breve di cronaca
Cittadini invisibili
Redattore sociale - 02-11-2002
Rapporto Caritas-Zancan su esclusione sociale e diritti di cittadinanza. Quanti sono i ''Cittadini invisibili''?


E' appena uscito nelle librerie, ed è stato presentato la mattina del 29/10/2002, a Padova, il quarto rapporto Caritas Italiana e Fondazione “E. Zancan” di Padova su esclusione sociale e ditti di cittadinanza in Italia.

Significativo il titolo, “Cittadini invisibili”, di un Rapporto 2002 che, curato da Walter Nanni e Tiziano Vecchiato, tiene conto delle importanti modificazioni legislative determinate dalla modifica del titolo V della Costituzione, con la conseguente attribuzione di responsabilità alle Regioni in materia socio-assistenziale. Come nelle precedenti edizioni, l’opera non intende essere una panoramica esaustiva del disagio sociale ma focalizza l’attenzione su alcuni fenomeni. Quest’anno, allora, attenzione puntata sulle persone in situazioni di handicap, sulle donne in difficoltà, sui minori in situazioni di disagio, sulle nuove responsabilità genitoriali. Compito centrale del rapporto è quello di verificare in quale misura siano garantiti a tutti i cittadini i livelli essenziali di assistenza, così come enunciati nel testo della legge 328/2000. Il rapporto si concentra inoltre sul fenomeno della partecipazione sociale e della cittadinanza attiva. In questo senso i “cittadini invisibili” sarebbero quei cittadini che non riescono a rendersi concretamente presenti nella città e nella vita sociale, a causa di una situazione di svantaggio o a causa di un diffuso disinteresse alla partecipazione alla vita sociale.
L’inchiesta è divisa in capitoli. Il primo capitolo, scritto da Salvatore Nocera, si sofferma sul tema della disabilità ed evidenzia una distribuzione a macchia di leopardo di servizi e opportunità, secondo una disparità territoriale che non fa che penalizzare i diretti interessati. In particolare sono 2milioni e 615mila i disabili di 6 anni e più presenti nelle famiglie italiane. Altri 165.538 disabili sono invece presenti nelle residenze. Ed ancora: il 32,6% di loro non ha alcun titolo di studio e l’80% delle persone disabili in età lavorativa è disoccupato.
Un altro capitolo, elaborato da Elisabetta Neve, tratta il tema delle donne in difficoltà. Sono stati studiati in particolare alcuni fattori che contraddistinguono la condizione femminile e la espongono a particolari rischi: il tipo e il grado di dipendenza economica cui è sottoposta la donna. In questo contesto ciò che risalta è che l’84% di tutti i nuclei monogenitoriali è costituito dalla sola madre e il 79% delle donne anziane sole possiede al massimo la licenza elementare; le donne sono titolari di circa l’80% delle pensioni sociali e di reversibilità. Sono, poi, un milione e 400mila le famiglie con madre sola in Italia.

Altri dati significativi: sono 714mila le donne che hanno subito uno stupro o un tentato stupro e solo l’1,3% dei tentati stupri e il 32% degli stupri è stato denunciato. Le donne molestate in Italia risultano essere 9 milioni e 420mila, pari al 51,6% della popolazione femminile dai 14 ai 59 anni.

