La scuola di tutti
Movimento di cooperazione educativa - 23-09-2002
Ai recenti Stati Generali dell'Istruzione nel dicembre del 2001, Angela Nava, presidente del Coordinamento Genitori Democratici, è riuscita con poche frasi a fissare lo scenario, i valori, i paradigmi di una scuola "possibile" e "altra" da quella che l'attuale governo, sulla base di una delega e quindi senza la reale partecipazione dei soggetti e delle istituzioni coinvolte, intende realizzare.

"…La realtà è complessa, e siamo tentati di proteggere i nostri figli rinchiudendoli in nicchie con i vetri spessi perché il mondo arrivi attutito….(ma) non c'è scuola che possa essere un luogo senza tempo, che dimentichi la complessità della realtà, i suoi segni, i suoi simboli. La scuola non è l'unica agenzia di formazione, l'extrascuola condiziona e definisce anche i percorsi scolastici; ma essa è il luogo privilegiato della formazione perché l'unico che riconduca a unità e sistema quello che nel mondo si disperde in mille rivoli: il luogo, l'unico, della CITTADINANZA come condivisione di valori, come progetto che attraversa i saperi. La scuola pubblica con un surplus di valore: il genitore che affida ad essa il proprio figlio rinuncia implicitamente ad una sorta di individualismo proprietario; accetta invece il terreno della contaminazione.
Sa che i titolari della libertà garantita dalla costituzione e dallo stato laico non sono le famiglie, ma i FIGLI, che hanno, essi sì, il diritto ad avere il massimo delle opportunità formative, di critica e di confronto. La scuola per essere di tutti i bambini e le bambine, di tutti i ragazzi e le ragazze, è necessariamente il luogo della contaminazione, del confronto, della crescita attraverso le differenze. Alla sfida della società complessa non possiamo rispondere con meno scuola, ma con PIU' SCUOLA PER TUTTI."


L'IMPIANTO VALORIALE
morale privata, etica pubblica


La convivenza, la democrazia, la cittadinanza, l'etica pubblica sono estranee all' orizzonte prefigurato dalla riforma. La scuola viene astrattamente pensata come luogo della soddisfazione delle richieste delle famiglie, non come sede sociale in cui formare regole di vita.
Noi riteniamo che il mondo oggi abbia bisogno sempre più non solo di una morale privata, ma soprattutto dell'etica della responsabilità come etica pubblica, come responsabilità del proprio agire verso gli altri.
E' quindi sorprendente come nel testo della legge delega noto come riforma Moratti, si assista ad un passo indietro dell'impianto valoriale del sistema scolastico.
Il riferimento a una morale intimistica rivolta a rispondere solo a se stessi e non alla comunità di appartenenza, contraddice fortemente il bisogno di un segnale significativo da parte della scuola, di una presa d'atto di quanto sia necessaria oggi un'educazione alla cittadinanza democratica, intesa come etica pubblica.
Occorre precisare che il concetto di cittadinanza si contrappone a quello di sudditanza. Il suddito è stato (è ancora?) colui che per avere protezione e privilegi da chi detiene il potere è pronto a mettere a disposizione i suoi servigi. I privilegi sono i beni individuali, gli interessi personali che vengono anteposti al bene comune. Il concetto di bene comune deriva da un'ottica moderna e democratica che fa capo alla cittadinanza. Il bene comune non può essere dato dalla somma dei beni individuali, non è un dato ma un costrutto che deriva dalla maturità dei cittadini che per esso sono capaci di rinunciare tutti a qualcosa. Le diverse lobbies, di qualsiasi tipo siano, sono le costanti nemiche della diffusione del senso di cittadinanza rivolto al bene comune. Anche il 'familismo' all'italiana (cfr. A. Gambino) non aiuta ad aprire al bene comune. Oggi i comportamenti dei singoli spesso rispondono alla sola domanda: 'Mi conviene?' (ad es.: 'Mi "conviene" fermarmi dopo aver investito un pedone?'….)
I criteri della convenienza e del vantaggio personale, economico o non, sembrano essere i dis-valori imperanti oggi. Manca una riflessione significativa sull'etica pubblica e manca soprattutto una svolta forte da parte della scuola chiamata a trasmettere i principi basilari alla convivenza democratica. I valori condivisi della costituzione vanno resi realizzabili, disambiguando, tra l'altro, i messaggi a doppio vincolo, distinguendo il codice implicito, nascosto, rispetto a quello esplicito, precettistico.
Siamo troppo disponibili a venire a patti con il codice esplicito di etica pubblica che impone la non menzogna (cfr. A. Capitini) perché, quando si tratta di ricavare un guadagno per noi siamo pronti a inventare le menzogne più spudorate, autoassolvendoci immediatamente quando a venire truffata non è la cerchia dei familiari ma l'istituzione pubblica. Ci manca il senso dello Stato. L'etica privata viene raccomandata, quella pubblica non si sa nemmeno cosa sia. I bambini ci osservano e imparano.

