Telecomando di ricino
Emanuela Cerutti - 23-09-2008
Il titolo è rubato a Robecchi, che qualche giorno fa pubblicava la sua denuncia:

Che bisogno c'è di usare il manganello quando già si impugna un telegiornale? E' innegabile che il trucchetto del capro espiatorio non solo funziona, ma si allarga a macchia d'olio. E' passato appena un anno da quando i cattivi da eliminare erano i lavavetri di Firenze. Dài e dài, come la goccia scava la roccia, la propaganda convinceva tutti che del declino di una città fossero responsabili quattro straccioni. Era un inizio in sordina. Poi vennero gli zingari, gli stranieri in generale, i senza diritti, i senza garanzie. Il sistema funziona così bene che ce lo troviamo oggi applicato ai lavoratori dell'Alitalia (per esempio), dipinti ogni giorno come vampiri della loro azienda, gente che fa il nababbo mentre tutto affonda, per cui si sente parlare di assistenti di volo e hostess come si parlasse di Briatore. Se il capo del governo vede andare in crisi il suo truffaldino piano di «salvataggio», va trovato un colpevole: la Cgil, i lavoratori. Il manganello picchia lì. Altro esempio, la polemica sui famosi «fannulloni», che ha partorito Brunetta e creato la sensazione diffusa che chiunque lavori per la pubblica amministrazione stia lì a rubare lo stipendio. Lo stesso succederà tra breve, quando si tratterà di licenziare alcune decine di migliaia di maestre elementari. Si dirà che non sono all'altezza del compito (la Gelmini l'ha già detto), che costano e non producono. Il manganello mediatico comincerà a lavorare sodo: sono troppe, lavorano quattro ore al giorno, il tempo pieno allontana i bimbi dalle famiglie, eccetera eccetera, finché un sondaggio decreterà che l'80% degli italiani non ne può più delle maestre! E poi? E poi avanti un altro, la platea dei manganellandi è infinita. La chiamano modernizzazione, e hanno ragione: prendere l'olio di ricino col telecomando è una bella comodità.

Siamo sempre portati a pensare che gli estremisti estremizzino e gli esagerati esagerino. In più, io guardo veramente poco la televisione e quasi per nulla i talk show. Così ieri sera è stato un caso che dopo le ultime battute dell'Infedele mi sia sorbita le prime di Porta a Porta.
Ho retto poco, ma quel tanto che basta per aver voglia di dire a Robecchi che ha ragione: i conduttori non conducono, se per conducono intendiamo facilitano, come il vituperato quarantennio insegnerebbe.
Conducono però è appropriato alla situazione: il dialogo, perchè di questo si tratta, va dove vogliono loro - con punte di maleducazione che, sia detto per inciso, ci vorrebbero corsi anche serali di educazione civica a correggere - e la scelta degli ingredienti determina il sapore della torta:
- parti e controparti vengono scelte ad hoc, con particolare attenzione alle seconde, che, se litigano, non rispondono a tono e fanno brutta figura è ancora meglio
- di argomenti centrali non si parla, lasciando che siano i corollari a riempire le bocche: e allora quintali di parole sui deterrenti ma nessuna sulle realtà che dovrebbero non si capisce se trasformare o eliminare; o rispetti invocati senza rispetto per un parere diverso
- di dati non si discute: affermazioni errate o non giustificate (3 insegnanti per classe, 3 bidelli per aula, chi fa da sè fa per 3 senza contraddittorio minimamente pedagogico) troneggiano e si pavoneggiano indisturbate.

Avrei voglia di dire a Robecchi che ha ragione, veramente.
Se non fosse che, alla fine, penso, voglio pensare, che abbia torto: perchè, alla fine, questo olio non è bevibile, troppo cattivo, offensivo per il palato, lo stomaco e l'intelligenza della gente.
Che forse, di primo acchito, sull'onda dell'atavico spirito polemico italiano si mette a tifare rumorosamente o a giocare a difesa contro attacco.
Ma poi ragiona, esattamente come accade nelle case, nei supermercati, nei corridoi, nelle chat, lontano dalle false, costruite, luci della ribalta, lontano dagli interessi che ci hanno imbavagliati tutti, lontano dalla fine di una società che non piace più, perchè vorrebbe congelarci nella solitudine e nella paura, lontano dalla stanchezza del vivere ogni giorno rincorrendo sogni impossibili.
E spegne la televisione.