Un successivo capitolo, curato da Alfredo Carlo Moro, approfondisce il tema del disagio dei minori. L’autore sostiene la tesi che per prevenire e superare le situazioni di disagio di tanti giovani è certamente importante l’intervento delle amministrazioni pubbliche ma è principalmente necessario che la comunità, nel suo insieme, si senta in prima persona responsabile dello sviluppo umano dei suoi membri più giovani, senza delegare totalmente ai servizi un compito che è principalmente suo. In tale ambito va precisato che sono 14.945 i minori ancora presenti in istituto, mentre l’8-10% delle prostitute di strada è minorenne.
Le nuove responsabilità genitoriali è il tema affrontato da Paola Milani, pedagogista, che affronta una serie di difficoltà delle giovani coppie con figli piccoli. Il capitolo si snoda intorno a un interrogativo di base: come il sistema dei servizi sta, oggi, in Italia, effettivamente sostenendo il “ruolo delle famiglie nella formazione e nella cura della persona”? Significativo che il 76% delle donne che lavorano e con figli da 0 a 5 anni ricorre ai nonni, mentre il 25,2% delle madri tra i 25 e i 34 anni ha interrotto l’attività lavorativa a causa della nascita dei figli. Infine, sono presentati risultati di una indagine nazionale condotta da Caritas Italiana sul fenomeno in crescita dell’accattonaggio su strada, in evidente aumento sulle strade delle città italiane.
Il Rapporto Caritas-Fondazione Zancan sui cittadini invisibili parte dall’analisi delle famiglie e delle responsabilità genitoriali.

“La famiglia – si legge -, nell’attuale contesto sociale, è fortemente responsabilizzata e sempre più chiamata in causa. In particolare, il coniugare la dimensione affettiva del prendersi cura con quella etico-normativa del ‘far prendere cura’ sembra un compito particolarmente impegnativo per l’attuale generazione di genitori, sempre più occupata, tra l’altro, a conciliare esigenze produttive e riproduttive in un contesto sociale che riconosce gli adulti quasi sempre come lavoratori e quasi mai come genitori. Da qui la problematica della ‘generatività ', ossia la difficoltà a ‘generare generazioni’ e ad assumere responsabilità in un’accezione più letterale e profonda del termine”.

Il capitolo si snoda, allora, attorno ad alcuni interrogativi di base: come il sistema dei servizi oggi in Italia sta effettivamente sostenendo il ruolo delle famiglie nella formazione e nella cura della persona? Quali azioni sono state realizzate per sostenere la responsabilità e i compiti educativi delle famiglie? Chi e come sostiene questa responsabilità e come le famiglie sono messe in grado di esercitarla? I ricercatori sono andati ad osservare non la famiglia in situazione critica e di evidente disagio, ma la ‘normalità’ della famiglia nel passaggio critico concernente il passaggio alla genitorialità dei giovani adulti. Ben sapendo, si sottolinea, che “la famiglia sana non è quella dove non si verificano crisi e conflitti, ma quella in cui i vari membri riescono a fronteggiare crisi e conflitti in modo efficace”. Nel contempo, però, quella in situazione di disagio può divenire qualunque famiglia che non riesce ad affrontare e superare le ‘normali’ difficoltà del vivere quotidiano.

La differente numerosità dei componenti della famiglia fa in modo che essa sia più bassa al Nord rispetto al Sud e alle Isole e passa da un minimo di 2,4 componenti medi per la famiglia del Nord-Ovest ad un massimo di 2,9 componenti medi per il Sud. Rispetto al passato, tuttavia, vi è un incremento del numero di famiglie, passate tra il 1998 e il 2000 da 19milioni e 872mila a 22milioni e 226mila. In questo contesto generale, il cambiamento avvenuto a partire dall’inserimento delle donne nel mondo del lavoro implica nuovi problemi nell’organizzazione della vita quotidiana. Le donne che hanno figli, oggi, li hanno spesso intorno ai 30 anni, in un momento in cui sia la donna che l’uomo sono nel pieno dell’attività lavorativa. Per questo conciliare tempi di lavoro e tempi di cura nella famiglia e soprattutto garantire ai bambini una giusta e buona quantità di tempo sembra difficile. Le difficoltà sembrano essere di due ordini: uno di natura pratico-logistica e uno di natura relazionale. A fronteggiare le difficoltà, secondo il Rapporto, arrivano tuttavia quelle che vengono definite le “risorse nonni”. La sempre più lunga durata della vita ha reso comune la sovrapposizione di più generazioni nella stessa famiglia. I nonni assumono allora un rilievo preponderante nella cura dei bambini da 0 a 2 anni: quando i genitori sono al lavoro lasciano il figlio ai nonni nel 62% dei casi, mentre alle baby-sitters è affidato il 6% dei bambini.

