L'illogicità della fede
Marino Bocchi - 05-08-2002

Caro Mereghetti, sperando di farle cosa gradita, la invito a leggere l’articolo di Umberto Galimberti pubblicato su Repubblica del 27 luglio (La verità che racconta la religione). Lo spunto e’ l’ultimo libro di don Gianni Baget Bozzo: La profezia (Mondadori, pagg. 104, euro 14). Ma il nucleo centrale sviluppa il tema che le sta’ a cuore.
Con la consueta stima.
Marino Bocchi.



Il cristianesimo non è una religione, scrive Gianni Baget Bozzo nel suo ultimo libro: La profezia (Mondadori, pagg. 104, euro 14). Perché le religioni sono sistemi culturali che fondano comunità per principio compatibili. E in effetti la ricerca teologica sembra oggi governata dall' esigenza di una politica di coesistenza pacifica tra le religioni, anche se l' impresa, a giudicare da quanto accade, sembra molto difficile. Il cristianesimo non è una religione perché, a differenza delle religioni che cercano un dialogo con la cultura, il cristianesimo cerca un dialogo con Dio, e suo intento è il riconoscimento della verità e non il problema della coesistenza pacifica e della tolleranza, perché la tolleranza comporta il naufragio della verità. Come è infatti possibile rivendicare la verità del cristianesimo se poi il cristianesimo promuove la ricerca ecumenica con le altre religioni: o all' insegna delle comuni origini come nel caso degli ortodossi, o all' insegna della comune discendenza di Abramo come nel caso dei figli di Israele o dei seguaci di Maometto? Qui bisogna essere chiari, dice Baget Bozzo. La rivelazione dell' Antico Testamento, a cui resta ancorato il popolo ebraico, è una rivelazione compiuta ma non realizzata. Al popolo eletto Dio comunica le sue azioni, ma non se stesso. E questa è la ragione per cui, per gli ebrei, Dio resta Dio e l' uomo uomo. L' ebraismo infatti non conosce il farsi uomo di Dio che il cristianesimo annuncia. Si spiega così perché il cristianesimo si fa strada tra i pagani che, nell' esaustione delle loro religioni, rinunciano alla loro storia di popolo, per accogliere il nuovo annuncio che segnala a ciascun uomo la presenza del divino nella sua anima. L' ebraismo, invece, che non riconosce questa presenza, si identifica come «popolo eletto», portatore della Scrittura, senza riconoscere a ogni «singolo uomo» l' elezione dovuta all' azione redentrice di Dio. Per questo l' ebraismo rimane una religione che fa tutt' uno con la sua storia, a differenza del cristianesimo che sovrasta le culture dei popoli, perché annuncia il rapporto di ogni singolo con l' ordine salvifico di Dio. Per la stessa ragione il cristianesimo è una dimensione universale e quindi «cattolica», se è vero che questa parola greca significa appunto «universale». Dell' altra religione monoteista, l' Islam, non ne parliamo. Per Baget Bozzo non è neanche una religione. La sua dimensione escatologica non è l' unione dell' umano col divino come per il cristianesimo, ma è solo «la distruzione di ciò che non è Islam», detto meglio: «E' questo mondo senza i non-musulmani». Per digerire tutta questa intransigenza, che ha comunque una sua coerenza, bisogna accettare che la rivelazione, fatta al popolo ebraico, ma realizzata solo dal cristianesimo, è l' unica verità. A questo punto vien da chiedere a Baget Bozzo: in base a che cosa è possibile una simile affermazione? La risposta non può essere che la solita: in base a un atto di fede. Ma allora qui sorge il problema, perché dire che una fede è vera significa applicare alla fede le categorie della verità che, dal tempo di Eraclito, i filosofi sanno che sono categorie di lotta. Il Logos è polemos, è guerra, diceva il filosofo di Efeso. La verità, infatti, non può tollerare accanto a sé la propria negazione. Anzi la verità consiste proprio nella negazione della propria negazione, per cui sua prerogativa logica è l' intolleranza. Se è vero che due più due fa quattro, questa verità non tollera che faccia tre o cinque. La verità, questa parola intorno a cui l' umanità s' è tanto affaccendata dipingendola come l' aspirazione più profonda dell' uomo, ha una caratteristica ineliminabile: