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Karl Popper ed Helmut Schmidt
L'Unità - 28-07-2002
Cento anni fa nasceva Popper. Da lui ho imparato la pratica delle riforme graduali
( Helmut Schmidt*)


Nato a Vienna il 28 luglio 1902, Karl Raimund Popper è attratto negli anni venti da molte esperienze intellettuali: musica, fisica, matematica, politica. Poi, nel 1928, si laurea in filosofia. Dopo l’occupazione nazista dell’Austria, per la sua origine ebraica, emigra in Nuova Zelanda, dove insegna al Canterbury University College di Christchurch. Agli inizi del 1946 diventa professore di logica e poi di metodologia alla London School of Economics che lascia nel 1969. Già professore emerito della London School of Economics e Visiting Professor in molte università straniere, muore nel settembre 1994. Tra le sue opere principali ricordiamo: «Logica della scoperta scientifica»; «Miseria dello storicismo»; «La società aperta e i suoi nemici»; «Congetture e confutazioni»; «Epistemologia, razionalità e libertà»; «Rivoluzione o riforme?»; «L’io e il suo cervello»; «Poscritto alla logica della scoperta scientifica»; «Società aperta universo aperto»; «La lezione di questo secolo». A Karl Popper sarà dedicato il prossimo numero della rivista «Reset»: anticipiamo stralci dell’articolo di Helmut Schmidt.



