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Capecchi: sopravvissuto a un'infanzia di abbandono
La Stampa.it - 12-10-2007
"La mia rivincita dalla fame al Nobel"


«Sono felice per il Nobel per la Medicina e dentro di me mi sento sempre un sovravvissuto». Quando risponde al telefono dalla casa di Salt Lake City, nello Utah, Mario Capecchi ha da poco saputo del premio assegnatogli ad Oslo grazie alla ricerca sui cambiamenti genetici nei topi e cela a stento l'emozione, ma la prima reazione non è parlare di scienza bensì di Lucie, la madre che la Gestapo deportò nel lager di Dachau nel 1941.

Chi era sua madre?
«Lucie Ramburg, una poetessa. Prima dell'inizio della guerra aveva scritto contro il fascismo e a guerra iniziata aveva continuato, anche contro il nazismo. Sua mamma era una pittrice americana che viveva a Firenze e il padre era tedesco. Mia mamma odiava l'oppressione, la dittatura, la mancanza di libertà e i suoi versi lo dicevano con grande chiarezza. La Gestapo le dava la caccia e la trovò in un maso dell'altopiano della Renon nel 1941. Venne deportata a Dachau, che allora era un campo di concentramento solo per detenuti politici».

Il padre di Capecchi era un aviatore italiano, che era stato abbattuto all'inizio della guerra, mentre la madre venne presa ancor prima dell'occupazione nel settembre '43. E' così?
«Sì, i nazisti e i fascisti volevano fermare lei e le sue poesie. Fu catturata poco a Nord di Verona, in Alto Adige, quando non avevo che quattro anni e mezzo».

E a lei cosa successe?
«Mi trovai da solo, per strada. Cercavo il cibo, avevo fame. Dall'età di 4 anni e mezzo fino a 9 anni ho vissuto per le strade di Bolzano, Verona, Reggio Emilia. Il mio unico pensiero era mangiare, evitare i pericoli e sopravvivere. Ero affamato. Ho vissuto giorno per giorno. Non sapevo se avrei mai più rivisto mia madre».

Capecchi, 70 anni appena compiuti, parla con orgoglio della determinazione della madre poetessa.
Quando la rivide?

«Fu lei a trovarmi in un ospedale di Reggio Emilia il 6 ottobre 1946, il giorno dei mio nono compleanno. Fu come un miracolo, quel giorno tornai a vivere. L'Italia era distrutta, restammo a Verona per un altro anno e mezzo, ma poi la decisione fu di andare in America, dove c'era un mio zio. Attraversammo l'Atlantico e da allora iniziò una nuova vita. Andai per la prima volta a scuola, sebbene non conoscessi una parola di inglese. Poi studiai all'Antioch College dell'Ohio, dove scelsi chimica e fisica, e da lì andai a Harvard per laurearmi in biofisica nel 1967 con James Watson, fu lì che iniziai ad insegnare».

E' vero che l'arrivo a Salt Lake City si deve alla parentela con una famiglia di mormoni?
«No, è falso. Dopo essere diventato docente a Harvard nel 1973 ricevetti un'offerta dall'Università dello Utah e da allora non mi sono mai più mosso da Salt Lake City, dove ho potuto godere dei mezzi e delle possibilità per sviluppare le mie ricerche genetiche».

Proprio i risultati di tali studi sono alla base della motivazione dell'assegnazione del Nobel di Medicina. Di cosa si tratta?
«Il mio lavoro si concentra sullo studio dei geni dei topi, in particolare sulle cellule staminali derivate dagli embrioni, grazie alla quali è possibile sviluppare tecnologie potenzialmente capaci di trovare soluzioni alle malattie incurabili che ancora affliggono gli uomini. E' stato lo studio della famiglia genetica Hox ad occuparmi molto, in quanto ha un ruolo determinante nel controllo dello sviluppo embrionico in tutti gli animali, inclusi ovviamente gli esseri umani».

Qual è la sua tecnica?
«La gene targeting, che consente di disattivare o modificare particolari geni di topo, studiandone gli effetti sulla salute e sulle malattie. Introduciamo i cambiamenti genetici nelle cellule staminali embioniche e il topo nato da tale embrione riceve successivamente ulteriori cellule modificate per favorire i cambiamenti. Iniziammo nell'89 e da allora abbiamo studiato oltre 10 mila geni ovvero la metà del totale in ogni roditore».

Quando ha saputo del Nobel?
«Sono stato svegliato quando qui a Salk Lake City erano le tre mattino. Era una telefonata del comitato del Nobel e mi è sembrata molto seria. Ho pensato che doveva essere proprio vero. Ed è stata una fantastica sorpresa».

Membro dell'Accademia delle Scienze, lei è pioniere della genetica ed è convinto di allungare la vita dell'uomo studiando gli embrioni dei topi: che cosa significa essere un ingegnere del Dna?
«E' una sfida, è il mio lavoro».

Capecchi parla in inglese ma si sente legato all'Italia, sottolinea come il Nobel sia arrivato nel Columbus Day, il giorno in cui gli italoamericani celebrano la loro identità, e cede al ricordo delle sofferenze patite in Italia durante la guerra. Il suo lavoro è frutto dell'essere venuto in America e delle opportunità che vi ha trovato, ma sottolinea che nel Nobel vi sia un messaggio per l'Italia.
«Il mio Nobel è un incoraggiamento per i ricercatori italiani. Dimostra che, lavorando duro, seguendo la passione per la scienza, si può fare molta strada a dispetto di difficoltà terribili come quelle che ho trovato. Ma deve essere di incentivo anche allo Stato italiano e ai privati affinché investano nei giovani, nella scienza, nella conoscenza, perché senza risorse non vi sono opportunità. Sono convinto che molti italiani sono in grado di dare contributi importanti alla ricerca nel mondo, ma devono essere aiutati da chi ha gli strumenti per investire nel sapere».

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


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