Il ricorso a diversi tipi di affidamento varia in base alle situazioni familiari: il non affidamento ad altri del bambino è maggiore nelle donne con titolo di studio basso; il 76% delle donne che lavora con figli da 0 a 5 anni ricorre ai nonni, mentre il ricorso agli stessi nonni cresce con l’aumento del numero di ore di lavoro della donna. Le baby sitter sono utilizzate maggiormente nel Nord-Ovest. Interessante notare che anche le donne casalinghe fanno ricorso ai nonni. Ciò, secondo il Rapporto, è significativo e fa sorgere numerosi interrogativi: Condividere la giornata con bambino è così faticoso? E’ una fatica fisico-organizzativa o relazionale? Si tratta di una legittima esigenza di spazio per sé o di un segnale indicativo di una fatica nella relazione? Ciò fa in modo che si deleghi ai nonni, dunque, il tempo del gioco, del racconto, dell’ascolto reciproco, dello scambio affettivo ed emotivo.

Il 58% dei nonni ha almeno un nipote con meno di 14 anni. La maggioranza dei nonni che ha nipoti fino a 14 anni contribuisce alla loro cura, l’84,2% si prende cura dei nipoti almeno in qualche occasione, solo il 13% delle nonne, in particolare, non si occupa mai dei nipoti contro il 18,8% dei nonni.

Anziane e madri sole: l'essere donna accresce le situazioni di disagio

La situazione vissuta dalle donne è al centro del Rapporto 2002 di Caritas e Fondazione Zancan. Secondo gli studiosi “vi sono numerosi segnali che fanno pensare che l’essere donna, per lo meno a certe condizioni, esponga maggiormente a rischi di disagio anche grave. Ma si tratta più che altro di segnali, pur consistenti, perché la maggior parte degli studiosi sottolinea innanzitutto la scarsa visibilità, ad esempio della povertà, al femminile”. Il Rapporto studia in particolare alcuni fattori che contraddistinguono la condizione femminile e la espongono a particolari rischi: il tipo e il grado di dipendenza cui è sottoposta la donna, l’uso del tempo, la disparità nella disponibilità di risorse socio-economiche, specialmente nell’ambito del lavoro e della famiglia.

Se va detto che sono aumentate le occupate in qualifiche elevate, le imprenditrici, le libere professioniste, tuttavia una lettura più dettagliata dell’occupazione fa scorgere da un lato il permanere di una situazione di svantaggio rispetto agli uomini e, dall’altro, una più forte dipendenza dai mutamenti e dalle fluttuazioni del mercato del lavoro.
La situazione si fa ancora più complessa, secondo il Rapporto, se ci si sposta dalla realtà del lavoro a quella della vita familiare, e al rapporto tra le due realtà che le stesse donne si trovano a gestire. Innanzitutto la dipendenza economica nel lavoro va ad accentuare, anziché attenuare, la dipendenza della donna nell’ambito familiare a causa della particolare strutturazione della famiglia italiana. E’ in questo contesto che si innesta la spirale precarietà lavorativa-dipendenza familiare-maggiore precarietà lavorativa. Gli stessi sistemi di welfare, strutturati su un modello tradizionale di famiglia, tendono ad incoraggiare e quindi a legittimare questa dipendenza della donna dalla famiglia.