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 red    - 29-09-2008
La fine della democrazia di opinione

L'intervento su MicroMega del direttore di Famiglia Cristiana, Don Antonio Sciortino


Per gentile concessione di
Micromega

La semplificazione del quadro politico alle ultime elezioni e l’ampia investitura popolare ottenuta dal Pdl (e di conseguenza dal governo del presidente Berlusconi) ha posto nel paese la questione del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia di opinione. Il dibattito può assumere anche toni drammatici quando, invocando l’estesa legittimazione popolare al governo in carica, si mette in dubbio la possibilità altrui di esprimere opinioni e critiche sull’operato del governo. Quando poi gli attacchi vanno diritti contro un giornale e si dissente sul diritto all’opinione diversa e alla critica (non verso le istituzioni, ma verso le idee e le azioni che uomini delle istituzioni esprimono), è legittimo chiedersi se non sia in atto un ritorno all’autoritarismo, che disprezza il principio dell’uguaglianza delle idee, almeno nella loro possibilità di esprimersi.

Ciò che è accaduto di recente nei confronti di Famiglia Cristiana per le sue critiche ad alcuni provvedimenti del governo, è esattamente questo. Chi governa con ampio mandato popolare ritiene, forse, che è suo compito anche spalmare il paese di un pensiero unico e forte, senza ammettere alcun diritto di replica? In realtà, da sempre noi non abbiamo mai risparmiato critiche a governi e opposizioni, usando sempre lo stesso metro di giudizio, che è una visione solidale della realtà. Famiglia Cristiana si è comportata così con tutti i governi, anche quelli democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo. Fedele al mandato del suo fondatore, il beato Giacomo Alberione, che diceva di «parlare di tutto cristianamente». Avverbio, questo, che connota la nostra missione di comunicatori, e ci spinge a giudicare la realtà alla luce del Vangelo.
In particolare, ci porta a giudicare la politica alla luce di quei pilastri che la dottrina sociale della Chiesa considera fondamentali, in nome di due valori: la solidarietà e la sussidiarietà. I pilastri sono la dignità di ogni essere umano, la famiglia, il lavoro, l’integrazione e il dialogo tra culture, popoli e religioni, la convivenza e la pace, l’educazione libera e responsabile, la promozione della vita dal concepimento alla sua naturale fine. Chi fa comunicazione in modo responsabile deve saper verificare la congruenza tra dichiarazioni e scelte concrete di ogni classe politica al governo e all’opposizione, offrirne i dati oggettivi e un criterio di lettura. Solo così un giornale trova interlocutori, stimola il dialogo, aumenta il tasso di democrazia di opinione nel paese.

È stato assai singolare che, dopo le nostre prese di posizioni sulla questione dei rom e sul cosiddetto «pacchetto sicurezza», il governo si sia scagliato con insolita veemenza contro Famiglia Cristiana. Già questo denota quanto il nostro paese sia poco normale. Quando si mette il coprifuoco alle idee, quando un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia rappresentativa.
In realtà, in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (soprattutto quelli «nuovi», quelli che non provengono da una lunga formazione, ma dalle scuole del marketing), ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco. Si sentono legittimati a fare tutto ciò che le regole della soddisfazione dei desideri impongono, quasi che l’esercizio nobile dell’arte della politica, sia definita dalla migliore e scintillante soluzione dei desideri di ognuno. Siamo al paradosso che, proprio oggi, quando la politica sembra aver preso il sopravvento su molte altre attività (al punto che tutti ci si buttano), la partecipazione invece cala.