l' intolleranza, piaccia o non piaccia. Dire che una fede è vera, significa allora dire che è intollerante. E sull' intolleranza delle fedi credute vere c' è tutta una storia che gronda di sangue. Se alla verità compete l' intolleranza, alla fede deve competere la tolleranza perché, essendo fede «nelle cose che non si vedono», è fede in qualcosa che non mostra il suo fondamento veritativo: è allora impossibile credere tollerando fedi diverse. Quando dico «tolleranza» non alludo a un atteggiamento «pratico», a una condotta per cui tollero anche chi crede in qualcosa di diverso da quello in cui credo io, o non crede affatto, ma alludo a un atteggiamento «teoretico» per cui, credendo in ciò che non si vede, non posso escludere che chi crede diversamente, o non crede affatto, sia più vicino alla verità di quanto non lo sia io con la mia fede. Questo ben lo sapeva Tommaso d' Aquino che, commentando Paolo di Tarso, osservava che la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l' intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l' intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla scientia, nei cui riguardi si sente in infirmitate et timore et tremore multo. Che ne è di questo timore et tremore in Baget Bozzo e in generale in coloro che credono? Sono ancora utrumque parati , preparati all' una e all' altra cosa, alla possibilità che la fede sia vera o sia falsa, sia allo stesso titolo possibilità di salvezza e possibilità di perdizione? C' è ancora in loro il senso della «scommessa» di Pascal, dell' «angoscia» di Kierkegaard, del «rischio» di cui parla Jaspers a proposito della fede, dovuto al fatto che questa afferma ciò che dimostrare non si può? Se a sorreggere la fede non è la logica, sarà allora, come diceva Agostino, un atto della volontà, quindi un assenso volontaristico, in cui l' intelletto è motivato da ragioni estrinseche, cioè dalla volontà di credere: «intellectus est terminatus ad unum ex estrinseco, ex voluntate». Se ne deduce che il fondamento dell' atto di fede non va ricercato nel suo contenuto, ma nella volontà di credere che è «estrinseca» e indipendente da ciò che si crede. Ma quando a decidere il vero e il falso è la volontà, perché condannare la volontà di potenza di Nietzsche e i suoi esiti nichilistici di cui io, a parere di Baget Bozzo, sarei uno dei rappresentanti? Seconda obiezione: se è vero, come dice Baget Bozzo, che «le religioni umanizzano l' uomo» mentre il cristianesimo «lo porta alle soglie del divino perché Dio stesso, con l' incarnazione, oltrepassa la soglia umana», allora leggiamo adeguatamente questo oltrepassamento e, sull' indicazione di Gesù, vediamo di scorgere nei tratti di ogni uomo il volto di Dio. Il che significa: fratellanza, tolleranza e accoglienza di ogni uomo, anche dell' uomo che non si riconosce nel cristianesimo. Ma questa via, ripresa con forza da Papa Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, è per Gianni Baget Bozzo la via dell' Anticristo, a cui Baget Bozzo ha dedicato il suo precedente libro, dove il principe delle tenebre si inserisce nelle fessure del cristianesimo per dissolvere la sua specificità con parole di fratellanza per effetto delle quali, scrive Baget Bozzo, «i Giudei diventano i fratelli maggiori dei cristiani, gli Islamici nostri fratelli in Abramo, e i cristiani presero a vergognarsi della Croce unita alla spada». E' la spada che Gianni Baget Bozzo vuole risfoderare. Questa è la sua «profezia» contro la fratellanza predicata dai «falsi profeti», messaggeri dell' Anticristo, che usano parole cristiane per ridurre il cristianesimo a religione «umanistica», negandolo così nella sua specificità. Che ne dice la Chiesa della «profezia» di questo suo sacerdote? Se un tempo l' ha sospeso «a divinis» a causa della sua appartenenza politica e non per la sua posizione teologica, vuol dire che alla Chiesa di oggi interessa più la politica della teologia. E allora Baget Bozzo ha perfettamente ragione quando denuncia che per la Chiesa «non è più centrale l' uomo interiore, ma la dimensione delle sue opere esteriori».


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