Il Paese, l'Europa, il mondo intero oggi necessitano, alla luce dell'enorme ingiustizia sociale diffusa a livello globale, di fronte alle problematiche planetarie che minacciano la stessa sopravvivenza dell'uomo o comunque ne intaccano profondamente le condizioni di vita, di un'etica della responsabilità che non riguardi solo i rapporti umani, ma tutta la biosfera (cfr. Hans Jonas 'Il principio responsabilità' Einaudi, 1990). L'estremamente lontano e il futuro, grazie alla tecnologia, entrano nel nostro ambito d'azione; si assiste perciò a una estensione della responsabilità.
Si tratta di fenomeni il cui controllo sfugge ai poteri del singolo, ed è pertanto essenziale per la convivenza il fatto che essa si fondi su valori comuni, su un'etica pubblica, condivisa e condivisibile.
L'etica pubblica, il senso della cittadinanza che i documenti di precedenti ministeri consideravano la vision della scuola (formare l'uomo e il cittadino) non trovano posto nella riforma Moratti. Compare invece il termine 'spirituale', di cui gli estensori del testo di delega vanno molto fieri.
La pregnanza della convivenza democratica, dei valori costituzionali condivisi, del dialogo, della solidarietà, del bene comune, sembrano essersi dissolti nel nulla. Il ridurre alla dimensione spirituale e morale la dimensione etica, dei valori condivisi della convivenza, appiattisce la formazione dei cittadini su una dimensione individuale e privata, le possibili dimensioni di crescita e sviluppo dei soggetti alle scelte private delle famiglie di appartenenza. A noi sembra che il Presidente della Repubblica, nel richiamare la missione della scuola ai 'principi fondamentali scolpiti nella Costituzione', chiarisca che è cardine della convivenza proprio la possibilità di un sistema pubblico, la laicità della scuola, garanzia che 'ogni dogmatismo sia bandito', in quanto preclude all'individuo opportunità di confronto democratico, di comunicazione, di apertura.
'La scuola è la naturale sede nella quale i giovani, sviluppando quello che è già nella loro natura, vengono educati e preparati ad essere rispettosi della libertà degli altri, cioè ad essere pronti a rivendicare per gli altri quella libertà che riteniamo sia un nostro diritto.' (dal saluto in occasione dell'incontro del Presidente Ciampi con le associazioni professionali degli insegnanti, novembre 2001).
Clotilde Pontecorvo, in 'Bambini' (dicembre 2001): (occorre tutelare)…'la centralità della scuola pubblica
come sede educativa che può offrire a tutti un'educazione civile adeguata…solo lo spirito laico include per principio il pluralismo, e solo lo spirito laico può costituire uno spazio pubblico di confronto tra opzioni, fedi, ideologie…e di convivenza pluralistica' (tenendo conto anche) 'della trasformazione in atto delle società europee in senso multietnico, multiculturale e multireligioso'.
Nel testo di riforma non appare nemmeno l'ottica del futuro, oggi al centro dell'attenzione e della sensibilità mondiale. Invece il fulcro vero dell'educazione non può che riguardare il futuro (l'uso della
cittadinanza attiva, la salute del pianeta, la visione di un mondo migliore per tutti, le pari opportunità), in altri termini la rappresentazione di uno sviluppo alternativo tale da garantire le generazioni che verranno.
Leggiamo invece un riferimento allo 'sviluppo della coscienza storica (generico) e di appartenenza alla comunità locale e nazionale ed alla civiltà europea'. Di quali e quante mediazioni sia stata oggetto tale formula è facile immaginare. A noi preoccupa in particolare il richiamarsi a una 'comunità locale' che ci sembra coincidere con un'idea di piccola patria. Altro sarebbe un ragionamento sulle culture e le identità popolari, sui debiti, le contaminazioni, i meticciati, i dislivelli culturali ( in senso antropologico) che convivono dentro una stessa società, e che non consentono di considerare nessuna 'civiltà' , nessun livello culturale come totalmente omogeneo e 'puro'. E dire che E. Morin parla di necessità di 'insegnare la condizione umana-l'unità e la complessità dell'essere umano-, di insegnare l'identità di genere, di specie, culturale e l'identità planetaria!
Nessun riferimento al tema dell'intercultura, alla necessità di coniugare (non accatastare!), come dice A. Touraine, il valore freddo del diritto, che parla di uguaglianza, con il valore caldo dell'appartenenza, che parla di differenza. Non è, questa, una questione solo geografica o storica, bensì antropologica. Richiede la competenza e la consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista. Richiede inoltre l'assimilazione profonda dell'autenticità della solidarietà (E. Levinas: 'il volto dell'altro mi interpella').
Le diversità individuali, sociali e culturali vanno valorizzate (come afferma il primo articolo del testo della l. 148, ora art. 118 del D.L. n. 297/'92), non soltanto rispettate. Quindi vanno confrontate, interrogate, fatte interagire. Le diverse culture devono parlare fra loro, non vanno semplicemente rispettate, altrimenti il dialogo interculturale si trova ingessato in una falsa tolleranza.
L'altro rischio rispetto a tale falsa comprensione è quello del non incontro, per cui 'si andrà incontro a una decomposizione sociale e istituzionale in cui ciascun gruppo di appartenenza, o corporazione economica, etnica, religiosa, cercherà senza limiti di imporre il proprio interesse' (Pontecorvo, art. cit.).