Il Rapporto si sofferma poi sulla percezione soggettiva della disparità. Se si considera il grado di soddisfazione per il lavoro extra-domestico delle donne tra i 20 e i 34 anni, sposate e con figli, risulta che il 45% è molto soddisfatto; mentre tra le casalinghe con lo stesso carico familiare la soddisfazione scende al 39%. Dunque la conquista del lavoro è indubbiamente vissuta come una cosa molto importante e soddisfacente. Il rapporto tuttavia si inverte per quel che concerne la soddisfazione rispetto al tempo libero: è più alta la quantità di donne insoddisfatte tra le lavoratrici (53%) rispetto alle casalinghe (46%). Insomma, le donne avvertono il peso della “doppia presenza” ma sembrano impossibilitate a fare diversamente.
Altri dati riguardano la disparità delle risorse. E in questo contesto viene evidenziato come studi sui tempi delle donne fanno emergere che solo le donne senza figli riescono ad avere un tempo libero paragonabile a quello maschile. Detto ciò, il Rapporto focalizza l’attenzione sul problema della povertà femminile, evidenziando come le ricerche ufficiali non penetrano la fisionomia del problema. Citando l’indagine multiscopo “Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell’infanzia” del 1998, si sottolinea come l’84% di tutti i nuclei monogenitoriali è costituito dalla sola madre. Stessa cosa per le persone che vivono da sole, e soprattutto anziane, oggi in aumento (il 56% delle persone sole in Italia è costituito da anziani, e di questi il 66% è costituito da donne). Le donne anziane sole con più di 65 anni rappresentano il 37% delle donne della stessa classe di età, contro l’11% degli anziani maschi. E poiché il 79% di queste donne possiede al massimo la licenza elementare, il 47% risulta ritirata dal lavoro e il 24% sono casalinghe, è evidente la maggiore esposizione al rischio di povertà.

La povertà delle donne, tuttavia, si caratterizza non tanto come condizione permanente, ma come una serie di percorsi ad intervalli temporali, diversi dalla povertà maschile. Sono, insomma, più prolungati e più frequenti. Al Nord le famiglie povere con a capo una donna sono il doppio di quelle con un capofamiglia uomo. Ma il dato più significativo è che vivere sola, per una donna, comporta un rischio di povertà doppio rispetto a quello di un uomo. Tra le donne anziane, quelle a maggior rischio di povertà sono quelle molto anziane, titolari di pensioni sociali o di reversibilità o di pensioni minime (le donne sono titolari di circa l’80% delle pensioni sociali e di reversibilità). Le pensioni delle donne sono più esigue rispetto a quelle degli uomini, e ciò va letto in conseguenza delle varie difficoltà di accesso e di carriera del mondo del lavoro, nonché le interruzioni dovute ai carichi familiari e alle retribuzioni inferiori. La situazione diventa poi molto pesante per l’incidenza di molti altri fattori che minano la qualità di vita. Per il 6,5% delle anziane l’abitazione versa in cattive condizioni; il 17,4% delle anziane sole non ha il telefono, proprio quando sarebbe più importante che per altri. E con l’aumento dell’età aumentano le malattie cronico-degenerative, ma soprattutto cresce la disabilità e si riduce la vita di relazione. All’interno della categoria “anziane sole” vi sono poi alcuni gruppi più a rischio. Si tratta delle nubili e delle separate/divorziate. Quelle che non hanno, insomma, un soggetto economicamente forte che le tuteli. Hanno reddito modesti, vivono più spesso in affitto.
E quando si intrecciano povertà-salute-emarginazione? Anche se le donne vivono di più, le patologie a cui sono soggette costituiscono causa e conseguenza di stati di sofferenza anche economica. E ricerche mettono in mostra come il combinarsi di situazioni difficili coincida spesso, nelle donne, con patologie depressive.

Ma quando certi eventi riguardano le donne sole più giovani, specialmente se con figli, i rischi di povertà sono molto superiori rispetto a quelli delle altre donne. La condizione di dipendenza economica, familiare e lavorativa, la minore capacità di guadagno, la scarsa protezione del welfare sono fattori di rischio che espongono la donna al depauperamento in caso di rottura della famiglia. Specialmente se casalinga, disoccupata o sottoccupata. Studi condotti in Italia dimostrano come sia proprio la rottura del matrimonio a mettere a nudo quella disparità soprattutto economia tra coniugi. Un fenomeno che riguarda tutti i ceti sociali ma che, ovviamente, pesa di più sulle donne ( e sui figli) dei ceti più modesti e con cultura di più basso livello. La condizione di madre sola è oggi un fenomeno che, per ampiezza e qualità, tende a diventare un vero problema sociale. Secondo l’indagine Multiscopo Istat del 1998, all’interno del milione e 800mila nuclei monogenitoriali presenti in Italia (l’11% di tutti i nuclei familiari) c’era un 84% di nuclei costituiti da donna sola con figli. E mentre va diminuendo la quota di vedove, aumenta quella di separate e divorziate.

