandati dal Ministero della Pubblica Istruzione. Lo start del progetto è stato un percorso formativo, condiviso in linea generale sugli ambiti, ma svolto autonomamente dalle realtà territoriali proprio perché le sfumature dei contenuti devono essere calate in quelle realtà. Poi sono stati aperti entrambi i centri, a Napoli prima ed ora anche a Genova, in luoghi scelti perchè è sufficiente aprire una porta per riempirli per quanto è grosso il bisogno: a Sanità a Napoli e nella zona del porto vecchio a Genova. Le equipe integrate accolgono i ragazzi nelle strutture, ma soprattutto vanno fuori nelle scuole. Gli ambiti sono quelli generali dell’educazione, educazione alla salute e alla legalità, ma di fatto per noi è importante superare etichettamenti tragici in quell’età, e quindi si lavora molto sulla relazione in modo da liberare i soggetti da ogni criminalizzazione”

La scelta di Napoli e Genova è dettata unicamente dall’ampiezza del fenomeno dell’abbandono scolastico?

“Il mondo è più uguale di quello che dichiarano in molti. Le due città sono state scelte in base al fatto che sono due luoghi di mare, due situazioni di passaggio, in due territori dove c’era una tradizione di comunicazione informale popolare e dove ci sono molti leader non ufficiali. In entrambi i casi si tratta di territori effettivamente multietnici”.

Il progetto ha ancora un anno di vita. Si possono già avanzare bilanci?

“La risposta non è positiva, ma splendida. Questo modello - che non vive nel contrasto delle realtà - porta dei grossi risultati, tanto è vero che ci sono già problemi di carenza di personale e questo, paradossalmente, è un indicatore buono. Attualmente siamo nel quarto semestre del secondo anno. Ora l’obiettivo è un resoconto dell’esperienza per i primi mesi del 2003 ed una ricerca, dove la metodologia utilizzata sarà quella delle narrazioni delle storie di vita”.

Che tipo di intervento è previsto sulle famiglie dei ragazzi in condizione di disagio?

“L’idea è quella di creare servizi ambulatoriali, in cui vengono presi in carico da un punto di vista psicoterapeuta ed educativo anche i familiari, questo perché staccare i minori dal tessuto sociale a volte non è un bene, ma una tragedia. Spesso alle spalle di ragazzi difficili ci sono situazioni di deprivazione. A Sanità ad esempio i ragazzini stabiliscono un rapporto fra i pari su codici tutti loro e passano dalla deprivazione ad una situazione di disadattamento ambientale. Se non c’è nessun incontro con un adulto significativo, ci si perde sempre di più. L’età critica va dagli 11 anni in su; la scuola media è il territorio che sta dando più risultati come fascia di età. Purtroppo bisogna scendere parecchio con l’età, però questo progetto è già qualcosa”. http://www.ceis.it



Il progetto del Ceis nella zona della Sanità di Napoli. ''Il disagio può trovarsi anche in classi agiate''

Punta alla prevenzione dal disagio il programma attivato dall'Associazione "La Tenda" di Napoli nell'ambito del progetto "Adolescenti a rischio”, progetto pilota in situazione di abbandono scolastico a rischio di devianza e marginalità" in alcune scuole cittadine. A conclusione di un corso di formazione e di stage rivolti ad educatori e docenti comandati, per la creazione di una nuova figura professionale con competenze integrate, il progetto a Napoli ha sperimentato metodologie d'intervento contro il disagio e la dispersione scolastica attraverso azioni nelle scuole e l'attivazione di un laboratorio presso la comunità di accoglienza per tossicodipendenti che l'Associazione "La Tenda" gestisce nella zona della Sanità. "Poiché il progetto si rivolge a ragazzi e adolescenti di età compresa tra gli 11 e i 22 anni - spiega la sociologa Lucia Ariano, coordinatrice del progetto per "La Tenda" - abbiamo privilegiato la scuola dell'obbligo e sperimentato attività di educazione ai sentimenti che sono state accolte con entusiasmo da tutti i ragazzi, a partire dalla prima media. Attraverso giochi ed esercitazioni, i ragazzi hanno potuto esprimersi e raccontarsi, esternare i loro problemi di cui spesso non hanno occasione di parlare con nessuno". Gruppi di lavoro misti, costituiti in prevalenza da sociologi, oltre che da insegnanti, sono stati attivati nella scuola media Illuminato di Mugnano (comune della periferia nord di Napoli) e nel liceo classico Garibaldi, mentre l'Istituto professionale Caracciolo si è dichiarato disponibile ad ospitare un Osservatorio sulla dispersione scolastica. "Al liceo Garibaldi - spiega Lucia Ariano - è stato fatto un lavoro di prevenzione sulla tossicodipendenza, seguendo un percorso a ritroso. Per parlare delle dipendenze anche qui abbiamo chiamato in causa le emozioni, sollecitando i ragazzi con esercitazioni e test e portando nelle classi le testimonianze di genitori di giovani che hanno finito il programma in comunità. Alcuni studenti delle ultime classi hanno avuto la possibilità di visitare il nostro centro e di confrontarsi liberamente con tre giovani che seguono il percorso di recupero, riuscendo a capire meglio il significato del nostro lavoro sulle emozioni e sulle varie forme di dipendenze".
Altre scuole della città e della provincia, intanto, hanno aderito al progetto de "La Tenda", a quanto pare attraverso un passaparola degli insegnanti: "Quella del contatto informale è la strada che privilegiamo, perché per noi è importante parlare lo stesso linguaggio. Lavorare con le scuole non è facile, a volte ci sono docenti molto aperti e disponibili, altre volte invece si trovano insegnati poco disposti a contaminare il proprio lavoro. In questi casi abbiamo grosse difficoltà ad interagire con le classi perché se i docenti non ci accettano gli studenti scambiano il nostro lavoro per un gioco. Tuttavia, nel complesso il progetto va bene, ci entusiasma e, anche se l'integrazione tra le due figure professionali è stata conflittuale, la stiamo costruendo, c'è buona volontà di partecipazione, una forte condivisione degli obiettivi e della metodologia di lavoro". La Tenda non ha scelto di rivolgersi solo a giovani ed adolescenti cosiddetti "a rischio" ma ai ragazzi delle scuole in generale, perché, spiega la dottoressa Ariano, "il disagio può trovarsi anche in classi agiate, spesso è di carattere psicologico e la nostra azione di prevenzione non è selettiva, ma si rivolge a tutti". Più ristretto, invece, il laboratorio ludico-ricreativo che il Centro ha attivato presso la comunità della Sanità (ma separandolo con un'entrata secondaria dalle strutture che ospitano i tossicodipendenti) da aprile a luglio scorsi e rivolto ai ragazzi di una vicina scuola media. Fra qualche settimana il laboratorio sarà riavviato con un'attività di supporto scolastico per giovani in situazioni di vita difficili, segnalate dagli assistenti sociali.



