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Terrorismo, i figli che non dimenticano
l'Unità - 08-05-2007
Lettera aperta a Gemma Calabresi

Cara Gemma, ho appena chiuso Spingendo la notte più in là, il libro che ha scritto Mario, il primo dei tuoi figli. Un libro inquieto e inquietante. Un libro doloroso. Che si trascina dietro, con levità di stile ma con pesantezza di cuore, un pezzo opaco della storia d'Italia. Che obbliga più volte a fermarsi e a guardarsi indietro quando invece è scritto, e lo dice, e lo si capisce, per potere finalmente guardare avanti. Strano destino per un libro. Essere scritto per potere entrare nel futuro ed essere letto con le dita che cercano il passato.

Un passato che non passa. Luigi Calabresi. Il commissario Calabresi. Piazza Fontana. Pinelli. Lotta Continua. Fino al 17 maggio del 1972, trentacinque anni fa. Un terzo di secolo fa, un tempo immenso. Che torna, che prende per la gola. Ma chi l'ha detto che la storia è una sequenza infinita di chiodi, che uno scaccia l'altro? No, ci sono dei chiodi che proprio non si scacciano. E non solo per voi, la famiglia del commissario ucciso, intendo, che quel chiodo ve lo siete tenuto conficcato nell'animo. Ma per tutti. Tuo figlio Mario aveva due anni allora. Te lo trovasti aggrappato alle gambe quando venne un amico di famiglia a portarti la notizia. E da quel giorno per lui è incominciato un cammino scosceso e interminabile. Cercare di ascoltare il padre scomparso, risentirne la voce che racconta una favola mettendosi accanto a un magnetofono Geloso, seduto sul pavimento con i fratellini. Avere paura della vasca di sabbia a scuola, perché maneggiando quella sabbia aveva partecipato al gioco micidiale: ogni bimbo dica che cosa fa alla spiaggia con il padre; e lui non volle essere diverso dai suoi compagni, e disse che il papà gli faceva i castelli di sabbia, e il suo compagno lo denudò davanti a tutti gridando non è vero, tuo padre è morto, gli hanno sparato, me l'ha detto mia madre. O marinare la scuola a quattordici anni per andare in biblioteca a cercare con pazienza la storia del proprio padre sui giornali di quindici anni prima. Per vedere che cosa scriveva Lotta Continua.

Ma anche per vedere che cosa scrivevano i giornali moderati, senza mai trovare una sola parola in sua difesa. O a un certo punto, a diciotto anni, trovarsi scaraventato con te e gli altri fratelli dentro un processo, quello nato dalle dichiarazioni di Marino, con Sofri, Pietrostefani e Bompressi in veste di imputati. E la ricerca di una ragionevolezza, di un equilibrio, dentro una vita che è diventata pubblica, insostenibilmente pubblica, ma che è in realtà la vita più intima e privata, con il dolore muto, fondo che ci si porta dentro dall'età di due anni.

Robinson Crusoe era stato il libro dell'infanzia di Mario. Il libro del naufragio. Perché un naufrago, nulla di diverso, e lo confessa, si sentiva. Sbalzato in mare da una tempesta della storia. Da un impasto di fatti e di persone infinito, che non sarebbe mai riuscito a ricostruire per intero. Nemmeno facendo della sua adolescenza un faticoso viaggio alla ricerca della verità mai raccontata da nessuno.

Mi rendo conto che di Mario sto parlando, del tuo figlio maggiore. E qualcuno potrà dunque chiedersi perché non mi limiti a recensire questo suo libro. O perché, volendo scrivere una lettera aperta, non l'abbia indirizzata a lui, anziché a te. La ragione è semplice. Conosco Mario da tempo, da quando iniziò a curiosare, credo ancora liceale, nelle pieghe della politica milanese. Ne ho seguito i tormenti, pacati ma indomabili, di ragazzo che andava alla conquista del suo passato, del «perché» che aveva segnato la sua esistenza. Ne ho poi visto lo stupore quasi annichilito quando da cronista dell'Ansa in parlamento doveva fronteggiare le richieste di amnistia, doveva confrontarsi, senza avere la loro forza e nemmeno la loro candida malizia, con i teorici della riconciliazione.