È vero che la democrazia rappresentativa si risolve nella delega. Ma essa è intesa in maniera così forte dall’attuale classe politica (al governo e all’opposizione), che ha relegato in soffitta la democrazia di opinione. Siamo così all’antipolitica, che non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri. La classe politica italiana, ma anche gli intellettuali, hanno gravi responsabilità. L’eterna transizione cui è costretta l’Italia almeno da 15 anni e la promessa reiterata di riforme che non arrivano mai, hanno tolto credibilità alla politica e rafforzato chi, nella politica, vede un teatro da calcare con le sue truppe ordinate e ubbidienti a ogni ordine, senza discutere. Vale a destra come a sinistra. In un quadro simile, la partecipazione e, dunque, la democrazia di opinione spariscono.
Né il riconoscimento maggiore del leader serve ad aumentare la partecipazione. Lo dimostrano le continue incursioni di Berlusconi nelle piazze tra la gente che vive drammaticamente problemi seri, quasi volesse non tanto rassicurarla, ma rassicurare se stesso di averla (la gente) sempre vicina. In realtà, nessuno sa veramente quel che pensano i cittadini, al di là del vecchio e, talora, obsoleto metodo dei sondaggi. Neppure a livello amministrativo c’è più passione per la «cosa pubblica». Non ci si interessa nemmeno del proprio marciapiede o dell’autobus che non passa.

Quando un giornale come il nostro suona la campanella d’allarme, che segnala la distanza tra la politica e le attese concrete della gente, e insiste sulle politiche familiari, su un fisco equo, o critica le ossessioni per la sicurezza e la giustizia… dice semplicemente che in democrazia le opinioni devono contare. Infatti, se cala la partecipazione e, al tempo stesso, non si ammettono critiche, il rischio di scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria è davvero grande.
Fa scalpore che tutte queste cose, corredate di esempi concreti, le abbia scritte un giornale cattolico? È un’altra delle anomalie italiane. In Francia nel corso dell’estate il quotidiano cattolico La Croix ha criticato la nuova grandeur francese di Sarkozy sulla scena internazionale. Ma nessun membro del governo s’è sognato di rivolgersi al cardinale di Parigi o al Vaticano. Ciò che spesso difetta al nostro paese è l’idea che i cattolici (giornalisti e non) siano cittadini come gli altri, e abbiano il diritto di partecipare al grande gioco della democrazia di opinione.
La rivista francese Esprit (che, certo, non può essere bollata di «cattocomunismo» o di «criptocomunismo») si domandava questa estate se non ci stiamo avviando verso la fine del ciclo democratico. La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha solo prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell’elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente. Oggi si tende a semplificare cose complesse, con risposte ai bisogni che saranno necessariamente inefficaci sul medio e lungo periodo, anche se al momento sono allettanti.

Ciò che accade attorno al pacchetto sicurezza, alla questione immigrazione, ma anche sui temi della giustizia, lo dimostrerà. La parola più indicata per definire tutto ciò è populismo, che insegue e accarezza i desideri. Una dimostrazione è l’ultima finanziaria, valida per tre anni e assai pesante, approvata in una manciata di minuti dal governo. Oggi la consapevolezza di tutto ciò sembra essere presente solo nel dibattito di opinione, mentre non trova casa (o ne trova una assai ristretta), nella classe politica e nelle istituzioni parlamentari. Ed è per questo che la classe politica, forte dell’investitura, tende a spazzar via il dibattito. Oggi, forse, non corriamo alcuni rischi del passato, ma c’è un allarme circa un progetto di Stato e di convivenza democratica, che non dà voce a chi non ha voce, a cominciare dalle famiglie e dai più poveri. Non è questione, questa, che riguarda e preoccupa solo i cattolici, ma tocca il paese intero. Quando Famiglia Cristiana bussa all’Italia bipolare, ricordando che i costi sociali di operazioni che semplificano eccessivamente la realtà possono essere altissimi, non fa altro che il suo dovere, a favore del «bene comune». Il passo dal populismo all’autoritarismo può essere, fatalmente, breve.

Don Antonio Sciortino
direttore di Famiglia Cristiana