Precari tra le due Destre
Alerino Palma - 14-07-2001
Quasi nessuno sembra ricordare che il corporativismo
è un arnese dell’armamentario scenico di quell’arcaismo
tecnicamente equipaggiato e spettacolare che il fascismo
impose durante lo stato d’assedio della società capitalistica
tra le due guerre, sotto la minaccia della crisi, della lotta
di classe e della sovversione proletaria…
Accademia dei Testardi, Dizionarietto ad uso
dei comitati di base della scuola, Carrara 1988


Definizioni. Non è solo un problema di metodo. Tutti sanno cos’è un precario: gli alunni e le loro famiglie, i presidi, i colleghi, il personale della segreteria. Precario è chi non è di ruolo. Chi lavora con un contratto a tempo determinato e senza certe garanzie. Anche il vocabolario è chiaro. Eppure intorno alla definizione e ai suoi limiti si è giocata la partita dei precari in questi anni. La definizione di cosa sia un precario nella scuola cambia a seconda degli umori, dei tempi, dei soggetti (chi si auto-definisce e chi definisce), delle relazioni che mette in gioco; oserei dire, di certe opportunità estemporanee e non. Non mancano i de profundis (tiè), gli epitaffi, le didascalie, come questa: “Le tragedie, personali e famigliari, di migliaia di precari che hanno servito lo Stato per decenni graveranno sulla coscienza dei politici e dei sindacalisti responsabili di tanta eclatante ingiustizia” (Il partito per la scuola).
Ma con un certo anacronismo: il precario della scuola non solo non è l’unico precario nella società postfordista, ma non sarebbe neppure messo tanto male, se sapesse, o avesse saputo difendere un punto fermo, se avesse trovato interlocutori validi (sindacati, partiti, intellettualità laica e progressista) per farlo: la sopravvivenza di una grande scuola pubblica in cui mantenere la certezza di un posto di lavoro, pur soggetto alle migrazioni, pur in subalternità a chi il contratto ce l’ha a tempo indeterminato e nessuno lo schioda.
C’è chi specula. Anche i precari hanno i loro privilegi. Come i docenti di ruolo fanno un lavoro part-time, si dice. E va bene. Pagati fino al 31 agosto se hanno un incarico annuale e riassunti il 12 settembre dal provveditorato per un nuovo contratto annuale, con quei quindici giorni rimborsati dall’inps. Peccato che molto spesso non sia così. Ci sono variazioni sensibili tra una provincia e l’altra. Variazioni ancora più sensibili tra chi insegna matematica o italiano, materie universali, e chi insegna strumento musicale, educazione fisica, ma anche disegno e storia dell’arte, soggetto alla stagione, costretto ad accettare, dopo più di vent’anni di precariato, poco più che le ore di maternità dei colleghi di ruolo o le supplenze di dieci, quindici giorni. I precari, molti precari continuano a dare forza all’immagine dell’insegnante casa, scuola e benzina. Ma anche le gomme, le pasticche dei freni, diceva un collega. E le candele, pensavo io con l’auto ferma su quella maledetta salita di Tivoli. Come se fossimo gli unici ad andare in panne.
Ma ho sentito anche precari soddisfatti del loro non eccellente tenore di vita, del loro strano privilegio di poter cambiare tutti gli anni, di non dover mai diventare un fossile dentro un corpo insegnante. E poi: se mi immettono in ruolo a Canicattì è pur meglio che continuo a lavorare sotto casa: da precario. Lavorare, da precario, non è più scontato.