Con chi chiedeva a lui, a voi, di dirvi d'accordo con la grazia. Quando, a distanza di un quarto di secolo, di nuovo sulla vostra famiglia veniva scaricato il peso della ambiguità politica del paese. Prima per eseguire la condanna del mostro, del Calabresi assassino, il volto impresentabile dello Stato. E ora di nuovo per liberarsi la coscienza, nell'ansia di una redenzione gratuita, la voglia di non fare i conti con la storia. La storia addosso a voi la prima volta senza chiedervi l'autorizzazione. Addosso a voi la seconda, chiedendovi l'autorizzazione che avrebbe «finalmente chiuso con gli anni di piombo».

Ecco, queste cose le ho viste. A volte anche da vicino. E ogni volta ho colto in Mario la stessa pacatezza, lo stesso rigore che c'è nella pagine di questo libro. Non infierisce su nessuno. Non dice una parola di troppo su nessuno. Si interroga. Rimette ogni volta i cocci insieme. Risistema con pazienza questo puzzle che non si completa mai. Non concede nulla alla superficialità, ai luoghi comuni su «un'intera generazione». Ma non concede nulla nemmeno a voi. Riconosce che non possono essere i familiari delle vittime a decretare che cosa sia giusto fare o non fare, da parte dello Stato. Si pone da solo tutti quei limiti, di correttezza e di equilibrio istituzionale, che nessun dolore, neanche il più grande, può forzare. E quanti episodi si astiene dal citare, e quanti nomi dal fare, perché non appaia nemmeno l'ombra del rancore in questa sua riflessione.

Ebbene, Gemma, io credo che dietro questi figli che non hanno dimenticato, ma che sono stati educati a ricordare, e al tempo stesso a non odiare, a rispettare tutti, le istituzioni come i loro nemici; dietro questi figli desiderosi di andare oltre il destino, di non ignorarlo e di non rimanere nemmeno nel suo grembo, ci sia una presenza. La presenza di qualcuno che li ha aiutati sorreggendoli e sorreggendosi con una forza straordinaria. Ci sei tu che governi con fatica una prova capace di schiantare chiunque. Tu che incinta del terzo figlio ti sei sentita nelle orecchie, il giorno dell'obitorio, i fischi dei rivoluzionari che tifavano per la giustizia proletaria, tu che per anni sei vissuta dimenticata da quasi tutti, forte solo del tuo stipendio di insegnante di religione. Tu dietro questa vicenda di decoro e di verità impronunciabile; perché neanche l'autorevolezza e l'indipendenza di Gerardo D'Ambrosio, che su quella notte in questura indagò con ogni scrupolo, sono mai riuscite a rendere la vostra verità capace di perforare i pregiudizi che portarono al linciaggio. Tanto che dopo vent'anni toccò proprio a Mario imbattersi, in un brillante salotto milanese, in quella signora che ti svillaneggiava come la donna «riempita di soldi e che ancora parla, avrebbero dovuto ammazzare anche lei».

C'è una serenità impossibile, una forza interiore, un senso della democrazia e del vivere civile, una dimensione della speranza che bisognerà pure che qualcuno ti riconosca, al di là della rituale e a volte strumentale solidarietà per la «vedova Calabresi». Lo so, me li immagino già i sorrisini insofferenti per quel che sto dicendo. Questo è un paese che scambia la riconoscenza con la retorica. E che la retorica dice di averla in odio. Tanto in odio che la usa solo e sempre per celebrare i potenti vivi e a volte per ricordare i morti che non ingombrano. Che non spreca una parola di generosità per chi esprime la semplice grandezza della vita quotidiana.

Forse anche per questa consapevolezza, quando ho chiuso il libro di Mario, la prima cosa che ho pensato è che avrei dovuto ringraziarti. Lo faccio ora, sperando che molti altri sentano il bisogno di farlo.

Nando Dalla Chiesa

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