Sin dal tempo di Confucio e di Platone i filosofi hanno continuamente tentato di indicare agli imperatori ed ai governanti il fine ed il modo migliore in cui si possa e si debba governare. Da Machiavelli, ma ancor più dall’Illuminismo, la letteratura sulla filosofia dello Stato è aumentata in maniera poderosa, in particolar modo in Francia, in Inghilterra e in America, dove i principi della libertà della persona, della democrazia, del diritto uguale per tutti, sono stati posti e sviluppati su basi filosofiche. Il catalogo dei diritti costituzionali dei primi diciannove articoli della nostra costituzione, se consideriamo le sue origini storiche, è nato non su suolo tedesco, bensì su suolo americano, intorno alla fine del secolo XVIII. Sono stati invece ingegni tedeschi, da Hegel e Marx fino a Spengler, a sviluppare in maniera sostanziale la filosofia della storia, che è un ramo affine. Tutti e tre questi filosofi credettero di identificare sviluppi pronosticabili in maniera quasi scientifica, ma nessuno di loro può essere considerato un democratico.
Al termine del periodo nazista e della guerra, in particolare proprio otto anni dopo, quando io entrai al Bundestag, e professionalmente in politica, di tutta la letteratura mondiale riguardante la filosofia dello Stato, avevo letto pochissimo. Più in generale, non avevo alcuna cultura filosofica. Tuttavia, ci sono state eccezioni. Quanto più, infatti, avanzavo in politica, tanto più ero interessato alla filosofia dello Stato ed alla filosofia politica, ed in particolare all’etica, la dottrina delle virtù e, last but not least, alla critica filosofica dell’economia di Ricardo, di Adam Smith e di Malthus, fino ad arrivare a Euchen e a Hayek. Ma anche quest’ultima branca della filosofia all'inizio non faceva parte dei miei interessi; a spingermi verso di essa è stato infatti molto di più lo studio dell’economia politica.
Insomma, la mia preparazione filosofica era molto carente quando entrai in politica.
In guerra, mi ero sempre portato dietro le osservazioni su se stesso dell’imperatore della tarda romanità Marco Aurelio, uno stoico, il quale mi aveva insegnato la virtù del compimento del dovere, ed insieme quella della calma interiore. A dire la verità, solo dopo il nazismo mi sono reso conto che non mi aveva insegnato a riconoscere da me stesso quale fosse il mio dovere. Avevo fatto mio l’imperativo categorico di Kant, e dal suo breve scritto Per la pace perpetua avevo tratto l’idea che la pace tra i popoli e tra gli Stati non sia uno stato naturale, ma che esso debba essere continuamente rifondato. Ma, in generale, le altre opere fondamentali di Kant mi hanno sempre interessato molto meno, anche se ho sempre cercato di prendere a cuore i suoi tre appelli di fondo, vale a dire: pensare con la propria testa! Pensare anche con la testa di un altro! Pensare sempre in maniera coerente con se stessi!
Più tardi è arrivato Karl Popper. Anche da lui ho imparato tre cose importanti: in primo luogo, mi ha fatto capire perché il marxismo mi fosse stato sempre radicalmente poco simpatico: e la ragione è che ogni utopia totalitaristica e ogni dittatura, fosse anche quella del «proletariato», portano necessariamente all’assenza di libertà, alla miseria di massa ed all’uso della violenza. In secondo luogo, Popper mi ha fatto comprendere che il principio costitutivo della democrazia non corrisponde alla supremazia del popolo; il popolo infatti non governa in alcun modo, ma, in democrazia, detiene la possibilità di far cadere un governo e di sostituirlo senza dover far uso della violenza. È per questo che molto presto mi sono reso conto degli svantaggi del sistema elettorale proporzionale, che è giustissimo in linea di principio, ma che costringe quasi sempre a formare delle coalizioni di governo, e dà così a ciascun membro di tali coalizioni il potere di far cadere il governo, mentre nell’insieme tale potere deve rimanere prerogativa dei cittadini.
In terzo luogo, da Popper ho imparato il principio delle riforme graduali dell’economia, della società e dello Stato, perché esso rappresenta il principio della pratica politica più adatto alla democrazia. Infatti, cambiamenti grandi e repentini mettono a rischio la libertà dei cittadini giacché, in caso di insuccesso, possono essere corretti solo con sacrifici molto maggiori di quanto non sia possibile facendo solo un piccolo passo e - vorrei aggiungere - anche perché un sistema parlamentare, all’interno di una democrazia industriale molto complessa, non è assolutamente adatto a rivoluzionamenti improvvisi.
Anche Popper è stato un filosofo che ha impiegato una parte della sua forza intellettuale per il problema del mantenimento della pace. Era un uomo poliedrico. In giovinezza, a Vienna, aveva imparato il mestiere di ebanista, era stato per un breve periodo comunista, aveva superato da privatista l’esame di maturità, successivamente aveva studiato all'università e ne era diventato docente. Dopo un nuovo periodo di studio universitario ed un dottorato, aveva insegnato matematica e fisica in una scuola superiore. Popper ha sempre coltivato contemporaneamente anche un grande interesse per la musica, amava Bach, Mozart e Beethoven, suonava il piano, ed ha persino composto musica lui stesso. Insieme, abbiamo spesso parlato di questioni musicali; una volta mi ha anche regalato una sua fuga per organo, che purtroppo è andata perduta a Bonn. I suoi genitori, ebrei, si erano convertiti al protestantesimo. Nel 1937, un anno dopo l’annessione dell'Austria da parte dei nazisti, Popper, che aveva allora 35 anni, emigrò in Nuova Zelanda. Qui scrisse il suo libro La società aperta e i suoi nemici, un libro che ancora oggi mi interessa e mi affascina.
Non ricordo bene quando, ma deve essere stato verso la fine del 1979, che Manfred Schüler, il capo dell’ufficio del Cancelliere federale, mandò a Klaus Bõlling e a me un breve appunto, con il consiglio di leggere una recensione sull’autobiografia di Popper, che era stata appena pubblicata dalla Zeit. L’altro scritto che mi mandò riguardava Popper; si trattava di una premessa che avrei dovuto scrivere per un volume collettivo su Razionalismo critico e socialdemocrazia, al quale avrebbero contribuito, con saggi più lunghi, anche lo stesso Popper, come pure i suoi allievi Hans Albert, Bryan Magee ed altri.
Utilizzai quest’occasione per criticare una volta di più la differenziazione, allora molto amata, tra riforme «stabilizzatrici del sistema» e riforme «trasformatrici del sistema». Ogni riforma mette in moto una mutazione dell’esistente, ogni riforma sociale trasforma la società in questione, e di conseguenza il suo sistema. È evidente dunque che una tale riforma deve essere connotata con l’aggettivo «trasformatrice del sistema» (un aggettivo inevitabilmente tautologico), in quanto essa presuppone o fa sperare che darà origine, in un solo balzo, alla trasformazione di uno o più degli aspetti finora costitutivi della società in questione.
Io non considero auspicabile una cosa del genere, giacché, in una simile operazione, i rischi di insuccesso e di possibili ripercussioni negative per milioni e milioni di persone non sono calcolabili né limitabili, né ritengo possibile una riforma che, in uno Stato di diritto democratico, ne sovverta radicalmente i fondamenti; vi si opporrebbero da un lato i diritti fondamentali ed i postulati delle finalità dello Stato posti dalla Costituzione stessa, ma soprattutto le sue regole procedurali per l’attività costituente e legislativa. Le utopie totalitarie possono prestare il fianco all’uso della violenza, Le società aperte, vale a dire democratiche non sono comparabili alle massime politiche di un’utopia totalitaria, né al dispiegamento di azioni tese alla realizzazione di un sistema sociale completamente nuovo. Una società democratica, una società aperta, quando la pluralità stessa degli obiettivi politici viene abbandonata in favore di un ideale astratto, si perverte in uno Stato chiuso, totalitario. Se il nostro deve essere preservato da tutto ciò, il politico resta vincolato ad una trasformazione che sia fatta per gradi, operazione la cui premessa è, ad ogni passo, l’ottenimento del consenso. Soltanto questa è da ritenersi l’arte democratica della politica.
La ricerca del consenso e del compromesso delle costituzioni democratiche porta, nei suoi effetti pratici, ad una perdita in termini di pregnanza e coerenza dell’azione politica. Questa perdita, ogni democratico deve metterla in conto; ma essa può diventare tanto più limitata quanto più concreto è il passo che di volta in volta si pensa di compiere. Mettersi nei panni dell’altro è una necessità fondamentale per ogni azione politica. Chi non vuole farlo, non è utilizzabile né per una politica estera pacifica, né per una politica interna democratica. Chi non vuole prendere sul serio gli obiettivi e gli interessi dell’altro non è adatto ad alcun compromesso. E chi non è adatto ai compromessi, non è in grado di garantire la pace.
Io non so se Karl Popper abbia mai avuto sotto gli occhi quella mia premessa, che conteneva questi pensieri, e che cosa possa averne pensato. In ogni caso, poco tempo dopo nacque tra noi uno scambio di corrispondenza: con la sua calligrafia bella e chiara, rispondendo ad un mio lungo telegramma di auguri per il suo compleanno, mi rispose: «Quando scrissi La società aperta, e anche dopo, non avrei mai immaginato neanche nei miei sogni più audaci che, quasi quaranta anni dopo, un Cancelliere federale mi avrebbe scritto per dirmi che, con il mio lavoro, avevo molto aiutato le democrazie occidentali. Tutto quello che avevo sperato era che potesse dare un piccolo contributo alla lotta contro il fascismo e che, forse, rendesse evitabili nel dopoguerra gli errori peggiori».

(Traduzione di Laura Bocci)
* Helmut Schmidt è stato cancelliere della Repubblica Federale tedesca dal 1974 al 1982

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