UN PROGETTO DI SCUOLA PARTECIPATA

Una scuola possibile e sostenibile si prende cura dei luoghi di vita degli alunni: aule, laboratori, spazi di apprendimento e spazi di socialità, per un'ecologia del contesto scolastico.
Perché avvenga costruzione culturale sono necessari un contesto e un gruppo reale che funzionino da sedi di elaborazione e di negoziazione di significati (cfr. Bruner, 'La cultura dell'educazione', Feltrinelli, 1997).
Pure C. Freinet ha saputo mettere in evidenza l'importanza dei contesti sociali ed educativi ai fini dell'elaborazione culturale. Trasformare le istituzioni scolastiche in luoghi di vita richiede un percorso intenzionale: esse infatti non lo sono in partenza, ma lo possono diventare.
E' perciò importante la consapevolezza, da parte di tutti gli operatori che intervengono nel contesto formativo, del tipo di strutture e abilità sociali che si possono costruire pensando a un modello di organizzazione partecipata.
Solo partendo dall'elaborazione di norme condivise, dalla progettazione in gruppi paritari, si rende possibile l'emergere di processi di co-evoluzione per tutti i soggetti; elemento, questo, che costituisce il valore aggiunto della scuola.
Una scuola che co-costruisca le proprie istituzioni richiede una cultura forte di gestione delle relazioni, del disagio, dei conflitti, una sicurezza di punti di riferimento, un orizzonte di senso, ritualità e procedure condivise, una cura del contesto.
Questa attenzione ai processi di decisione, di ascolto, di condivisione di regole, non è un dato sempre presente nelle nostre scuole: spesso, infatti, vengono assunti come dati di fatto l'esistente, la norma implicita, l'ordine e la disciplina esteriore, lo stare al proprio posto, la comunicazione paradossale.
Tale dimensione pedagogica, a partire dallo spazio-aula, chiama in causa un impianto di scuola come organizzazione complessa, soggetto sociale propositivo, con una propria identità di istituto, che si riverbera sull'identità delle classi e dei gruppi che ad essa partecipano.
Lo stile cooperativo, il senso di appartenenza, la 'domesticità' dell'ambiente educativo, la pluralità di forme di convivenza e di apprendimento, possono così estendersi, attraverso forme di progettazione partecipata, a un'ipotesi di società. Si consente così alla scuola di intervenire in modo orientante e orientato e di essere luogo istituente di forme di vita socio-relazionale attente ai bisogni autentici degli esseri umani, così da favorire la costruzione di identità competenti.
Quello scolastico è un sistema 'a legame debole', costituito da elementi vivi, imprevedibili, non plasmabili; da interessi che dialetticamente si pongono e confliggono all'interno di tale struttura sociale; da un'utenza che si colloca fortemente, direttamente o indirettamente, all'interno del sistema dei rapporti il quale costituisce esso stesso mezzo e fine dell'organizzazione scolastica. E' qui l'inconciliabile differenza tra una struttura gestionale aziendale e una struttura gestionale scolastica: nella scuola i mezzi utilizzati, i processi avviati sul piano didattico, formativo, gestionale, sono il prodotto, il fine stesso dell'istituzione, di un sistema di rapporti nel quale la stessa istituzione, nel suo insieme, costituendosi come comunità, si sperimenta come laboratorio sociale. Un laboratorio sociale in cui le varie parti, studenti, famiglie, territorio, docenti, collaboratori scolastici, amministrativi, dirigenti, ricompongono una comunità che si riconosce in valori più alti, più generali, più forti degli interessi delle singole componenti, dei successi di parte e individuali.

