Esistono insegnanti di destra?
Pare di si: i dati di fatto lo confermano.
Ma io, un po' provocatoriamente, voglio dimostrare che non possono esistere; e che quelli censiti, o non sono insegnanti convinti o non sono propriamente di destra, anche se si sentono tali.
Per farlo, riapro il consunto ma non inutile gioco del "che cos'è la destra, che cos'è la sinistra": procedo cioè per semplificazioni, un po' estremizzando, in modo da essere forse categorico ma schematico e chiaro.
Chi vuole mi segua.
Da un punto di vista puramente "tecnico" chiunque può essere un insegnante capace: basta che conosca la materia che insegna, i metodi e le didattiche, i principali stili cognitivi dei suoi alunni e poco altro.
Ma per essere autenticamente insegnanti - lo dico senza cedere alla vecchia propensione retorica che pateticamente assimilava l'educatore al missionario - non sono sufficienti le competenze raffinate e le strategie sofisticate. Ci vuole qualcosa d'altro: qualcosa che, a prima vista, potrà apparire estrinseco al mestiere, scollegato dalla professione, non pertinente.
Occorre prima di tutto e sopra tutto la sin-patia (scusate il trattino), e cioè quell'atteggiamento mentale che consente di avvicinare il discente, di entrare nel suo universo emotivo con partecipazione (non solo di conoscerlo con fredda empatia), di capire e comprendere i suoi meccanismi motivazionali, di provare per lui compassione (uso il termine secondo l'accezione buddhista o secondo quella cristiana, della carità, o secondo quella marxiana della solidarietà, sfrondato dai significati negativi che gli assegna Kant o da quelli ignobili che gli attribuisce Nietzsche).
L'insegnante - per usare una distinzione scalfariana - deve in sostanza appartenere alla classe dei debitori e considerarsi in obbligo verso gli alunni, non a quella dei creditori che pretendono dagli alunni impegno e risultati, considerando un affronto personale l'indolenza e l'ignoranza; deve saper distillare da ognuno il meglio (e-ducere) e offrire strumenti culturali, non limitarsi ad instillare il sapere, ad appiccicare nozioni, ad imbottigliare informazioni.
Ma la sin-patia non basta.
La professionalità in questo strano mestiere implica anche l'adesione ad alcuni particolari "valori" (scusate le virgolette) che, a ben vedere, sono gli stessi a cui si ispira l'universo variegato (emarginato) della sinistra, gli stessi da cui rifugge esplicitamente la cultura oggi dominante di destra: valori ben sintetizzati dall'articolo 3 della Costituzione che, dopo aver affermato che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali", assegna alla Repubblica (noi aggiungiamo alla scuola) il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (noi aggiungiamo culturale), che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Senza questi convincimenti l'insegnante, in particolare quello statale, non potrà realizzare i compiti assegnati dalla Repubblica (non dal governo) e indicati dalla Costituzione.
Senza questa persuasione l'insegnante-educatore si troverà ad agire in modo incoerente e quindi inefficace. E si stancherà presto, ripiegherà sulla routine, demotivato e frustrato. Si sa che l'azione educativa richiede una particolare energia che "scaturisce" da dentro ed è proporzionata al grado di convinzione che la regge; si sa che l'azione educativa richiede una "sollecitudine" senza la quale le relazioni si disgregano e i banchi con i loro occupanti vanno alla deriva.
Chi pretende di aiutare gli altri a crescere:
- deve credere nella giustizia sociale e desiderare l'uguaglianza degli esiti, non - come i liberalconservatori - credere che basti garantire l'uguaglianza delle opportunità;
- deve intervenire per riequilibrare le condizioni e le sorti, non consentire ed accettare il darwinismo culturale per cui sopravvive chi può e prevale chi è capace;
- deve dare di più a chi ha di meno e non esaltare la produttività dei migliori;
- deve comprendere, non esprimere insofferenza per gli insicuri;
- deve - per usare una parafrasi presa a prestito dall'economia - essere keynesiano e valorizzare la domanda, non thatcheriano ed enfatizzare la potenza automatica dell'offerta credendo (o facendo credere) che gli individui (o le classi sociali, o il mercato) sappiano autoregolarsi;
- deve credere, in politica, che la spesa per l'istruzione è un investimento per il futuro e non una spesa inutile da contenere;
- deve credere che in un paese tutti sono protagonisti nella ricerca del bene comune e tutti sono fruitori dei vantaggi che ne derivano, non sopravvivere (vivere sopra) con cinica indifferenza in una società in cui il numero degli emarginati va crescendo;
- deve credere nell'etica che direziona il progresso, non nel progresso che ignora l'etica o la aggiusta a sua misura.
Non vi sembra che questo profilo corrisponda a quello di chi, nella sostanza, viene definito un democratico?