Sabato, cinque ottobre 2002. Scrivo di getto, come mi accade da un po'. La forma non conta: è questione d'ossigeno che sento mancare.
A Napoli, in piazza contro la guerra, apre il corteo Jamal, il mio amico che al sindacato aiuta da anni immigrati di ogni paese. Leva in alto la bandiera ferita della sua Palestina. Ci seguono in tanti: bandiere e striscioni della sinistra giovanile, dei pacifisti, dei circoli di Rifondazione, dei cobas della scuola, dei no global. La CGIL Campania aderisce, forse promuove, ma cautamente, com'è ormai suo costume, e non sventola bandiere, in attesa di un'altra occasione - questa intanto la perde - e le basta una presenza simbolica: un gruppo di dirigenti che si tengono sottobraccio. Si sfila contenti. Si sfila concordi. Non è cosa da poco. L'Ulivo non c'è. Non c'è la Margherita che accompagna gli alpini a Bora Bora.
Il mercato ortofrutticolo della politica, in questa mattina piovosa, ha chiuso i suoi battenti. Mancano - ma era scontato - professionisti e intellettuali a la page che girotondano con Moretti e se ne stanno a casa quando si parla di guerra. La "società civile", quella radicalchic che ora frequenta la piazza, per la guerra non gira, sicché sta con Berlusconi e balla con Moretti. Ne conosco tanti: a Roma per il girotondo, a scuola se c'è sciopero generale. Non mi meraviglio perciò se Grazia Manni, con chiarezza e semplicità - ma soprattutto con grande onestà intellettuale - senta il bisogno di chiedere conto alla Margherita dell'uso che fa dei voti ricevuti e invece di risposte riceva domande. C'è un'equazione che non può essere verificata e che, tuttavia, opportunamente usata, risolve i problemi di chi intende mentire: molte notizie sono equivalenti a nessuna notizia. E' questo il livello dell'attuale dibattito politico. Per quanto mi riguarda, la capisco e concordo, sebbene sia stanco di usare la penna per combattere le degenerazioni di quella che fu la mia parte politica: il PCI, che si è dissolto in una nebulosa senza luce e - ciò che più conta - senz'anima e senza storia. Sono così stanco, che non insegno più. Per protesta, perché rifiuto di apparire complice agli occhi dei miei alunni e non sopporto il peso d'una domanda ch'è un ceffone in pieno viso: - ma voi, professore, non ci avete detto che l'Italia può fare la guerra solo se l'attaccano?
Posta così, con la lucida ironia di ragazzi d'una zona "a rischio", la domanda può sembrare persino gratificante - hanno appreso bene la lezione - ma al momento di rispondere il piacere evapora e fa posto a verità angoscianti. In terra di camorra il confine della legalità è nettissimo e c'è solo una scelta: con lo Stato o contro. Per ragioni diverse, percorrendo binari solo apparentemente divergenti, io e i miei ragazzi acuti e sventurati siamo giunti infine alla stessa stazione: entrambi non crediamo più nello Stato. Pensatela come volete. Ho mollato. Psicologicamente, prima ancora che materialmente, non ci credo più. Come accade spesso, me ne sono accorto solo dopo ch'è accaduto, ma mi sono messo in viaggio al tempo della guerra del Golfo e mi sono fermato in una stazione che si chiama nausea. Lentamente, con fastidio invincibile e crescente, ho dovuto fare i conti con amare considerazioni ed è emersa una realtà che rifiutavo. Ho conosciuto l'amarezza della solitudine ed è stata una sofferenza così acuta - i medici la chiamano depressione - che non sarò mai più com'ero: sono cose che lasciano il segno, anche se impari a gestirle, ti fanno crescere e forse ti arricchiscono. Oggi che il viaggio è compiuto lo posso dire, perché pensarlo non mi angoscia. Ciampi, checché ne pensi l'ottimo Benigni - come puoi paragonarlo a Geppetto, toscanaccio irridente, che mi disamori, offendi il tuo Collodi e mi fai rimpiangere con maggiore amarezza il mio Troisi? - Ciampi, dicevo, ed il suo predecessore partigiano faranno i loro conti con la storia per le operazioni di polizia internazionale e per quelle umanitarie che ci hanno consentito di coprirci di gloria bombardando donne, vecchi e bambini. I conti con i miei ragazzi nella periferia dei camorristi si sono saldati da tempo: anni di onesto lavoro in prima linea cancellati in un amen. La Costituzione, così faticosamente predicata, è violata, la legalità offesa, lo Stato di diritto svuotato di contenuto. Le cose stanno così, anche se non lo diciamo e facciamo ipocrite tavole rotonde per resuscitare i valori fondanti della convivenza civile quando un nuovo orrore - e accade sempre più spesso - consente ai Vespa ed ai Cucuzza di turno di rivoltare come un calzino, stravolgendole, le obnubilate coscienze di quelli che furono cittadini.
Perché non dirlo? La scuola, ogni scuola, in ogni tempo e luogo, è in qualche modo lo specchio della società in cui opera. Un mediocre come Berlinguer si è atteggiato a Gentile - che ora lo guarda irridente dalle sue vette insanguinate - ed ha prodotto quello che poteva: la breccia in cui si sono infilate orde di vandali per consegnare la scuola ai privati. Lo scuola dello Stato non può essere pubblica: o è statale o non c'è. E non venite a dirmi che la colpa è di Berlusconi, perché mentite sapendo di mentire. Berlusconi segue D'alema e il suo indomabile delirio della corsa a centro.
Il centro? Nel nostro paese? Castagnetti, Dini, Mastella, Buttiglione. E via, siamo seri.
Franco Della Peruta - 14-10-2002
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Ho letto attentamente il tuo articolo e condivido pienamente. Non è la prima volta che lo penso: le cose che scrivi sono ricche di passione civile e fanno riflettere. Tu sei davvero "fuoriregistro": non badi a ciò che può piacere e ti sforzi di capire. Perché non torni sulla tua decisione di non insegnare?
Ciao.
Franco |