Educare alle emozioni con il teatro. Perissinotto (Agita): ''Un opportunità per dare corpo alle proprie visioni''

Loredana Perissinotto è presidente dell’Agita, un’associazione privata nazionale che raccoglie insegnanti, operatori teatrali, studiosi, amministratori, genitori impegnati nella valorizzazione delle esperienze di teatro scuola soprattutto in Italia.

Dottoressa Perissinotto è possibile attraverso il teatro educare alle emozioni?

“Assolutamente si. Il teatro è un grande territorio neutro in cui prima di tutto si fa esperienza. Purtroppo i giovani di oggi delegano l’esperienza diretta. E’ chiaro che la vita non è tutta rosa e fiori ed è necessario anche nel momento del gioco avere delle simulazioni di scontro, simulazioni di composizione delle pulsioni più negative. Il teatro proprio perché è fatto di presenza è veramente l’opportunità per i giovani di dare corpo alle proprie visioni, su se stessi e sul futuro, sull’utopia e sull’angoscia, sul comico e sul tragico. E’ anche una straordinaria opportunità per parlare agli adulti”.

Perché il teatro “funziona”?

“Perché nel linguaggio del teatro, così forte e potente, rifluiscono dati di terapia, apprendimento, socializzazione e formazione”.

Quanto il teatro nella scuola deve essere servizio e quanto ricerca.

“Io, insieme ad altre persone appassionate, stiamo cercando di valorizzare il teatro della scuola anche come esperienza estetica-artistica e di vincere quell’idea che ‘siccome è qualcosa che si fa a scuola, sarà una di quelle robe didattiche!’ Quella visione non è che non esista, ma noi diciamo che il momento del confronto, dell’incontro, della visione di altro può forse togliere nella mente dell’adulto la monolitica idea di teatro basato sul teatro come recita, sull’imitazione dell’attore ottocentesco. Un’idea di cui gli operatori sono portatori a volte non coscienti, perché non sanno che esistono altre forme.”

Il teatro come esperienza…

“La classe può accostarsi alla poetica di un artista e qui le regole sono chiare poiché si entra nel gioco della visione dell’artista. Ma può anche essere l’artista ad entrare nel gioco e nelle visioni del gruppo con i suoi saperi anche tecnici. In questo modo vengono fuori delle situazioni sorprendenti, che io stessa, come regista, non avrei mai saputo trovare. Il gruppo reagisce in un certo modo e anche per te è una scoperta”.

Nell’esperienza di teatro scuola chi lavora insieme ai ragazzi?

“L’insegnante che ha le competenze per farlo oppure l’operatore teatrale. Io credo alla collaborazione fra le due figure; mi sembra la strada migliore e tra l’altro è molto italiana”.

Esiste un problema di ruoli, di competenze, per chi lavora su materiale così incandescente come l’animo umano? L’insegnate è la persona giusta per far teatro a scuola?

“Il rischio è quello di andare a lavorare su un adolescente senza una giusta preparazione, ma lo stesso vale per l’esperto teatrale, che in se non è una garanzia. Potrebbe anche essere un plagiatore o, anche lui al pari dell’insegnante, può essere inflessibile rispetto al modello di teatro che porta. Se scelgo di lavorare in un certo ambito -che può essere quello del disagio o quello della normalità- devo essere un bravissimo teatrante, devo avere professionalità.”

Cosa succederà con la riforma Moratti?

“Il quadro generale non è dei più allettanti. Per quanto riguarda i linguaggi dell’arte, che erano stati risottolineati a livello di principio non solo nel protocollo del ‘95 ma anche in quello del ‘97, il dialogo è fermo. Stiamo cercando di vedere se si riesce, insieme ad altre associazioni, a fare una cordata di soggetti per portare avanti alcune istanze. Abbiamo anche lanciato un appello in cui denunciamo lo stallo del dialogo con l’amministrazione centrale ed il rischio di disperdere il patrimonio di conoscenze acquisito con il lavoro appassionato di cittadini grandi e piccoli indipendentemente dal loro ruolo di docenti allievi, operatori, genitori, studiosi, e amministratori, che ha già raccolto diverse migliaia di firme e che vorremmo consegnare a mano al Ministro”.
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