La scuola di Montezemolo
Giuseppe Aragno - 25-05-2007
Dunque è così: se i killer hanno la mano che trema, a sparare ci pensa da solo il capobanda e non se ne parla più. Con buona pace di chi ancora s'ingegna a credere nei miracoli, la scuola ha bisogno del colpo di grazia. Da troppo tempo dura l'agonia e - Bagnasco capirà - è il caso di evitare l'accanimento terapeutico, dopo il coma irreversibile prodotto dalle mazzate dei riformisti berlinguermorattisti e dagli svitamenti clerico-artigianali dei giravitisti.
Il caudillo ora c'è. Cordero Luca di Montezemolo, l'uomo Ferrari non intende governare per delega e si delega a governare. Ha programma chiarissimo: dopo l'Azienda Italia ecco il Progetto Paese. Guarda lontano la freccia rossa di Maranello e pone una scadenza: per il 2015 - è sicuro di esserci e certo che ci saremo - per il 2015 vuole un'Italia protagonista, alla quale regala la sua capacità di leadership.
Signori, ringraziamo.
Oltre il nuovo confine, che passa trasversale tra gli schieramenti, oltre una frontiera che si chiude persino alle maggiominoranze e cambia le regole del gioco - qui comando io - l'uomo nuovo del fato ha la ricetta giusta: basta chiacchiere sulle pensioni - si va all'abolizione - basta tolleranza con l'immigrazione - il marcio è quello e occorre la maniera forte - giusta è la legge Biagi e occorre potenziarla.
La politica è forte quando forti sono davvero le sue idee e non fa niente se, tra mille astrazioni, cerchi invano la gente coi suoi guai e gli elettori con le loro differenze. Contano poco, la gente e gli elettori: prima di tutto viene la riforma. E' è un altro riformista, certo, e però blasonato, il Luca scapigliato. Riforma, quindi: delle istituzioni, della politica, - e si capisce - della macchina amministrativa. E' così. Montezemolo, che nell'Italia della prima repubblica si è fatto nome e strada e in quella della sedicente seconda ha dato una mano agli sfasciacarrozze, ora si sente pronto per il grande balzo: vuole l'Italia della terza repubblica, che ha i tempi dell'azienda e del decisionismo dei padroni del vapore, e ce l'ha - novità sconvolgente - col debito pubblico, con la spesa "improduttiva" e - stupefacente - con chi le tasse avrebbe dovuto pagarle e non le paga! Le pagherà, promette, anche l'imprenditore, ad una condizione che gli appare onesta e trasparente: s'allenti la pressione fiscale e Lapo Agnelli paghi, più o meno, quanto il signor Rossi.
A Prodi e Berlusconi non l'ha mandata a dire: gli imprenditori italiani non sono disposti a pagare un euro in più. Qualcuno l'ha pensato, me nessuno lo dice: le tasse gli imprenditori non le hanno mai pagate. Ma si sa, questi sono i tempi e le illusioni pericolose sull'equità fiscale vanno stroncate sul nascere.
La scuola nuova dell'uomo del destino non chiede sconti a Berlnguer, non s'impantana nelle incertezze della Moratti e se la ride del giravite di Fioroni. Destra e sinistra ormai sono avvertite: se i killer hanno fallito, il capitale mira diritto al cuore di ciò che resta della democrazia. Montezemolo s'è inventato la cultura dell'innovazione, quella che ti trasmette il gusto dell'intrapresa e salta il fosso della formazione: una scuola che insegni ciò che serve nel mondo del lavoro. Il caudillo ha l'occhio del mestiere e scava a fondo. Tre sono le emergenze: i ragazzi che non si iscrivono alle scuole tecniche, i giovani che studiano troppa storia e troppa filosofia e i dirigenti scolastici che non possono scegliere i docenti o, se volete, i cani del padrone.
Il futuro s'è fatto d'improvviso rosa. Avremo un vero apprendistato, che ci darà operai finalmente moderni, ben disposti ad accettare razionalizzazioni e processi di normalizzazione. Per questa via Montezemolo vede passare l'ansia di rinnovamento del nostro illuminato padronato. E' la via per la quale passano Bolkestein e la sottomissione definitiva dei lavoratori. La via di un'altra ansia - quella vera - contro la quale altro non hai da opporre che dosi massicce di bromazepina.

