Scuola 1954
Omero Sala - 07-03-2009
L'interno dell'edificio era squallido e austero.
Della schematica magnificenza dell'esterno ricalcava solo la dimensione: le aule avevano soffitti altissimi, finestre lunghe, porte imponenti, lavagne enormi e pesantissime, stufe torreggianti, cattedre che dall'alto di predelle tribunizie incombevano come pulpiti sui banchi allineati.
Le nostre sedie erano agganciate in un blocco inscindibile al banco, il cui ripiano inclinato faceva da coperchio ad un contenitore nel quale tenevamo libri, quaderni, astucci di legno, indumenti, merende. Tutti noi sfidavano la sorte nascondendovi i più disparati oggetti: temperini, fionde, biglie, figurine, elastici, spilli, chiodi e bulloni. Articoli rigorosamente vietati a scuola e quindi causa di inesorabili requisizioni e di sadiche punizioni.
Il ripiano-sportello era incardinato in alto ad una parte fissa che aveva una scanalatura per la penna e per la matita e un foro per il calamaio.
L'inchiostro era conservato in un bottiglione sempre imbrattato, chiuso a chiave nell'armadio: solo il maestro aveva il potere, esclusivo e assoluto, di ordinarne la parsimoniosa distribuzione. Ogni mattina il bidello ne versava una misurata quantità in tutti i calamai; ogni pomeriggio l'inchiostro avanzato veniva recuperato e riversato nel bottiglione, per evitare che seccasse in fondo ai calamai o che si depositasse in feccia melmosa e inservibile.
Nel giorno del "dettato", che era fisso nel rigido orario settimanale delle lezioni, la dose di inchiostro veniva raddoppiata e la si consumava tutta nell'interminabile esercizio di lenta scrittura, incerta nel tratto, titubante nell'ortografia, irregolare nella dimensione, incostante nella inclinazione. Le parole lunghe iniziavano con lettere robuste, piene e nere come la pece per il pennino appena inzuppato, e impallidivano gradualmente col defluire dell'inchiostro per terminare in un graffio quasi invisibile.
I pennini - a forma di foglia panciuta, di torre antonelliana, di manina con l'indice puntato - spesso ci tradivano: divaricavano improvvisamente le punte tracciando sottilissime rotaie, incespicavano su impercettibili ostacoli schizzando nuvole di minutissime macchie, raccoglievano e trascinavano invisibili peluzzi disegnando fettucce sinuose, scaricavano a tradimento la loro provvista in un'unica macchia piena, lucida, irrecuperabile.
I più diligenti fra noi portavano nell'astuccio una pezzuola grigia con la quale nettavano il pennino.
La carta assorbente, in fogli sbrindellati o in rotoli impiegatizi, faceva parte della dotazione obbligatoria, ma il suo uso richiedeva abilità non comuni. Nonostante la maneggiassimo con tutte le cautele, sotto la minacciosa sorveglianza del maestro, ci riservava sempre una sorpresa: spiattellava i tratti generosi di inchiostro trasformando le effe in artritiche farfalle; riempiva le pance delle pi e i deretani delle di; timbrava precedenti asciugature su fogli candidi; dimenticava qualche invisibile segno fresco per regalarlo alle nostre maniche sdrucite.
Ogni pagina era la storia di una faticosa e impari guerra fra l'armonia desiderata e gli imprevedibili inciampi del destino.
Ogni mattina ci presentavamo a scuola coi nostri grembiuli freschi di bucato, i colletti bianchi, il numero romano della classe ricamato sul taschino, le scarpe nettate quanto era possibile, le guance arrossate per la strigliata energica a base di sapone da bucato e acqua fredda imposta dalle mamme, i capelli districati e pettinati, le mani quasi presentabili. Ogni pomeriggio uscivamo dal cancello della scuola come da una zuffa, coi grembiuli sbottonati e stazzonati, i colletti di traverso, le scarpe impolverate, le guance arrossate per l'affanno delle corse, i capelli arruffati, le mani chiazzate d'inchiostro.
Nella cartella di cartone pressato si portavano a scuola uno o due libri, pochi quaderni, un astuccio di legno con scomparti per una cannuccia, due o tre pennini, una matita, un temperamatite, una gomma bicolore. L'astuccio aveva il coperchio a scorrimento che serviva come righello.
Fra gli articoli di cancelleria obbligatori vi era anche una scatola di matite colorate: i poveri l'avevano semplice, con sei pastelli; i benestanti l'avevano doppia, con dodici pastelli e indefinibili gradazioni di colore. Sulla scatola era stampato - in colori pastello - un Giotto fanciullo vestito da pecoraio che ritraeva il suo agnello su una pietra liscia usando un tizzone di carbone, per ricordare a noi pasticcioni inguaribili che la capacità di disegnare è innata e che l'educazione artistica non serve a nulla; come a nulla serve la musica se si è stonati, a nulla la poesia se non si è di animo gentile, a nulla la scuola per quelli destinati alla zappa.