Certe sicurezze, dopo la cura Berlinguer, cominciano a vacillare pericolosamente. Primo, la scuola smette di colpo, e proprio mentre la sinistra sta per passare la mano a una destra neoliberista fino al midollo, di essere un fortino contro la flessibilità che comincia a pervadere tutti gli altri settori, non solo nel privato. Succede in quest’ultimo inverno che Visco, ministro del Tesoro, non si faccia scrupolo di esprimere il nuovo pensiero: le nomine saranno contate perché precario è bello. Perché costa meno. Perché, questo non lo dice, il precario ha più doveri che diritti. E le nomine sono state contate. Non solo: per effetto del decreto che ha stabilito le norme per l’avvio dell’anno scolastico – sto parlando del 31 agosto 2000 – quasi tutte le nomine sono state fino al termine delle lezioni. Lo stretto necessario. Scriveva un ex preside nel 1993: “Si teme che con le disposizioni future sul comparto scuola non troverà più posto la figura del supplente annuale: forse verrà il giorno in cui anche chi riceverà dai Provveditorati una nomina per tutto l’anno su un posto vacante sarà retribuito solo per il periodo di servizio effettivamente prestato”. Notoriamente, fa notare Pacchiano, “durante le vacanze, un individuo può ridurre al minimo i consumi”. E poi qualcuno dei nuovi arrivati si sta già cominciando a interrogare: perché loro possono percepire un salario anche per quello che non fanno? A me, quando facevo il correttore di bozze, neppure le ferie mi passavano. E se volevo la ricreazione mi dovevo imboscare.
Il disegno è chiaro: sospingere i precari verso una posizione ancora più precaria facendo loro intravedere avanzamenti improbabili ma sostanziosi, creando aspettative che poi non si è in grado di soddisfare. Con la rudezza di un sindacalista della Cgil: scavalcamenti. La tecnica è quella, abusata nella storia a tal punto che rimane difficile capire come ci siano cascati in tanti: il divide et impera.
Prima di tutto la definizione del vocabolario è troppo ampia, come tutte le definizioni teoriche. Si sa: la vita si incarica sempre di dissolvere certe illusioni. Per la pubblica istruzione, alla data del bando del concorso, precari erano coloro che avessero lavorato per almeno 360 giorni in una scuola secondaria, pubblica o privata e che di conseguenza avevano il diritto a conseguire un’abilitazione “protetta”, con la tacita giustificazione che aver prestato servizio per un certo tempo potesse essere la garanzia dell’acquisizione di una certa capacità, o forse per la certezza che questa capacità non si impara, non si insegna, non si può e non si vuole misurare. Più tardi, la definizione è stata allargata a comprendere anche chi avesse i 360 giorni di servizio in una scuola elementare o materna, poi la data per i requisiti per accedere ai corsi abilitanti è stata spostata di un anno. Ma nessuno si è interrogato sull’arbitrarietà di questa definizione. Oppure lo ha fatto in modo debole, astratto, generico. I comitati di base della scuola hanno dimenticato in fretta il loro egualitarismo. Si sono semplicemente sciolti in un mare di consulenze di precari riconosciuti ope legis che hanno fatto valere il proprio punto di vista.
Ma il capolavoro della pubblica distruzione è stato quello di suddividere le nuove graduatorie, dette permanenti, in quattro fasce a seconda di certi requisiti. Apparentemente nessuna grande iniquità: prima quelli del doppio canale, poi quelli che avevano già un’abilitazione in quella classe di concorso alla data del bando dei corsi riservati, poi i nuovi abilitati con 360 giorni nello stato, poi i nuovi abilitati senza i 360 giorni nel pubblico. Il sistema – in nome della salvaguardia dei privilegi acquisiti da chi era rientrato nella definizione “ministeriale” di precario – era chiuso comunque a nuove accessioni. Agli abilitati del concorso ordinario, purché avessero ottenuto una buona posizione nella graduatoria definitiva, si era comunque concesso il 50% sulle future assunzioni. Ai futuri specializzati della ssis l’onesto ruolo di spettatori nelle nomine degli anni a venire.