IL LAVORO IN RETE
quale scuola, quale organizzazione partecipata


Noi pensiamo a una scuola come comunità che si prende cura dei problemi che sorgono al suo interno e se ne fa carico, e si costruisce attorno a nodi ( punti di incontro istituzionale fra soggetti, organismi,…)e attraverso legami (relazioni, collegamenti), ponendo attenzione ai processi di connessione e integrazione dei progetti e delle risorse in un'azione coordinata e finalizzata alla ricomposizione di visioni e attese, alla condivisione delle conoscenze e alla costruzione di significati comuni. La complessità delle domande e dei problemi richiede una pluralità di risorse ed una complementarietà di risposte, chiede il superamento dell'autoreferenzialità e delle separatezze e la costruzione di risposte originali e creative, piuttosto che la replica di modelli standardizzati.
La metafora della rete si presta a rappresentare l'immagine di una scuola che voglia superare la soglia dell'isolamento, che costruisca l'innovazione attraverso un processo di socializzazione, intesa come presa in carico, che espliciti l'intenzionalità educativa traducendola in direzionalità valoriale, programmatoria e organizzativa.
La scuola si presenta, ancora, come una rete a maglie larghe, con pochi legami, con troppi vuoti; la strada che abbiamo davanti è quella di annodare più fili, in un percorso magari discontinuo, poco lineare, con zone più fitte dove la rete si fa quasi ricamo, ma dove, comunque, non si perda mai il senso dell'intreccio dato dall'ordito (le relazioni sociali) e dalla trama (il contesto culturale).
La scuola dell'organizzazione partecipata richiede una messa in rete di risorse, competenze, servizi.


ORIENTAMENTO E MEDIAZIONE CULTURALE


Le conoscenze hanno base sociale: le competenze dei soggetti nascono dagli scambi, dalle relazioni che instaurano, dai legami che costruiscono nella classe, nella scuola, nel territorio.
Classe, scuola e territorio sono contenuti della rete di conoscenze e funzioni, 'nodi' di essa; in quanto tali sono punti di partenza e prodotti della costruzione delle relazioni sociali del soggetto. Un gruppo, elemento chiave del processo formativo, sia esso adulto (persone che insieme instaurano relazioni interpersonali e interprofessionali) , che diventa gruppo di lavoro nel momento in cui assume scelte comunicative, educative, organizzative e progettuali finalizzate allo stesso scopo, sia esso di pari/alunni-e,
si costituisce con la presa in carico del soggetto, con il riconoscimento del suo ruolo di interlocutore nel discorso; il che equivale a riconoscerlo soggetto di un discorso e reinventore di un nuovo discorso, elaborato sulla base del contenuto degli altri.
La rete è rete di rapporti sociali: una rete di rapporti sociali significativi costituisce la cultura di un soggetto.
L'agente di cambiamento è la scuola, il gruppo di lavoro ne diventa lo strumento.
La scuola opera mediazioni tra soggetti e tra soggetti e gruppi. Tale mediazione consente di ampliare i propri orizzonti culturali inserendovi punti di vista altrui.
Il gruppo permette la costruzione della cultura del soggetto, in quanto lo considera soggetto creativo e portatore di contributi originali per l'intero gruppo. Il soggetto assume consapevolezza dello 'stare al mondo' (stare con gli altri) scoprendo:
- che il dialogo e il confronto sono le basi sociali della conoscenza (consapevolezza del contesto, della forma sociale della costruzione del sapere);
- che il suo parlare è, per metà, un 'parlato' degli altri (consapevolezza dei 'debiti' culturali e degli intrecci);
- che non esiste 'oggettività' ma una forma di condivisione intersoggettiva di modelli interpretativi della realtà; si negozia, si confrontano livelli di comprensione e significazione diversi (consapevolezza epistemologica).
Se un soggetto lavora isolato e 'riproduce', non produce niente che il gruppo gli possa riconoscere come tale, come suo contributo originale, e quindi non può prendere coscienza dello 'stare al mondo' e di sé; non sperimenta le basi sociali della conoscenza, il dialogo e il confronto. E' una grave limitazione.