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 dal manifesto    - 26-05-2007
Confindustria di governo

Montezemolo saluta e si propone come salvatore della patria per il 2015. Ma non fa che ripetere la critica consueta ai politici spreconi

Diceva Churchill: «Il comunista pensa che fare profitti sia vizioso»



Abbiamo salvato l'Italia. Abbiamo lavorato duro, quando tutti si lamentavano per la stagnazione e ora siamo qui a rivendicare i nostri meriti, davanti al mondo, davanti ai venti ambasciatori e ai quattordici ministri venuti ad ascoltarci. Così comincia l'ultima fatica di Luca di Montezemolo, di fronte al plenum della Confindustria. Montezemolo si ascolta, mentre gira intorno al suo obiettivo: quello di prendere congedo dai suoi pari e proporre loro un percorso di comando politico nella società italiana. L'espediente è quello di spiegare alla Politica quello che la Politica non sa o ha dimenticato. Vi piaccio più io o più i comunisti?, chiede Montezemolo ai suoi. E cita Churchill, per convincerli meglio. Se vi piaccio più io, allora sostenetemi nella futura partita, fissata al 2015, e in attesa, nei «giri di circuito». Come è noto, le sue metafore sono per lo più sportive.
Bisogna aspettare la pagina 25 della relazione agli associati di Confindustria perché il presidente Luca di Montezemolo pronunci per la prima volta il concetto di «democrazia», in una frase peraltro assai difensiva: «La garanzia di un compenso per svolgere attività politica è stata una conquista democratica e come tale va rispettata e difesa». Montezemolo si è ormai addentrato e da parecchio, nella parte principale del suo discorso: il grande progetto politico, la visione per il fatidico 2015. La democrazia è emarginata. La repubblica che ci viene proposta è al massimo «meritocratica». Ma anche il merito è una parola vuota, perché viene inteso come il «premiare chi merita». Nessun sostegno a chi si impegna ma non ce la fa, nessuna parità nelle condizioni di partenza, che sono gli aspetti di una meritocrazia non proprio imperiosa. Delle donne, si rimpiange il fatto che hanno difficoltà nell'impiego e poi che gli asili nido sono pochi. Ci pensi il governo, ci pensi la spesa pubblica. Gratta gratta Montezemolo e sotto la realtà non cambia.
La repubblica che Montezemolo ci prepara si situa invece molto a destra di Nicolas Sarkozy: genere Le Pen, insomma. E anche i confindustriali ieri sembravano perplessi. Il progetto verte in primo luogo sulla concorrenza che «in politica è altrettanto importante che in economia. E in politica la concorrenza significa sistema elettorale». Montezemolo assicura di non badare tanto ai sistemi elettorali «non sta a noi indicare quale sistema rappresenti la scelta migliore per il Paese». Ma certo occorre fare presto, affinché sia consentito «ai migliori di emergere e governare e (si) dia agli elettori la possibilità di scegliere senza liste prefabbricate». Risolto così il problema del voto e dei partiti, bisogna riformare la Costituzione a colpi di «economia di mercato e libera concorrenza che sono oggi valori europei». La frase della Costituzione all'articolo 42, sulla proprietà che può essere «pubblica o privata» probabilmente brucia l'animo di qualche liberista. Poi occorre rafforzare il governo dando più poteri al premier, «dandogli un vero potere di nomina e di revoca dei ministri». Infine bisogna separare le competenze di Camera e Senato, «evitando quell'avanti e indietro di provvedimenti che è un fenomeno tutto italiano».
Dopo aver sistemato governo e parlamento, si passa al federalismo. Qui corrono le belle parole vuote: «trasparenza», «responsabilità», «comportamenti virtuosi». Anche Montezemolo si accorge di pestare aria nel mortaio e allora cala l'asso di briscola: «facciamo ad esempio una specie di business plan per l'abolizione delle province». Cominciamo a bloccare quelle in arrivo e «variamo un progetto condiviso per cancellare quelle esistenti entro qualche anno». Gelo in sala. Confindustria, come sanno bene i presenti, è strutturata su base rigidamente provinciale. Anche molte delle nuove province, come Oristano o Verbania, sono fornite di regolari Confindustriette. I problemi di decentramento e federalismo non sono tanto semplici da risolvere.
E' più facile il compito di Montezemolo quando passa a recitare i capitoli più conosciuti dei costi della politica. Ma non vola alto. «La politica è la prima azienda italiana, con quasi 180 mila eletti». I costi italiani equivalgono a quelli di Francia, Germania, Regno unito e Spagna presi insieme. I partiti costano 200 milioni ai contribuenti, contro i 73 milioni della Francia. «Stime recenti parlano di un costo complessivo della politica vicino ai 4 miliardi di euro. In quale altro paese...» la politica costa così tanto? E così via. E poi finalmente una critica quasi ragionevole: se almeno ne valesse la pena.... Ma «ci imbarazza il costo altissimo di un sistema che ha perso efficacia e stenta a produrre risultati».
Tocca a Bersani
Pierluigi Bersani è il ministro dello sviluppo economico e risponde a nome del governo Prodi al discorso politico di Montezemolo. Se non avesse altro da fare, Bersani potrebbe proporsi alla guida della Confindustria, l'anno prossimo. Sa spiegare in modo convincente i meriti dell'industria italiana, paragonabile nel mondo solo a quella tedesca e giapponese. Questo è il vero orgoglio del «fare industria», essere paragonati alla Germania. E Bersani tratta i problemi dell'industria per quello che sono, sia pure dal punto di vista degli industriali; e parla della concorrenza straniera come di un problema, dell'euro, come di un altro problema. Parla del vero «tesoretto», quello sotto terra, quello sommerso, in nero, che, poco per volta, può essere scavato fuori. «Il governo ha ben chiaro cosa fare nel prossimo anno: dare fiato alla ripresa economica e dare sollievo alle questioni sociali».
Se Bersani avesse parlato al sindacato, le parole sarebbero stateo uguali, ma le questioni sociali sarebbero passate prima e la ripresa economica dopo. E poi: «Il solco tra politica e società non si colma col frastuono e con l'invettiva, né seminando vento». Ma sono parole esagerate per un Montezemolo. Al massimo farà il deputato dell'Udc.


