Telegiornale
Giuseppe Aragno - 21-10-2002
Scrivo mentre il TG1 riferisce delle cannonate israeliane su una scuola palestinese. La guerra. Il bambino che non sapeva nulla di suo nonno non l'ha vista, ma le prime immagini che ricordo della mia città sono immagini di guerra: la case sventrate, con le occhiaie spaventose dov'erano state le finestre, e il cielo che scendeva fino a terra dietro le tragiche "quinte" di palazzi ridotti a facciate senza intonaco, senza scale, senza pavimenti e senza soffitto. C'era ancora, su un muro non lontano da casa, il rosario di buchi sgranati dal mitra d'un cecchino fascista che tentava di ammazzare mio padre in cerca d'acqua nella città in rivolta contro i nazisti. Allora non potevo saperlo, ma quei buchi e quelle rovine erano la storia, le affascinanti nicchie di vita passata in cui avrei trascorso gli anni migliori della mia vita futura. Ovunque, li ricordo come fosse oggi, grandi manifesti colorati con immagini di mine antiuomo, un bambino con le grucce, un teschio - o la morte con la grande falce - e l'ammonizione secca: non toccarli! Toccavamo invece, convinti di giocare, inconsapevoli e indifesi, come i bambini di fronte ad ogni guerra, e nella città senza automobili la sirena lacerante riusciva talvolta a conservare in vita poveri storpi. Così accade oggi in terre disperate, ma noi, afgani d'un tempo che ormai non ci appartiene, cresciuti senza memoria, abbiamo dimenticato: smarrite la memoria e l'innocenza, fatti uomini e inferociti dai tempi e dagli anni, abbiamo consentito e consentiamo - più di tutti colpevoli perché più di tutti sappiamo - che altri disgraziati bambini, torcendosi su altre ambulanze, tentino di sopravvivere alla loro allegria d'un tratto spenta, al trauma sanguinolento dell'esplosione atroce e repentina e trascinino via dagli ospedali di Emergency i loro corpi storpiate, le loro anime piagate, la loro indicibile disperazione. Noi, proprio noi che siamo sfuggiti Dio sa come a un identico destino.
Senza il sospetto di tanta barbarie, ma sconcertato da segnali allarmanti che non ero in grado di decifrare, vissi gli anni irripetibili del paese che ricostruiva se stesso e riciclava il ciarpame fascista nella repubblica democratica con una tristezza incombente, che spesso velava la naturale spensieratezza dell'infanzia. In realtà, per quanto mi sforzi di ricordare, i primi quindici anni della mia vita si riducono ad una sola lunghissima giornata. Lunga e senza finestre sull'esterno: dentro mille luci, fuori un buio raggelante ed un mormorio inquietante, gestito da regole incomprensibili, senza diritti riconosciuti, senza alcuna risposta alle domande poste. Se provo a dare un volto alle due dimensioni, quella interna con le luci ha l'intenso colore azzurro degli occhi di mia madre ed il suo volto regolare, espressivo e severo incorniciato nei folti capelli biondi ed ondulati; ma le luci si fanno talvolta abbaglianti e feriscono gli occhi; l'esterno, buio, inquietante, oppressivo e senza risposte si lega a più immagini: mio padre soprattutto, ma anche i vicoli malavitosi e laidi della borsa nera diventata regola di vita e d'una società omertosa, fisicamente sporca, psicologicamente serva, astiosa ed arrogante, senza fede politica, senza amore spirituale, tutta fisicità, carnalità, umanità stravolta. La dimensione della città viceregale, spagnolesca e sottoproletaria. Incolpevole, e però non innocente, ferita a morte, ma troppo vile per tentare di morire con una qualche dignità.
Da quest'immagine sfocata e monocorde si staccano - e riposano a vari livelli di consapevolezza - fatti, momenti e sensazioni che formano storie nelle storie, vicende particolari che restano indeterminate e da sole non hanno senso.
In una luce piena d'ombre, artificiale, ambigua, psichedelica, in una strada senza voci e suoni, sono con mia madre - avrò poco più che tre anni ma ricordo benissimo - e c'è chi si rivolge alla giovane attrice apprezzata e promettente applaudita tante volte nei teatri della città e domanda notizie e fa complimenti. Nega mia madre, arrossendo e attirandomi a sé: è imbarazzata, taglia corto. Negli occhi un velo improvviso di tristezza. Pensa forse alle luci della ribalta spente per sempre, al pubblico che applaude, alla compagnia del grande Eduardo che l'ha chiamata ottenendone un incredibile rifiuto. Nessuno la chiamerà più, nessuno farà più applausi per lei. Il manicomio, cui la condurrò io stesso un giorno è lontano. Ancora non sappiamo - né io né lei che ci guardiamo stupiti - ciò che sarà. Io però m'intristisco e non so che pensare.
Il telegiornale è finito da un pezzo. Guardo l'orologio: è quasi l'una. Mettere ordine nelle mie storie a quest'ora diventa estremamente faticoso e i ricordi si fanno opprimenti. Anche oggi ho lasciato al loro destino i miei anarchici e gli impegni di studioso. Ma non mi dispiace. Domani, anzi oggi, c'è lo sciopero generale. Tutto da un po' accade fuori tempo. Avessimo levato le nostre bandiere per mandare a casa D'Alema, avremmo meno pesi sulla coscienza e più speranze di vittoria. Ma non serve recriminare.


continua
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Stefano Mango    - 27-12-2002
Lo sguardo dell'autore, prendendo spunto da fatti tragici riportati dal telegiornale, si sposta sul passato che, come sempre, è gravido dell'avvenire. Un avvenire che ieri ha visto riciclarsi il "ciarpame fascista" nella repubblica democratica, ed oggi si concretizza nell'apoteosi del vecchio sistema politico riciclatosi sulle macerie dello scandalo "mani pulite".
La storia è ciclica, come G.B. Vico insegna, e ciò che di veramente unico ed irripetibile rimane sono solamente i rapporti umani, nel caso specifico quelli familiari.