La centralità si sposta non sulla 'formazione spirituale e morale', ma su:
· soggetti, contesti, relazioni, metodologia di conduzione;
· una prospettiva formativa progettuale e non esecutiva;
· il gruppo come gruppo di lavoro;
· il passaggio da forme etero-organizzative, regolative, valutative, a forme auto-organizzative, regolative, valutative;
· l'identità 'plurale' costruita nel confronto sociale e di genere
· la 'normale' quotidianità fatta di scelte, atteggiamenti, comportamenti.


CULTURA DELLA COMPLESSITA' COME INTERPRETAZIONE DELLA REALTA'

Il progetto di riforma sancito dalla legge 30/2000 aveva sollevato resistenze da parte dei diversi ordini di scuola a mescolarsi, a uscire dalla concezione formativa connessa alla visione parziale del proprio segmento, a timidi accenni al ruolo unico docente.
Cambiamento e progettazione attivano creatività e inventiva, ma mobilitano anche paure, movimenti disgregativi, atteggiamenti di rifiuto. Non si tratta solo di timore della novità, ma di difficile trasformazione di atteggiamenti mentali consolidati. Se gli ordini di scuola e i cicli sono visti in successione lineare (5+3+5), è improbabile riuscire ad orizzontarsi in una loro scomposizione e ricomposizione, trovarvi collocazione, ridefinire la propria identità. La complessità richiede confronto e rimescolamento: questa è stata, accanto a limiti e a vari tipi di condizionamenti, l'intuizione profonda di chi pensava a un tessuto fortemente connesso, organico a forme di continuità ed unitarietà.
Per il ciclo settennale della scuola di base, che coniugava insieme scuola elementare e scuola secondaria di I° grado, sarebbe stato molto produttivo coniugare le competenze psicopedagogiche dei docenti della scuola elementare con le competenze disciplinari dei docenti della scuola secondaria. Tutti dovevano però accettare di essere messi di fronte ai loro reciproci limiti perché è dall'inadeguatezza che nasce il vero bisogno di formazione. Tutti dovevano essere invitati a pensare pensieri difficili….