Guglielmo Ragozzino


 il Manifesto    - 26-05-2007
«Modello Austria»: settimana di 60 ore


Il presidente degli industriali chiede flessibilità: meno tasse sugli straordinari, orari più lunghi


A parte il Montezemolo politico, che ovviamente ieri ha tenuto banco, c'è una discreta parte della relazione del presidente della Confindustria (comunque una porzione ridotta del testo) dedicata al «patto della produttività» da proporre ai sindacati. Un refrain confindustriale ormai dominante da tempo, che sostanzialmente si può riassumere in un brano del discorso che riportiamo: «L'Austria - spiega il capo degli industriali - ha recepito nella legislazione accordi che consentono orari fino a 60 ore settimanali». Ci permettiamo di tradurre: Montezemolo vorrebbe operai che fanno 10 ore di lavoro per 6 giorni consecutivi, o forse 12 per 5 giorni (in modo da conservare almeno il weekend). O piuttosto, per avere giornate più sostenibili, è opportuno distribuire le classiche 8 ore (in realtà sarebbero necessarie 8,5) su 7 giorni?
In questo caso il presidente degli imprenditori si riferisce al recepimento di una pessima direttiva europea, quella sugli orari di lavoro (diventata legge in Italia con il decreto 66 del 2003, targato Berlusconi), che proprio in queste settimane Federmeccanica e Federalimentare chiedono ai sindacati di accettare ai due tavoli dell'industria più importanti. Ma c'è anche la richiesta di un sostanziale abbandono del contratto nazionale e del via libera al salario variabile, altro tarlo confindustriale: «Ci sono cose che si devono fare subito - riprende Montezemolo - ampliare gli spazi di flessibilità, ridurre il costo contributivo e fiscale degli straordinari, incentivare la contrattazione di secondo livello, legando gli aumenti salariali ai risultati aziendali e alla produttività. Ciò vale per il settore privato e, a maggior ragione, per il settore pubblico». Il pubblico è citato non a caso, perché nella relazione sono ripetuti gli attacchi ai «fannulloni» e l'invito a realizzare un «sogno» proposto all'Italia: «che conti solo il merito». Così si taglierebbero tante spese improduttive, alleggerendo il debito pubblico e dunque le tasse a carico delle imprese.
Tornando comunque ai contratti privati, Montezemolo ha lamentato che le sue proposte sono «ancora impopolari in qualche settore del sindacato e francamente non capiamo perché». L'impresa «vuole seguire l'Europa: penso ai contratti a termine, al lavoro interinale, agli orari di lavoro». Così «abbiamo bisogno di ammortizzatori sociali moderni» e «la legge Biagi va completata, non certo ridotta» (come il centrodestra chiama la 30 «Biagi»). Insomma: «Un sindacato che vuole essere classe dirigente, con tutti i suoi componenti nelle istituzioni pubbliche, non dice sempre di no, e sa valutare i veri interessi dei lavoratori».
Come dire: il sindacato non sia diretta rappresentanza dei lavoratori, ma facendo parte della stessa «casta» dei politici sappia capire i bisogni dei gruppi di potere e si adatti a fare compromessi. In effetti Montezemolo declina a suo modo un'intuizione azzeccata: uno dei mali peggiori dell'attuale sindacalismo è proprio il suo confondersi con i partiti e il ceto politico, dimenticando i lavoratori.
Il ministro delle Attività produttive Pierluigi Bersani ha risposto mostrando enorme sintonia e prendendo diversi applausi: straordinario trait d'union tra il Pd e i confindustriali. Ha spiegato che «i tavoli ci sono apposta per decidere entro giugno: si può trovare un punto di equilibrio su secondo livello, flessibilità degli orari e sovracontribuzioni». Idem per «gli ammortizzatori sociali, per affrontare la precarietà». Bersani non cita mai la legge 30, evidentemente concorda con Montezemolo, mentre al contrario i tanti elettori dell'Unione ricordano che nel programma sottoposto al voto si parlava di «contrarietà» a quella legge e di necessità di un suo «superamento».
Bersani insiste su quanto già fatto per allontanare la «spada di Damocle del debito pubblico, con un solo colpo di barra» (la finanziaria), cita le liberalizzazioni, «che dovranno proseguire» (prendendo altri applausi), e infine fornisce un elenco di priorità che è proprio il ritratto del Pd, lontano anni luce dai problemi dei dipendenti, dei precari, dei pensionati: «il nostro primo obiettivo è consolidare la ripresa»; «poi dobbiamo dare qualche sollievo alle situazioni sociali più acute». Meno male che c'è la carità

Antonio Sciotto