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I come Insegnante (che qualche volta scoppia)
Casa della cultura - 28-09-2002
"La scuola la fanno loro, non i ministri", diceva il titolo di un vecchio libro. Eppure in tempi di riforme e controriforme, di tutto si parla, fuorché di loro. Internet, Inglese, Impresa... e gli Insegnanti?
Per noi sono dei santi o dei fannulloni, per l'Ocse sono la categoria professionale a minor rischio di stress, eppure basta parlarci un po' insieme per capire che gli insegnanti sono quanto meno sconfortati e frustrati.
La ragione di questa distanza tra la percezione comune e la realtà dell'insegnamento sta forse nel fatto che la scuola è un universo a sé, chiuso su se stesso, e ogni singola aula lo è a sua volta.
Per la prima volta, uno studio italiano analizza scientificamente il disagio reale degli insegnanti, partendo dalle sue manifestazioni più drammatiche. Lo studio infatti si basa sulle domande di inabilità al lavoro presentate dai dipendenti pubblici - insegnanti, impiegati, operatori, sanitari - alla Commissione della ASL Città di Milano tra il 1992 e il 2001.
Dalla ricerca emerge che rispetto alle altre categorie, la possibilità che un insegnante sviluppi una patologia psichiatrica è da due a tre volte superiore. La domanda cui bisogna rispondere è come mai? e poi che cosa fare?
Si tratta di una questione delicata e complessa, che non coinvolge solo la scuola e i suoi attori, ma la società nel suo complesso, le istituzioni, i sindacati, l'opinone pubblica. La parola però va innanzitutto a loro.
In luglio, abbiamo presentato la ricerca ad un ristretto gruppo di insegnanti; ne è venuto fuori un dibattito appassionato e ricco di spunti su cui val la pena lavorare per inventare una scuola che gratificando l'insegnante, aiuti lo studente.
L'intenzione era di avere un primo feed-back sulla ricerca, sulle conseguenze che la sua diffusione potrebbe provocare, sul dibattito che potrebbe innestare. Per la prima volta interpellati direttamente sul loro disagio, faccia a faccia con una ricerca scientifica che ne rivela la diffusione e le punte di drammaticità, gli insegnanti hanno risposto in maniera appassionata: analizzando le cause e le possibili strategie per fronteggiare il problema.
Ecco una sintesi

Le cause

Gabriella: "Secondo me, bisogna partire da una questione ancora più spinosa: che tipo di persone sono quelle che decidono di fare l'insegnante? Perché, secondo me, se andiamo a sondare un po' quest'aspetto, ne scopriamo delle belle. Quanti sono quelli che hanno deciso di fare l'insegnante in qualche modo, anche inconsciamente, per far fronte a delle debolezze personali? quante sono le personalità fragili o narcisiste tra quelli che scelgono di fare l'insegnante?"

Marco: "Certo, la componente onirica è molto forte, ma è anche la società che carica la scuola, e l'insegnante, di aspettative enormi. Qualunque tipo di educazione - da quella sessuale a quella stradale, a quella alimentare - deve passare attraverso la scuola; qualunque problema sociale deve essere risolto dalla scuola. Ma come si fa?"

Isabella: "Per me, il problema è che la scuola è un sistema autoreferenziale. Serve un metro per valutare il lavoro fatto."

Gabriella: "Certo che è un sistema autoreferenziale, basta pensare che l'insegnante sta nella scuola da quando a 6 anni a quando ne ha 60. Se non è patologico tutto questo!…"

Francesco: "Un insegnante fa le stesse cose tutta la vita; per nessun altra categoria è così.

Marco: "È vero: l'unica realtà con cui ci si confronta è il nostro passato di studenti. Senza considerare che magari noi abbiamo fatto il liceo e inevitabilmente abbiamo una certa idea di che cos'è uno studente, di come si comporta uno studente, poi finisce che vai a insegnare in un professionale e non c'è nessuna corrispondenza tra lo studente che eri tu, che hai conservato nella memoria, e gli studenti che hai in classe".