Lo psichiatra Massimo Picozzi, a proposito degli adolescenti violenti che negli ultimi tempi hanno occupato tristemente le cronache dei giornali, ebbe a dire che né la famiglia né la scuola "insegnano oggi, ai ragazzi e alle ragazze, a pensare pensieri difficili".
Nella legge di riforma Moratti mancano proprio i pensieri difficili. Il modello organizzativo sotteso alla riforma rispecchia la cultura della linearità, una logica binaria, un etnocentrismo culturale.
Nella struttura dei cicli nulla cambia dal punto di vista di chi frequenterà i licei. L'innovazione, volendo chiamarla così, sta nella eventuale scelta precoce (anche a 12 anni e mezzo se l'iscrizione alla prima elementare avverrà a 5 anni e mezzo) della formazione professionale.
O istruzione o formazione professionale. Ecco la logica binaria in azione. Non fingiamo che possano funzionare le "passerelle" dalla formazione all'istruzione: se mai funzioneranno, avallate dalla scansione biennale delle eventuali bocciature, le passerelle dall'istruzione alla formazione!
Dando l'impressione che poco del vecchio sistema è modificato, lasciandone inalterata però solo l'impalcatura, la proposta denota una grande paura di pensare complesso, e tenta di captare la benevolenza di quei docenti che pensano che quando un allievo non apprende la responsabilità sia sempre e solo di quest'ultimo.
La cultura della complessità contraddistingue i tempi presenti e quindi aiuta a rendere più plausibili-probabili- alcune ipotesi interpretative del mondo e del suo futuro (cfr. E. Cresson, libro bianco, in cui si parla delle competenze ermeneutiche; H. Gadamer,…).
Tale cultura ospita al suo interno la multilogica e la multidimensionalità, richiedendo pertanto costrutti mentali di rielaborazione e di coniugazione più che di separazione e di esclusione; essa mette insieme, per una sintesi, punti di vista diversi.
Una cultura della complessità si è trovata a fare i conti con una cultura prevalente della linearità dello sviluppo dei soggetti, con un pensiero dogmatico e dicotomico, con il tentativo di semplificare, scambiando la complessità per complicazione.
La riforma della scuola era urgente non solo per la richiesta di adeguare il sistema degli anni di scolarizzazione a quello degli altri paesi europei, ma soprattutto per dare a questa istituzione, che denotava forti segnali di invecchiamento e di scadimento, una sferzata di vitalità, un orizzonte di senso che soltanto una rinnovata comunità di operatori pedagogici, di ricercatori, che nel confronto reciproco, alla luce delle esigenze attuali, costruiscano delle buone pratiche, poteva garantire. La ricognizione sui saperi essenziali per una scuola del terzo millennio rispondeva a questo bisogno di rinnovamento.
Adottare/adattarsi alla complessità richiede di scandagliare le proprie motivazioni, trovando le radici autentiche della propria professionalità nell'accettazione, anzitutto, dei propri limiti, delle proprie parzialità, nel dubbio.
A fronte di tale processo, che richiede di 'pensare pensieri difficili', è più semplice e pacificante rifugiarsi nell'elementarismo, nella banalità, nella semplificazione. Ci si trincera nella certezza che, se tutto rimane separato, non commisto, tutto funziona come prima; tale è il segnale subliminale profondo che la riforma lancia.
La scuola, così, invece di divenire luogo in cui si sperimentano forme diverse di pensiero, originate dall'esperienza, dall'affettività, dal riconoscimento e dalla valorizzazione delle emozioni, in cui l'individuo si strutturi proprio attraverso la dimensione emotiva e affettiva della costruzione del pensiero, sede appropriata per la comprensione e l'interpretazione, rimane un luogo 'istruttivo', in cui viene enfatizzato il prodotto a scapito del processo.
Eppure da più parti si esprime l'esigenza che nella scuola si coltivino il pensiero, l'immaginazione, la creatività, l'emozione.
'Lo sviluppo attuale delle scienze cognitive sembra convergere verso un'immagine della conoscenza non più come riproduzione di una qualche "realtà" a essa esterna, ma come produzione autonoma, continua e su tutti i livelli di se stessa. Il mutamento fondamentale di paradigma è nel configurare la conoscenza come "autopoiesi" e il conoscere come inseparabile dal conoscersi.' (da A.A.V.V. 'I fili e i nodi dell'educazione', Firenze, La Nuova Italia, 1999, pag. 230).
Occorrono, come sostiene R. Iosa, cicli lunghi e lenti per fornire a tutti/e basi solide e comuni e possibilità di gustare, spaziare, sviluppare curiosità. Lo spezzettamento in anni e cicli brevi produrrà ricorso alla velocità e omologazione, ed espulsione di chi non sta al passo; il prevalere del 'cosa', dei contenuti, sul 'come' si apprende, sugli stili e le strategie personali.
Gli orientamenti attuali di psicologia dello sviluppo tendono a considerare in termini di continuità lo sviluppo cognitivo, in senso lato, di bambini e bambine dai 3 agli 8 anni (e oltre). La scuola dell'infanzia e il primo biennio della scuola di base quindi si concentrano su un terreno di sviluppo comune, servendosi degli strumenti dell'alfabetizzazione primaria per portare a leggere in termini narrativi e quantitativi i fenomeni legati al sé e ai saperi del contesto circostante. Bambini e bambine fin dai tre anni si interrogano e cercano risposte sui fenomeni del mondo naturale, ma anche su quelli socio-affettivi: il loro stesso articolare domande sta già dentro un campo di sapere. Le ipotesi di problem-solving non sono solo frutto della fantasia o di un pensiero "magico", ma segni di un percorso che va incontro alla realtà, che interpreta e costruisce il mondo. Sono evidenti i guasti che si determinano negli apprendimenti quando si pensa che prima dei sei anni non sia avvenuto nulla sul piano della concettualizzazione.
La pratica didattica nella scuola dell'infanzia e nell'attuale primo ciclo elementare consente a bambini e bambine di operare e riflettere sia su aspetti concreti dell'esperienza che su quelli astratti/concettuali propri di ogni percorso di conoscenza, naturalmente in relazione ai campi di esperienza affrontati e con i quali via via essi si familiarizzano. In tale percorso dal concreto all'astratto è fondamentale:
· il ruolo dell'insegnante 'regista' che predispone le condizioni di passaggio dal sapere così inteso al sapere disciplinare;
· il rapporto fra la costruzione di tale sapere e le strutture sociali in cui essa avviene, quindi l'attenzione al contesto educativo;
· il principio dell'interazione fra pari, lo scambio come modalità conoscitiva e socializzazione dell'intelligenza, terreni questi di sviluppo dell'identità, di consapevolezza, di competenza.
Analogo discorso potrebbe esser fatto per il periodo 8-14 anni, favorendo le condizioni per uno sviluppo armonico e unitario, non privo certo di salti di crisi e di passaggi, ma assistito da una forte intenzionalità educativa tesa alla valorizzazione, al successo, all'autonomia conoscitiva.
Erano tali ragioni, la ricerca cioè di tracciare dei percorsi di interezza e di valorizzazione per tutti e per tutte, che portavano a pensare a un'aggregazione di anni e cicli ampia e distesa nel tempo.