Qualcuno è stato beneficiato da questa definizione oltre le sue aspettative. Il fatto notevole è che un decreto ha stabilito, in modo iniquo ma per niente casuale, i limiti di una categoria, condizionandone a fondo per il futuro l’ideologia e le strategie di difesa. Ha fatto di più: ha creato delle sottocategorie in cui ciascuno si è compiaciuto o meno di trovarsi, difendendo la posizione acquisita o costituendo comitati di protesta per sovvertire in tutto o in parte il sistema, ma sempre nell’ambito ristretto del proprio interesse individuale. Oggi non mi meraviglio più di leggere, nei comunicati stampa dei sindacati, nei fax dei comitati, nei messaggi dei singoli, un’opposizione radicale, ottusa e qualunquista, elevata ad unica possibile mentalità di lotta, di sopravvivenza: "auspico che gli inclusi nella ex terza fascia formino un coordinamento permanente (stavolta nel vero senso della parola e non come le graduatorie) che porti al Ministro Moratti la proposta di accorpare il primo e il secondo scaglione"; "è forse colpa mia se per trenta dico trenta giorni non sono riuscita ad entrare nel doppio canale? pensi che non abbia il diritto di precedenza su chi si è abilitato adesso? o forse sono andata per anni a Norcia e Cascia per farmi una bella passeggiata anche nell'anno del terremoto? La decisione di unificare le fascie (sic) come voi dite è ingiusta e fuori da ogni logica soprattutto per chi solo oggi dopo undici anni di sofferenze riesce a mettere le mani su una cattedra!". Fino all’estremismo di chi, ignorante di tutto, entra in una lotta dove non esistono più punti di riferimento, e giustamente dice la sua: “Venerdì 1° giugno, in occasione della manifestazione del precariato davanti a Palazzo Chigi, mi confonderò tra i manifestanti e, imbottito di esplosivo, mi farò saltare in aria facendo strage di precari”.
Nella lotta accanita di tutti contro tutti, i cento e più precari delle scuole private – perché, a questo punto, dovremmo negare loro lo status di precari? – che hanno ricorso al Tar contro la loro esclusione dalla terza fascia, hanno scelto la strada più ovvia. Hanno avuto fortuna e hanno vinto. La logica complessiva ha autorizzato tutto questo. Gli specializzati della scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario chiedono 60 punti aggiuntivi nelle future graduatorie degli abilitati? No, non è una posizione etica. Ma quale posizione è etica? Non sarà molto utile in vista di un dialogo con le altre parti in lotta. Ma chi, sinceramente, ha voglia di dialogare? Il mercato del lavoro si chiude: si salvi chi può.
I sindacati sono assenti. Lo sono stati finora: il ruolo della grande confederazione, che molti hanno voluto vedere, non a torto, come l’ispiratrice della politica scolastica dei governi di centro-sinistra, è stato in gran parte, nella grande mischia degli ultimi due anni, di subalternità alla logica della frammentazione. Dopo avere ceduto su tutte le richieste di cattolici e imprenditori per quanto riguarda la parità scolastica, dopo avere elaborato una riforma contraddittoria, farraginosa, in cui il ruolo della scuola nella formazione scade in parallelo alla cancellazione di posti di lavoro, il sistema delle fasce viene difeso come l’ultimo argine contro la privatizzazione, nonostante tutta la sua assurdità, nonostante il suo potenziale di divisione e di esclusione, nonostante il suo anacronismo a fronte delle trasformazioni avvenute in questi due anni; nonostante che i concorsi ordinari – che dovevano rappresentare l’altro canale di reclutamento nella scuola – si siano dimostrati, ma qualcuno ha la memoria corta, poco più che un macello. Non si dovevano neppure fare, ha detto una collega, perché prima dovevano sistemare noialtri.
Ma i sindacati sono assenti soprattutto perché non sono capaci di rappresentare i precari, perché si sono appiattiti sulle loro divisioni invece che favorire una riflessione che portasse al di là dei problemi dei singoli, dei gruppi. La Cgil ha molti iscritti anche tra i precari ma le sue manifestazioni vanno allegramente deserte. Quando non sono una bufala tematica come è successo questo inverno. Un modo per dire ai precari, che all’ultimo momento si scoprono elettori delle Rsu: contate su di me. Cioè: votate per me. I Cobas sventolano una bandiera dove c’è scritto: Immissione in ruolo, subito, per tutti i precari. Ma sull’estensione di quel tutti ancora oggi non sono riuscito ad avere una risposta chiara. La mia impressione, nelle riunioni dei precari, è stata spesso che tutti fossero i presenti. Del resto gli assenti hanno sempre torto. Idem dicasi per le minoranze. Peccato che anche nelle manifestazioni dei Cobas i precari si contino con le dita di una mano. E non parliamo del Coordinamento insegnanti precari, lega di soli precari affiliata alla Gilda degli insegnanti.
