La difficile arte della valutazione a scuola
Dove osano le aquile - 03-07-2008
Il linguaggio non è solo ciò che permette di comunicare ma è anche uno strumento «con cui possiamo sostenere il lavoro della scuola», spiega Benedetto Vertecchi, docente dell'università di Roma 3 e coordinatore scientifico del comitato provinciale di valutazione per la qualità del sistema scolastico, attivo da un anno. «Il nostro lavoro - precisa Vito Mastrolia, moderatore del convegno "Tempo della scuola, tempo della vita", durante il quale sono stati presentati i primi risultati della ricerca - non vuole essere tanto un'attività di controllo quanto piuttosto un servizio: vogliamo infatti offrire ai docenti gli strumenti per l'autovalutazione, questa almeno è la direzione verso cui ci siamo mossi. Probabilmente abbiamo imboccato la via giusta, dal momento che l'anno scorso ad un convegno a Chicago abbiamo potuto verificare che il nostro modo di pensare la valutazione non è diverso da quello degli altri paesi».
In genere però «ci accorgiamo dell'esistenza di un sistema quando questo sistema non funziona - riprende Vertecchi - per esempio, ci rendiamo conto del sistema postale quando spediamo una lettera e questa non arriva a destinazione. Nell'educazione siamo nella stessa situazione: se parliamo tanto di un sistema per la valutazione e del modo in cui ci presentiamo significa che qui qualcosa non funziona». Non c'è dubbio sul fatto che l'educazione è una parte importante dell'adattamento alla vita: così, di fronte al moltiplicarsi delle nozioni da apprendere la risposta della scuola è stata prolungare la fascia protetta della vita riservata all'attività educativa. Tuttavia le cose non sono andate come ci si era aspettati: alla fine degli anni Novanta infatti ci si è accorti della dinamica sempre più difficile da controllare tra conoscenza e sviluppo della conoscenza, «qualcosa si trattiene - prosegue Vertecchi - e qualcosa si disperde: in genere rimangono le nozioni di cultura generale, meno esposte al mutamento, mentre si perdono le conoscenze specifiche: qui entra in gioco il linguaggio, un aspetto della cultura che riassume tutti gli altri perché si tratta del modo in cui usciamola nostra intelligenza e la nostra capacità comunicativa per conoscere e metterci in rapporto con gli altri. In altre parole, il linguaggio non è frutto solo di ciò che fa la scuola ma anche delle interazioni dei giovani con la società».
A questo punto non poteva mancare il riferimento alla scrittura digitale ed alla «lingua sincopata» dei messaggini, che si riflettono «nel rapporto tra parlato e scrittura - interviene Mario Ambel, presentando alcuni estratti di temi di studenti - abbiamo da un lato un'esplosione del numero di frasi dall'altro una riduzione della lunghezza dei periodi: inoltre è sotto gli occhi di tutti un uso carente del lessico che si traduce in lunghe perifrasi, eppure la sintesi è più chiara di una perifrasi confusa». A questo punto non poteva mancare un riferimento a due classici della distopia come «1984» di Orwell e «Noi» di Zamyatin: nel primo lo stesso autore parla della «neolingua» di un paese totalitario di un ipotetico futuro che, semplificando il linguaggio attraverso una riduzione del numero e del significato dei termini, avrebbe reso impossibile formulare perniseri non ortodossi; nel secondo invece, ambientato sempre in un ipotetico futuro, Zamyatin descrive come un orario dei treni venga studiato come esempio di prosa del passato. «La direzione da seguire - riprende Vertecchi dopo aver presentato questi due testi - va quindi verso un linguaggio ricco e vario, capace di esprimere ricchezza di pensiero e di riconoscere attenzione alla differenza: anche nel linguaggio esiste un criterio economico, si cerca di dire qualcosa riducendo il numero delle parole ma senza perdere chiarezza. Oggi però occorrono più parole er dire le stesse cose perché abbiamo molte meno parole dal significato preciso e quindi dobbiamo girare attorno al concetto».
Le conseguenze sono notevoli: «Aumenta l'affaticamento - Vertecchi - si riduce l'affettività, che si traduce nella scarsa partecipazione all'attività proposta, e ci si allontana dal cosiddetto "grado zero del linguaggio" che serve per esempio per la matematica. Per questo sostengo che analizzando il linguaggio possiamo sostenere il lavoro della scuola, che spesso è troppo tollerante». E qui si arriva al tema della valutazione: «Di fronte agli errori ortografici sarebbe sbagliato sia fare resitenza ai cambiamenti in atto sia arrendersi senza combattere - riprende Ambel - sono dell'idea che una lingua vada insegnata con esperienze linguistiche significative, l'insegnamento di una lingua coinvolge tutte le discipline, proprio quando l'italiano viene usato in un ambito specifico: riconoscere i proocessi in atto permette anche si scegliere le terapie migliori».
Come riassume Liliana Dozza, presidentessa del comitato, «la valutazione è la complessa procedura con cui una comunità considera il proprio sistema di insegnamento»: questo tema, aggiunge la sovrintendente Bruna Rauzi, «è entrato di prepotenza a scuola con le schede di valutazione e poi è esploso con l'autonomia: lo stesso mondo produttivo richiede la valutazione». Lo studio del comitato ha portato per esempio a rilevare che solo nell'anno di passaggio dai sessantesimi ai centesimi si è avuto un aumento notevole dei voti all'esame di maturità, «più o meno due punti e mezzo - osserva Francesco Magno, coordinatore del supporto tecnico - da allora lo scarto non è mai superiore allo 0,5/0,8». «Questo lavoro doveva servire da apripista e porre le basi di un lavoro che proseguirà», conclude l'assessora Luisa Gnecchi.

giovedì, 12 giugno 2008
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