ANTICIPAZIONE, VALUTAZIONE E DOPPIO CANALE

La canalizzazione precoce che indirizza dall'età di tredici anni agli studi superiori o al mondo del lavoro, unita alla riduzione di ben trecento ore precedentemente obbligatorie, compromette l'unitarietà della formazione comune a tutti i cittadini, che è finalità fondamentale di un sistema educativo di democrazia partecipata. Si vengono a creare sistemi formativi di serie A e di serie B, con una netta separazione tra cultura 'speculativa' e cultura 'operativa', che si tradurrà in riduzionismi, settorialità e impoverimento per entrambe. Il principio di dare di più a chi ha di meno viene capovolto nel suo opposto, e alla scuola viene restituito di fatto il compito di sanzionare -e perfino di aggravare- i divari sociali e culturali di partenza, che essa aveva un tempo.
Il carattere arbitrariamente selettivo che rischia di assumere il sistema scolastico è evidente, nelle modalità di valutazione degli alunni/e e delle scuole, con l'equiparazione dei debiti relativi al profitto con quelli relativi alla 'condotta'; con la possibilità di bocciare fin dai primi anni delle elementari, non tenendo in conto neppure il percorso di valorizzazione delle possibilità di ognuno che tale scuola ha compiuto fin dagli anni '70; con la confusione tra valutazione del profitto degli studenti e valutazione del funzionamento dell'istituto. Si ravvisa una sopravvalutazione delle misurazioni 'oggettive', senza però riferimenti a una valutazione formativa, che attribuisce valore ad ogni specificità e differenza (dare valore è il senso più alto di 'valutare'), a un'autovalutazione che si traduca in forme di apprendimento cooperativo e di metacognizione e consapevolezza delle proprie strategie personali di elaborazione, che non sono conseguibili con un'ottica puramente sommativa e lineare… (cfr. documento ADI/SD)
Ne deriverà un inevitabile deterioramento della qualità delle relazioni tra insegnanti e alunni/e, sulla quale soltanto si può fondare il buon esito dei processi di apprendimento-insegnamento. In sostanza il progetto sotteso emerge palesemente: si punta a direzionare da subito il futuro personale, in un modello di scuola che, fin dai primi anni, in luogo di orientare e valorizzare, pre-direziona le scelte e i curricoli personali, ingannando famiglie e soggetti sociali con seduzioni di lavoro futuro e di emersione delle eccellenze. Da un modello di questo tipo usciranno penalizzati e non sufficientemente presi in carico non solo i cosiddetti 'border-lines', ma tutti i ragazzi/e a cui mancherà il confronto con la diversità, che crea arricchimento e spessore della propria immagine identitaria, e che consente di acquisire le abilità prosociali, indispensabili nella vita adulta. Ai ragazzi/e verranno a mancare il confronto e la discussione utili a connettere esperienze e conoscenza, affettività, fantasia, creatività e sapere.
Discriminare precocemente, pertanto, se da un lato toglie opportunità di crescita culturale per i più deboli, dall'altro riduce gli spazi di confronto e di elaborazione per tutti i ragazzi coinvolti in un gruppo classe, determinando un impoverimento non solo di relazioni umane ma di formazione culturale.
Una valutazione come 'lettura dell'esperienza' (cfr. F. Tonucci, 1977) e ricerca delle condizioni di successo più che sancire i fallimenti e gli errori (cfr. Freinet) richiede di passare da una lettura del disagio e dei problemi unicamente in termini di emergenza, con la conseguente richiesta di soluzioni di contenimento, ad una lettura dei bisogni formativi e delle domande sociali, assunte come base di scelte educative e strutturate in percorsi coerenti sul piano metodologico, organizzativo e culturale.
Le diversità infatti, quando rischiano di diventare disuguaglianze, vanno prese in carico dalla scuola, ma la logica di valutazione sommativa che permea l'intero testo non lascia presagire tale cura. Solo la valutazione formativa potrebbe ovviare al rischio di tornare, da una scuola di e per e con tutti, a una scuola per i più dotati. Dal 1977 (l. 517) la valutazione formativa richiede ai docenti una seria professionalità, perché è attraverso l'autoregolazione delle loro pratiche didattiche, attraverso un ventaglio di diverse possibilità metodologiche, che si può intervenire per migliorare la qualità degli apprendimenti.
In altri termini la valutazione formativa coincide con l'autovalutazione da parte dei docenti, invitandoli a riflettere sull'efficacia delle loro pratiche che devono essere de-privatizzate cosicché attorno ad esse si costruisca un confronto produttivo.
Tale percorso consentirebbe di uscire dalla provvisorietà e precarietà della logica dell'emergenza (= non mi appartiene-non so cosa fare-non ho risorse), per approdare a una logica di permanenza (=mi prendo del tempo-mi prendo cura-mi riguarda, i care).
E' su questo piano metodologico e progettuale che si basa un progetto di scuola orientante, fondato sul cercare e sul leggere tracce, sull'individuare indicatori di direzione, strumenti di pianificazione e controllo, sul costruire memoria e documentazione , sulle strutture antropologiche e culturali della personalità in sviluppo da valutare.