Il 51,6% delle donne italiane ha subito molestie sessuali

Le problematiche delle donne non si esauriscono con la situazione delle madri sole e delle anziani sole. Spiccano, per esempio, i dati relativi alla violenza alle donne.
Anche in questo caso l’indagine multiscopo Istat del 1998 rappresenta la prima indagine ufficiale italiana sulla violenza alle donne. L’indagine prende le mosse dalle denunce per reati sessuali nel periodo settembre 1997-gennaio 1998. Un’analisi integrata con interviste telefoniche a 20.064 donne dai 14 ai 59 anni. Il primo risultato allarmante è il fatto che le donne che hanno subito uno stupro o un tentato stupro sono 714mila, mentre sono 185mila quelle che lo hanno subito negli ultimi tre anni. Di queste 185mila, solo l’1,3% dei tentati stupri e il 32% degli stupri è stato denunciato. Ma è ben più alto il numero di non denunce nelle 714mila donne che hanno subito violenza o tentata violenza nell’arco della vita: ben il 93,2% delle tentate violenze e l’82,7% delle violenze non sono state mai denunciate.
Tra gli episodi denunciati negli ultimi tre anni, la maggioranza delle tentate violenze è stata commessa nei confronti di donne di età compresa tra i 14 e i 24 anni di età (49,4%), mentre nelle donne tra i 25 e i 34 anni tali episodi ammontano al 26%. Un’altra rilevazione è quella effettuata dall’associazione Differenza Donna di Roma nel corso del 2000. Su 1005 docce che si sono rivolte ai centri, la ricerca ha evidenziato 485 casi di maltrattamento, 175 casi di violenza psicologica, 122 casi di percosse, 92 casi di stupro, 41 casi di induzione alla prostituzione, 30 casi di inadempienze, 8 casi di molestie sessuali. Intuibile che la maggior parte di questi tipi di violenze siano consumati in famiglia

Un particolare tipo di violenza è costituito dalle molestie sessuali. La ‘molestia sessuale’ è una forma di violenza poiché si configura sempre come “una intrusione fisica, psicologica e/o sessuale ai danni di un’altra persona che non la richiede e non la gradisce, pur differendo dalla violenza per forma ed intensità. L’indagine Istat ha preso in considerazione solo telefonate oscene (riguardano la maggioranza delle donne, vale a dire il 34,4% delle molestie subite), molestie fisiche (24%), esibizionismo (22,6%), ricatti sessuali sul lavoro (4,2%). In totale, le donne molestate in Italia risultano essere 9milioni e 420mila , cioè la maggioranza della popolazione femminile dai 14 ai 59 anni (il 51,6%). Il 22,7% ha subito due o più tipi di molestie. Le molestie, più della violenza, colpiscono indifferentemente i vari strati sociali, varie aree geografiche e vari tipi di donne. L’unica variante significativa riguarda la maggiore concentrazione di molestie subite da donne single (il 33% delle single ha subito molestie), le separate e le divorziate (il doppio rispetto alle sposate), e comunque le donne che escono di più. Le donne sono molestate prevalentemente sui mezzi pubblici (34,4%) e per strada (20,3%) da persone estranee. Nei luoghi in cui si verificano maggiormente delle violenze, invece, vi è una bassa percentuale di molestie.