Nonostante ciò i maestri si sfiancavano per sgrossare le nostre menti e per cercare nella massa amorfa o ribelle le rare perle che avrebbero compensato col successo scolastico la loro fatica.
Il metodo d'insegnamento era direttivo e selettivo: il maestro faceva lezione e assegnava i compiti; chi capiva e sapeva, lavorava; chi non capiva e non sapeva, era perseguitato da ripetizioni, compiti supplementari, esercizi di copiatura estenuanti. La memoria era l'unica dote richiesta, indispensabile per imparare le tabelline e le poesie, per conoscere le formule della geometria e i nomi delle città, delle regioni e degli stati di tutti i continenti, per ricordare le date di mille battaglie e quelle di mille paci, per sapere l'altezza dei monti e la lunghezza dei fiumi.
I libri, di lettura o sussidiari, erano illustrati con disegni dai colori tenui e acquerellati ed erano zeppi di considerazioni ispirate al motto "Dio, Patria e Famiglia".
Veniva incoraggiata la competizione che disgregava le relazioni in classe favorendo alleanze classiste; l'aula rispecchiava il paese con le sue quasi immote gerarchie. I migliori erano esaltati, i reietti erano reietti, ai mediocri si prospettava la scelta fra il paradiso degli eletti e la palude dei rifiuti. Anche per questo motivo nasceva proprio nella scuola la voglia di riscatto di chi, appartenente alla umile classe dei contadini, degli operai o dei piccoli artigiani, maturava la convinzione e la consapevolezza di valere di più dell'imbranato figlio del farmacista.


interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Grazia Landriscina    - 10-03-2009
Ringrazio l' autore dell'articolo per avermi dato la possibilità di ritornare indietro di 50 anni e di rivivere, in maniera nitida, assolutamente realistica e, nonostante tutto, carica di nostalgia, la mia infanzia tra i banchi di scuola. Eccellente articolo, dalla prorompente forza evocativa, straordinario e commovente. Mi ci sono ritrovata tuttai ntera ed ho assaporato, come se ancora percepissi l'odore dell'inchiostro e del gesso, l'atmosfera della scuola di un tempo. .Un tuffo nel passato di forte impatto emotivo. Complimenti!

 Pasquale Vigliotti    - 29-03-2009
………..ho aperto un cassetto e ho guardato, dopo non so quanti anni, una delle foto che mi ritrae con i miei compagni di classe. L’edificio, le aule della scuola elementare “Giosuè Carducci” del mio paese erano proprio come quelle descritte dall’autore del bellissimo articolo. Nostalgia di quegli anni, di una vita semplice, vissuta con piccole cose, ma di grande valore. Un saluto e un ringraziamento all’autore dell’articolo Omero Sala e alla mia carissima amica Grazia Landriscina che me lo ha spedito.