La scuola che vogliamo, 'più scuola per tutti/e', si rivolge in modo particolare ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze, alle famiglie, alla committenza sociale, per una presa in carico delle situazioni di forte disorientamento, di 'normale disagio', di disconferma e non riconoscimento, che la scuola (se è vero che la scuola è di tutta la collettività) non può sanzionare ed escludere ulteriormente da processi di integrazione sociale. Essa agisce in un percorso di ri-conoscimento reciproco dell'identità e delle aspettative, con attenzione e cura delle relazioni e della comunicazione, nell'esercizio del diritto di accesso, di informazione, di parola, di ascolto, di formazione, di appartenenza/cittadinanza.
La ricerca su stili e strategie di apprendimento, sulle identità competenti, sulla personalizzazione dei percorsi educativi, che ha attraversato l'intero secolo XX, viene stravolta da una predisposizione di due percorsi separati, uno di 'eccellenza', l'altro di omogeneizzazione verso il basso, di serialità.
Parimenti le ricerche sull'apprendistato cognitivo come metodo per migliorare il coinvolgimento e la partecipazione di docenti e discenti, sottolineano come tutta la scuola, di ogni ordine e grado, può essere vitalizzata da tali strategie di apprendimento personalizzato e contestuale.
A.M. Ajello, C. Pontecorvo, C. Zucchermaglio nelle loro opere sui contesti di apprendimento fanno riferimento a tali pratiche.
Nel documento dei 'saggi' del 1997 si sottolineavano l'importanza e l'auspicabilità della coniugazione scuola- lavoro in modo che tutti gli studenti possano avvicinarsi all'etica del lavoro, intendendo con ciò non solo le informazioni di valenza mercantilistica. Bisogna però porre con chiarezza dei confini fra quello che è progetto formativo e quello che è ossequio a linee di politica scolastica- subordinata a una politica economica (cfr. P. Bourdieu) elaborata dalle grandi centrali decisionali che poco hanno a che vedere con la scuola.
Appartiene all'impresa, in quanto tale, la standardizzazione delle procedure, la definizione degli esiti come 'soglie di accettabilità del prodotto'. Ma il prodotto finale (le 'teste ben fatte' di Morin; al plurale…) non può corrispondere a criteri di serialità. Questo è l'elemento dirimente tra la cultura organizzativa propria della scuola e quella dell'azienda. Per l'azienda, che guarda al mercato, il massimo di serialità è obiettivo-guida e criterio di produttività. Per l'impresa educativa, che deve dar conto di un mandato e di una funzione sociale sanciti dalla Costituzione, il massimo di individuazione è l'idea regolativa che fonda e giustifica ogni pianificazione; è il criterio di valutazione della sua funzionalità.
La variante di un prodotto industriale è un difetto: la variante di un esito educativo è un successo. Qualcuno dovrà avvertire il ministro Moratti che 'pubblica' istruzione vuol dire anche questo.

Marzo 2002

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