La ricerca Istat stima che siano 728mila le donne che hanno subito molestie sul lavoro, cioè il 4,2% della popolazione femminile. Si tratta di molestie fisiche, ricatti sessuali e violenze sessuali. Non sono state considerate, invece, le molestie verbali che sono invece piuttosto comuni. Nel mondo del lavoro, circa mezzo milione di donne hanno dovuto subire ricatti sessuali e, di queste, quasi due terzi si trovavano in situazione di prima assunzione.

Dopo l'affidamento non si rientra più in famiglia. I dati sulla prostituzione minorile

Quasi il 50% dei bambini ricoverati in strutture residenziali o dati in affidamento familiare hanno alle spalle una famiglia separata o divorziata o una famiglia monoparentale all’origine o a seguito di morte del partner. E’ uno dei dati emersi dal Rapporto Caritas-Zancan sui “Cittadini invisibili”, rapporto che focalizza la sua attenzione proprio sull’universo minorile.
Secondo il Rapporto i bambini coinvolti in questa situazione non sono numericamente molti: dalle ultime ricerche condotte dal centro nazionale di documentazione e analisi sulla condizione dell’infanzia emerge che al 30 giugno del ’98 i bambini e gli adolescenti ricoverati nelle 1802 strutture residenziali erano 14.945 mentre al 30 giugno 1999 i minori in affidamento familiare erano 10.200. Secondo il Rapporto Caritas-Zancan, inoltre, è soltanto rituale l’affermazione che l’allontanamento dalla famiglia è temporaneo e funzionale solo ad un effettivo recupero della relazione genitoriale insufficiente: emerge infatti che non rientrano mai in famiglia il 33% dei ricoverati in strutture residenziali e il 62,6% dei ragazzi in affidamento familiare; che, inoltre, rispettivamente il 7% e il 5,8% rientrano in famiglia solo una volta ogni sei mesi o ancor più raramente; che il 21,5% dei ricoverati in strutture residenziali e il 21,4% dei ragazzi in affidamento familiare non ricevono mai una visita dei propri genitori, ecc...
Vi è poi un altro dato eloquente: dai 10.200 minori in affidamento familiare, ben 5.280 (il 52%) erano affidati a parenti, mentre il vero, autentico, affidamento extrafamiliare a persone selezionate e preparate riguarda solo 4668 minori.

Minori affidati, minori coinvolti nella crisi della coppia. Il secondo ambito di studio del Rapporto riguarda proprio questo fenomeno. In Italia la famiglia ancora regge: su 100 matrimoni, in Italia vi sono 12,2 divorzi contro i 17,4 della Spagna, il 40,9 della Francia, il 44,4 della Germania e il 51,9 del Regno Unito. E’ evidente tuttavia che nelle aree più ‘moderne’ (Italia Nord Occidentale) il trend si sta pericolosamente avvicinando ai trend europei. Nel nostro Paese tuttavia è in continuo aumento il numero di figli di coppie separate: dai 30.010 del 1987 ai 35.317 del 1990, ai 38.779 del ’95, ai 45.548 del 1998.

Nei dieci anni che passano tra il 1989 e il 1998, quasi 400mila figli sono stati affidati a uno dei genitori o a terzi. Numero imponente, anche perché non sono ricompresi in questa cifra i figli di famiglie in cui la frattura non è stata sanzionata dal giudice (separazioni di fatto) e i figli delle famiglie di fatto che si dissolvono. Le difficoltà di questi ragazzi vanno ricercate nella perdita di unità tra i genitori, nella difficoltà di elaborare il ‘lutto’. Ma ulteriori difficoltà e disagi sopraggiungono quando il ragazzo viene usato nel conflitto processuale tra genitori.
Altri due aspetti che riguardano i minori: lo sfruttamento sessuale e la prostituzione. Dalle statistiche giudiziarie emerge che: le denunce di violenze sessuali perpetrate nei confronti dei minori di 14 anni sono state in aumento ma con una flessione nell’ultimo anno considerato (303 nel 1996, 470 nel 1997, 586 nel 1998 e 511 nel 1999); sono in aumento i reati di corruzione di minorenni (120 nel ’97 e 168 nel ’98); quasi la metà dei reati sessuali che vedono come vittime i soggetti minori di 14 anni riguardano minori nella fascia di età 0-10 anni; ben 334 i minorenni denunciati nel 1998 come autori di violenze sessuali; ben 775mila ragazze tra i 14 e i 17 anni hanno dichiarato negli anni 1997-1998 di aver subito nei tre anni precedenti molestie fisiche, esibizionismi, telefonate oscene, tentativi di stupro. In questo settore, poi, il numero oscuro delle criminalità è altissimo: molti reati sessuali nei confronti dei minori, infatti, sono compiuti all’interno della famiglia e quindi difficilmente evidenziabili. E non sempre i familiari ritengono opportuno denunciare le violenze subite dai figli.