Maria Luisa: "Noi insegnanti siamo bambini. Siamo rimasti bambini. Del resto, non abbiamo un solo momento di rapporto tra adulti, di confronto vero tra adulti. Con gli adolescenti ci confrontiamo tutti i giorni, ma quando con i nostri pari? E come?"

Donatella: "La scuola è un mondo, un mondo complesso e vario in cui ci può stare di tutto, e in cui noi, insegnanti, alle volte abbiamo la sensazione di poter reggere tutto. Non c'è allarmismo, c'è anzi molta accettazione e tolleranza; alle volte situazioni di disagio si sopportano per anni, come se fosse normale. Perché nella scuola, visto che ci sta di tutto, ci può stare anche quello. Forse anche perché è difficile riconoscere un limite, no? Quando è solo un po' di depressione, un disagio comune e condiviso e quando diventa patologia, malattia. In un ambiente più omogeneo non sarebbe così. Però, se devo dirlo, questo è anche il bello della scuola."

Silvia: "A me invece sembra che la cosa importante sia radicarsi in un terreno di normalità. Come insegnanti, abbiamo momenti in cui ci sentiamo degli dei e poi di colpo, crolliamo. Un totale squilibrio. Il guaio è che alle volte è l'intera scuola che delira, che subisce questi sbalzi."

Elena: "Il problema secondo me è più radicale: sta proprio nella specificità del nostro lavoro: i tempi educativi sono molto lunghi, mentre siamo costretti a lavorare su tempi brevi. Non vediamo il prodotto; non vediamo il risultato finale; certo, sì, ha risposto bene all'interrogazione, ma non è certo questo che ci interessa. Per questo, gli incontri con gli ex allievi possano essere un toccasana."

Sonia: "Dai, dai, dai, ma non hai il famoso feed-back, e quindi non riesci mai a fermarti, a correggere gli errori."

Silvia: "Il prodotto nella scuola non c'è, questo è il guaio. Nel privato c'è e qui no."

Isabella: "È il cambiamento continuo che crea stress. Dovremmo imparare a vivere il cambiamento in maniera positiva, il cambiamento deve essere la nostra risorsa. Per alcuni è più naturale, per altri meno, per questo deve esserci una formazione specifica. Perché fare l'insegnante significa fare spazio dentro di sé, ogni giorno, a più persone, a più studenti problematici."

Le soluzioni

Marta: "Insegnare vuol dire fare spazio, va bene, ma quando stai male di spazio non ce n'è per nessuno. Il tuo disagio non puoi tirarlo fuori, ma non puoi neanche stare zitto o chiedere silenzio. E poi, come ci comportiamo con i colleghi che hanno qualche problema? Per un po' li sosteniamo, dopo basta, altrimenti affondiamo anche noi."

Cristiana: "Chiediamoci un po' quanti insegnanti non dicono nulla e convivono con il problema, prendendo pastiglie per questo e per quello, trasformandosi in fumatori accaniti? Quando il problema è grave l'aiuto viene rifiutato, bisogna intervenire prima, quando si è in una fase di incubazione."

Marta: "La prima cosa è fare in modo che ci sia consapevolezza tra gli insegnanti del disagio che spesso vivono con vergogna, nascondendolo. Lo stereotipo esterno dell'insegnante che lavora poco e ha un sacco di mesi di vacanza pesa; come si fa ad ammettere a se stessi che invece si è stressati? Come si fa a dirlo agli altri? Il burnout deve essere socialmente riconosciuto per gli insegnanti, così come lo è per quelle categorie di professionisti che lavorano in situazioni limite, penso per esempio a chi assiste i malati terminali di cancro. Loro non si fanno problema di ammettere che sono in una situazione di grave stress. L'opinione pubblica lo accetta e riconosce la necessità di strumenti di intervento. Perché non deve essere così anche per noi? Però bisogna partire dalla consapevolezza.

