Nell'immaginario collettivo il Sessantotto richiama situazioni, luoghi e momenti ormai definiti: sullo sfondo giovani in piazza che manifestano, poi, a seconda dei casi, Torino e Palazzo Campana, Milano e la Statale, Roma e Valle Giulia. Napoli e, più in generale, il Sud, sprofondati in un tempo immobile e sonnolento, risultano assenti e non trovano posto in quel cruciale processo storico. Col suo
'68 Napoletano, edito da Angelica nell'ottobre del 2008, Carmen Pellegrino non si contenta di colmare una lacuna storiografica, ma mette in discussione lo stereotipo della città di plebe e, affrontando il tema in maniera seria e scientificamente corretta, si colloca fuori dal coro e "
guasta" il quadro revisionista ormai dominante. Il saggio della giovane studiosa, non indulge alle mode del momento, legate alla polemica politica e alla strumentale contrapposizione tra un "processo al Sessantotto" che ha avuto in Marcello Veneziani il suo discutibile corifeo, e la memoria agiografica dei "
reduci" che, più passa tempo, più si appuntano medaglie. Al suo primo lavoro, la Pellegrino si è sottratta così a quella sorta di "
eccesso di memoria" cui corrisponde la povertà della ricerca, sulla quale non a caso ha richiamato l'attenzione uno studioso del valore di Giovanni De Luna. Il lavoro, al contrario, si fa apprezzare per l'originalità dell'impianto, che smentisce la formula, tutta interna a logiche politiche, di un Sessantotto ridotto a pura e semplice violenza politica (p. 164) molto caro, per fare dei nomi, a Simona Colarizi e Barbara Armani, che tendono a svalutare o criminalizzare il conflitto.
Il saggio, rigoroso ma di facile lettura, - esemplare in tal senso il capitolo dedicato alla splendida figura di Sergio Piro (pp. 193-199) - privilegia, con felice scelta metodologica, i fatti rispetto ai protagonisti e, dopo una breve panoramica sugli anni Sessanta, esamina gli avvenimenti dal '68 alla fine del '69 e lì ferma la sua ricostruzione perché, osserva giustamente la studiosa, a quella data tramonta l'ipotesi più autentica del Sessantotto, quella "
spontaneista", da cui derivano le sue genuine istanze di cambiamento, che si rivolgevano agli istituti "
classici" della repressione di Stato: l'esercito, la magistratura, il carcere, nel quale, senza che probabilmente i giovani del Sessantotto ne avessero consapevolezza, si erano già mossi nella seconda metà dell'Ottocento gli anarchici, e - fenomeno del tutto nuovo - i manicomi. Sin dalle prime pagine del lavoro, il movimento napoletano assume i caratteri d'una contestazione radicale e a tutto campo, che mette in discussione gli assi portanti della realtà politica e sociale del Paese. Quando comincia ad analizzare le strutture universitarie, scrive la Pellegrino, "
lo studente scende in lotta soprattutto perché questo è il suo modo di protestare contro un sistema da cui si sente sopraffatto" (p. 20). Non protesta studentesca, quindi, ma contestazione globale che catalizza interessi, accelera processi, insegue l'unione col mondo operaio e contadino ma, in una città che non è solo operaia, si rivolge a tutte le aree del malessere. Una ricerca di contatti che vanno al di là del mondo operaio si registra ovunque nel Paese, ma a Napoli il fenomeno è più ampio e diventa, per certi versi, una caratteristica peculiare del movimento.
La città è stretta tra l'azione di gruppi di potere che le impediscono di crescere a misura d'uomo e gli oltraggi dell'incuria e della speculazione. Una stretta che la soffoca, mentre la repressione dello Stato non consente spazi al dissenso politico. Nel 1974, quando una legge riconoscerà la condizione di "perseguitato politico", nel paese di conteranno 15.053 lavoratori, di cui 2000 donne, processati, licenziati, finiti in galera per ragioni politiche dal 1948 al 1966. Per non dire delle 65 uccise durante manifestazioni politiche e sindacali dalla forza pubblica dal 1948 al 1952. Peggio che col fascismo. E all'alba del Sessantotto, a dicembre del 1967, ad Avola, si uccide ancora. Sono numeri che i giovani non possono conoscere, ma il clima repressivo è nelle cose e riempie di sé la protesta degli studenti che a Napoli già nel 1967 occupano più volte l'università per contestare la riforma Gui che, osserva Rossana Rossanda, non tocca nella sostanza "
l'assetto universitario del 1933, che a sua volta è - salvo per i rapporti con l'esecutivo - quello del 1923" (p. 50). Ma chi sono questi giovani? Nella risposta della Pellegrino si ritrovano alcuni elementi di fondo del Sessantotto napoletano: un dato anagrafico - sono nati tutti nel dopoguerra - e dati geopolitici: la provenienza geografica e l'estrazione sociale. Da tempo ormai l'università tende a farsi realtà di massa e diventa, per ampi strati di ceti subalterni, una sorta di riscatto per le generazioni precedenti. A Napoli, nel Sessantotto, 35.000 studenti universitari provengono dai più disparati centri della Campania e di altre regioni meridionali (p. 63). Le difficoltà di integrarsi in una città che non ha strutture di accoglienza si scontrano ben presto con l'aspirazione degli "
immigrati" ad una università che non sia estranea al territorio e alla realtà sociale e con la loro enorme attenzione per ciò che accade nel mondo (pp. 52-53). Nella società di quegli anni, chiusa e stretta in schemi rigidamente repressivi, il cozzo è fatale e non riguarda solo lo riforma Gui. Le ragioni della lotta contro l'autoritarismo nell'università coincidono, infatti, con quelle che scatenano lo scontro a scuola, in famiglia e nelle fabbriche, sicché il passaggio dai temi della condizione personale a quelli di carattere generale è automatico e inevitabile. Si lotta contemporaneamente per l'università e la casa, si sta con gli operai e i senzatetto, si attacca l'imperialismo, si giunge ai temi della guerra e del razzismo. La richiesta di cambiamento è profonda e conduce rapidamente a uno scontro generalizzato con una società gerarchizzata e compartimentata, in cui ognuno "deve stare al suo posto". In questo contesto, anche le ragioni dello scontro col PCI divertano chiare: il partito, osserva la Pellegrino, è "ormai entrato nel sistema", è attentissimo agli equilibri internazionali - quelli con l'Occidente non meno di quelli con l'Oriente sovietico - e conserva una struttura fortemente gerarchica. Letto così, il '68 napoletano non è diverso da quello di Pisa, Trento, Venezia, Pavia, e uguale è la successione degli eventi: legge 2314, assemblee, occupazione, controcorsi, sperimentazioni didattiche, sgomberi, cortei. Ma coi cortei si "va in piazza".