Quanto alla prostituzione minorile, il Rapporto cita i dati del Ministero degli Interni, secondo cui nel 1999 202 minori sono stati vittime del reato di prostituzione. Non appare dunque inverosimile il dato, che emerge da diverse ricerche, secondo cui l’8-10% delle prostitute di strada è minorenne, con una incidenza di circa 1500-1800 persone irretite nella prostituzione di età minore.

Infine il lavoro minorile. I dati circolanti non sono, secondo gli autori del Rapporto, completamente attendibili, anche perché spesso aggregano dati del tutto eterogenei. Dalle statistiche sugli infortuni sul lavoro emerge che nell’arco di tre anni (1994-1996) ci sono stati 8 infortuni mortali sul lavoro nella fascia di età fino a 14 anni e un totale di 1097 infortuni sul lavoro indennizzati. L’ispettorato del lavoro, nel biennio 1996-1997, ha poi rilevato 290 violazioni dell’età minima di assunzione (4 nelle grandi aziende industriali, 24 nelle medie aziende, 47 nelle piccole aziende, 58 nelle aziende artigiane, 119 nel commercio, turismo, credito; 38 nelle aziende agricole.

Disabilità e scuola: il bisogno di istruzione

Secondo il Rapporto Caritas-Zancan, i disabili di 6 anni e più che vivono in famiglia sarebbero 2 milioni e 615mila. A questi dati va aggiunta una quota di altri 165.538 disabili presenti in residenze. Non sono invece disponibili, secondo il Rapporto, dati relativi a persone con disabilità da 0 a 5 anni.

Per ciò che concerne le scuole, si nota un minor numero di alunni con handicap nella scuola materna e nella scuola superiore, come pure il numero proporzionalmente più alto di alunni di scuola media (in media 14.183 in ciascuno dei tre anni) rispetto alla scuola elementare (10.217 per ciascuno dei 5 anni. Quanto ai dati sulla frequenza nella scuola superiore, pur essendo più bassi rispetto alla scuola media, evidenziano una continua crescita a partire dalla fine degli anni ’80, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito il diritto costituzionalmente protetto alla frequenza dei ragazzi con handicap anche nella scuola superiore.

Comunque, la percentuale di alunni con handicap inseriti nelle scuole comuni statali è mediamente pari all’1,6% dei compagni non handicappati, con una diversa distribuzione nei diversi ordini di scuola. Infatti alla materna è pari all’1,1% e nelle superiori allo 0,9%; nella scuola elementare essa è pari al 2% e nella scuola media inferiore al 2,5%.
La percentuale di alunni con minorazione visiva è la più bassa (0,02% in media), seguita dalla minorazione uditiva (da 0,04% a 0,24%). Il grosso è tuttavia costituito dai portatori di handicap psico-fisici, al cui interno si possono individuare circa il 16-17% di alunni con handicap esclusivamente o prevalentemente motorio e fisico. Quindi, la stragrande maggioranza di alunni con handicap è costituita da ritardo mentale lieve, medio o grave, da insufficienza mentale, cerebrolesioni o autismo.

Quanti sono? I dati raccolti:
a cura di Rolando A. Borzetti
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