Tutti, di fronte all’offensiva neoliberista della destra, non sanno far altro che riproporre parole d’ordine logore e inutili. La lotta contro l’equiparazione dei punteggi tra pubblico e privato non è la lotta per un modello di scuola ma, come si deduce chiaramente dal testo dei comunicati stampa emessi dopo il 28 giugno, parte di una lotta, accanita, per la difesa della posizione individuale nella grande classifica dei precari. Ma non è solo la Cgil, che riscopre, nel momento opportuno, l’esistenza dei precari, firmando piattaforme che mettano d’accordo tutte le sue anime. Un capolavoro quella che ammette sì l’inserimento a pettine nelle graduatorie permanenti per i futuri abilitati , ma intanto il ripristino, puro e semplice, di terza e quarta fascia, in omaggio alla lotta che tutti, anche gli esclusi, dovrebbero combattere contro la scuola privata, che nella quarta fascia aveva già trovato una collocazione più che soddisfacente. Acquiescente allora la Cgil, la Cisl, la Uil ma anche i Cobas, nonostante certe prese di posizione, nonostante la generosa opposizione a Berlinguer prima e a De Mauro poi e alla loro politica liquidatrice della scuola.

Il 28 giugno è stato, in un certo senso, il giorno della verità. Quello in cui certi nodi sono venuti al pettine. Il decreto di Letizia Moratti è perfino troppo moderato, se si pensa al vuoto legislativo in cui si è trovato a operare il nuovo ministero della pubblica istruzione dopo due anni di dilazioni e di decreti di urgenza, ma soprattutto in relazione alle richieste delle parti sociali che la destra non ha mai fatto mistero di rappresentare, alle premesse con cui la signora Moratti si presenta sulla scena della pubblica istruzione: “…l’unica volta che si è occupata di scuola è stato per firmare, insieme alle gerarchie ecclesiastiche, ai maggiorenti confindustriali e al gruppo di Liberal, il manifesto per una ‘grande scuola’ che prevede come punto centrale il finanziamento alle scuole private, la concorrenza con quelle pubbliche e la subordinazione alle esigenze dell’impresa”. (da “Lavori in corso”, 1, giugno 2001).
Puntuale, persino scontata la cancellazione delle fasce – erga omnes però, con il riconoscimento, mai avvenuto durante la gestione di Berlinguer e De Mauro che pure l’hanno voluta, della specializzazione all’insegnamento secondario – e l’equiparazione dei punteggi in omaggio alle pressioni del privato. Puntuale il decreto che delega ai presidi la facoltà di nomina dei supplenti – non ancora quella di scelta, sono parole loro: la destra a questo giro è diventata più prudente – quando i provveditorati sono inadempienti o ritardatari – e quando, e dove non lo sono stati in questi ultimi tre anni? Il vantaggio della destra non è solo quello di non avere ostacoli di fronte alla sua azione contro-riformista ma anche quello di poter presentare ogni provvedimento come un passo in avanti rispetto al passato. Chi rimpiangerà la riforma dei cicli? Chi potrà lamentarsi dell’introduzione dei buoni-scuola, pura e semplice applicazione di una legge che porta la firma di un ministro diessino? Il centro-sinistra ha portato per anni avanti una politica di piccolo cabotaggio, del qui lo dico e qui lo nego, dell’insabbiamento. Nel fango, si diceva, annegherà anche la destra, incapace di raccapezzarsi in un tale caos di leggi, decreti, regolamenti. E invece la destra aveva studiato, aveva preparato la sua politica con la sentenza del Tar, non ha perso tempo a emanare i decreti che danno ai suoi indirizzi sulla scuola – che in fondo sono uno solo, copia conforme dell’idea di società che per mesi ci ha salutato dai manifesti elettorali di Berlusconi – una forma provvisoria ma già chiarissima. Miope è soppesare i pro e i contro, fare il conto di quanto si potrà guadagnare con questo governo. Non c’è trippa per gatti.

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 Claudio    - 17-07-2001
Che schifo. Aver lavorato per dieci anni nella scuoal pubblica per farci insegnare la politica da un poppante.

Claudio