Se la lotta nell'università è "
riformista" - nasce contro una riforma e ne chiede una migliore - fuori dell'università all'ordine del giorno non è il sistema formativo, ma la rottura con gli schemi gerarchici che regolano i rapporti tra individui e classi sociali; fuori dall'università le note dominanti sono il conflitto e la spontaneità che produce una capacità d'iniziativa autonoma, in grado di annichilire le organizzazioni politiche e sindacali e di ampliare l'orizzonte: i privilegi di classe, le lotte operaie, quelle dei senzatetto, il Vietnam, la pace. L'intuizione spontanea della necessità di saldare le diverse realtà protagoniste dello scontro sociale produce a quel punto un salto di qualità della protesta, che tende con sempre maggior frequenza a proiettarsi fuori dell'università. In piazza, però, ci sono le forze dell'ordine e la repressione, che accendono i riflettori sul tema della democrazia, per farne ben presto, come intuisce lucidamente la Pellegrino, motivo di una seria rottura con le forze della sinistra tradizionale. Alla prova del nove, infatti, quando la polizia si scatena brutalmente, contendendo la piazza al dissenso, la divaricazione diventa sempre più acuta. Ai partiti "storici" della sinistra e all'idea per così dire "classica" di democrazia intesa come dialogo che "include" anche l'
altro, il movimento oppone la convinzione che la democrazia sia solo "maschera dell'autoritarismo", strumento di depotenziamento e di logoramento della protesta e del conflitto, da cui difendersi con una "
crescita dal basso" che accomuni gli studenti, gli operai e quei sottoproletari che si organizzano in carcere, nei "
quartieri pericolosi" e nelle lotte per la sopravvivenza. Non si salva nessuno: né il PSI, che è nel governo, né il PCI coi suoi rapporti con Mosca.
Guidati da una ideologia di rottura, trasgressiva e dirompente, molti giovani rompono davvero con la loro estrazione sociale e dalla rottura nascono un intreccio inscindibile tra sfera privata e dimensione pubblica e un concetto nuovo di "inclusione", che non deriva dal dialogo ma dalla contrapposizione. Includere diventa così tenere assieme tutte le anime del dissenso per abbattere gli steccati e le separatezze della società borghese: studenti con studenti, operai con operai e via su questa linea. Una "inclusione" che non tiene conto delle regole borghesi e costituisce di per sé un elemento di rottura in una società che, mummificata la Resistenza, è tornata ai vecchi privilegi di classe, alla divisione tra borghesi, operai e sottoproletari in una città in cui persino il reticolo delle vie e dei quartieri esprime "gerarchie". I 35.000 giovani studenti non napoletani condannati a una nuova inaccettabile esclusione, che li spinge a tornare ogni volta che possono nei luoghi di provenienza del Cilento, della Calabria e del Sud Continentale, reagiscono anzitutto all'obbligo di "stare al proprio posto", al vecchio principio gerarchico fascista passato pari pari nelle repubblica col suo significato preciso di strumento di controllo sociale e di repressione. E' vero, presto la cappa dell'ideologia diventa pesante e genera confusione - la famiglia non è l'università e l'università non è la fabbrica - tuttavia, dalla radicalità delle posizioni nascono momenti indiscutibilmente alti e capaci di mettere in moto processi di cambiamento reali. Mentre il pendolarismo degli studenti porta i temi della protesta nell'intero Sud e getta i semi di nuove lotte in terre di tradizionale "rassegnazione", nelle periferie, disoccupati, ambulanti, "marginali" storicamente lontani dalla politica saltano barriere, superano diffidenze, gelosie e differenze di genere, intessono rapporti di nuova solidarietà e nei cortei, assieme a studenti e operai, si vedono sfilare popolane e scugnizzi.
Come ogni fenomeno, anche il Sessantotto finisce. Carmen Pellegrino fissa una data conclusiva: il 12 dicembre del 1969 con l'attentato di Piazza Fontana. Dopo, sostiene, ed è difficle non essere d'accordo, dopo è un'altra storia.
Servì a qualcosa? Il saggio offre dati concreti su cui riflettere. Il voto nei quartieri un tempo monarchici, fascisti e clericali, che nel '46 si era espresso contro la Repubblica, nel '74 è capovolto: la gente vota in massa il divorzio. Il sindacato profondamente mutato, lo Statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia e le nuove condizioni della donna sono figli delle lotte di quegli anni. E non è evidentemente un caso se la destra spara oggi a zero proprio sul Sessantotto: cancellarne i principi, significa tornare ad una società chiusa e nuovamente stretta tra repressione e gerarchizzazione.