Cristiana: "È vero: è un problema di legittimazione. Bisogna riconoscere il disagio, dichiararlo, perché il fenomeno è sommerso. Quanti di quelli che sono qui questa sera sono al limite? Quanti sono un pelino prima?"

Elena: "Dovrebbero estendere anche a noi gli strumenti che hanno i maestri di strada. Ogni quindici giorni un maestro di strada ha un incontro con uno psicologo. Per sé, non per parlare dei problemi dei ragazzi, per sé, per resistere un minuto di più dei ragazzi."

Isabella: "Il nodo sono i ragazzi. Non possiamo dimenticarci della dimensione giovanile. Oggi i ragazzi impongono, non chiedono, impongono una maggiore capacità di relazione e noi non siamo assolutamente preparati a questo. Ci deve essere competenza relazionale."

Donatella: "D'accordissimo. C'è una totale assenza di formazione nella gestione del gruppo, della classe!"

Elena: "Io credo che sia anche importante rompere con un sistema che si basa sulla solitudine dell'insegnante, questo per riuscire finalmente ad avere la percezione dell'ampiezza del progetto educativo che portiamo avanti. Questo può essere una risposta a quella esigenza di vedere il prodotto finito di cui parlavamo prima".

Maria Luisa: "Cominciamo dalle cose che si possono davvero fare, perché se ci mettiamo a immaginare test all'ingresso, in un'ottica di sostegno della personalità fragile, o se pensiamo a corsi di formazione e di autoaiuto, ci vogliono anni… Ripeto, cominciamo dalle cose che si possono fare: cambiare l'organizzazione del lavoro, tanto per cominciare. Le ore frontali non possono essere così tante. Per un'ora di lezione devo avere un'altra ora per la preparazione della lezione, o per la ricerca.

Silvia: "Concordo: è l'organizzazione che fa il buon insegnante. Abbiamo troppe riunioni che sono solo burocrazia."

Sonia: "Ci mettiamo impegno, inventiva, diamo vita a iniziative personali o accogliamo quelle dell'istituto, ma non ci si ferma mai a parlare del proprio stile d'insegnamento. Il Consiglio di classe è spesso solo lavoro burocratico, non abbiamo momenti di riflessione vera e aperta: come dicevamo prima, un confronto tra pari sulla sostanza del nostro lavoro."

Francesco: "Per me, il problema principale rimane quello della valutazione esterna del lavoro, del riconoscimento sociale, che significa anche uno stipendio adeguato, ma soprattutto considerazione."

La ricerca continua e e sarà
oggetto di dibattito il giorno 14/10 alle 21, presso la Casa della Cultura di Milano in via Borgogna 3 alla presenza di personalità del mondo della scuola, psichiatri, sindacalisti, istituzioni.
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 Silvio Restelli    - 30-09-2002
Che la ricerca sul disagio degli insegnanti sia la prima non lo metto in dubbio. Questo sta a significare quanto siano fondati sul nulla i discorsi sulla scuola che affollano negli ultimi mesi, soprattutto in alcuni periodi le cronache dei quotidiani, le sceneggiature dei film, le indagini radiotelevisive.
Che sia scientifica perché fondata sulle richieste fatte dagli stessi docenti di essere dichiarati inabili al lavoro con diritto alla pensione anticipata e maggiorata, lo potrebbe credere solo un marziano che non sappia nulla sugli arrangiamenti degli italiani per fare meno fatica ed essere pagati da Pantalone (leggi Stato). Mi permetto di dubitare fortemente sul fatto che tale fonte (le domande di inabilità al lavoro) sia indice di una realtà effettiva riguardante la salute mentale e non si riferisca invece al livello di furbizia deteriore, che - a partire dai vertici istituzionali e sociali come i Parlamentari, i magistrati, i Consiglieri regionali e i sindacalisti come Cofferati - si è impadronita della società italiana e si presenta come virtù nazionale.