Guardavo il telegiornale e il servizio che andava in onda parlava di scuola, di studenti, di bullismo. Un telefonino aveva ripreso tutta la scena, il bullo che dall'ultimo banco scagliava un astuccio all'indirizzo della professoressa che stava scrivendo alla lavagna, colpendola alla nuca. Gli altri alunni seduti immobili come se nulla fosse accaduto, mentre l'insegnante in lacrime fuggiva dalla stanza.
Osservando la scena alla televisione, ho sentito un brivido percorrermi la schiena: in quei fotogrammi, quel ragazzo nascosto dall'ultimo fila, quel lancio codardo a colpire alle spalle, ho rivisto un altro bullo allo sbaraglio, in quei ragazzi educatamente seduti ai loro banchi, ho ricordato altri compagni, in quella fuga scomposta l'umiliazione di altre persone incolpevoli.
Il telegiornale mi ha rispedito a una classe anonima, dove rimanere un figurante non protagonista del proprio vivere, e diventare "diverso" a scuola, in famiglia, nella strada, è stato il passo più breve per fare conoscenza dapprima con un carcere per minorenni, poi con il resto del panorama penitenziario.
Le risate dei ragazzi intorno al bullo risuonano come mine vaganti, il filmato ne conserva i ghigni soddisfatti, e in questa desolante attualità, fanno capolino i genitori diventati specialisti forensi, protesi all'assoluzione in formula piena, mentre gli stessi professori sono ridotti a semplici trasmettitori di mere nozioni, poco interessati alla tecnica dialogica, che però consente di instaurare relazioni importanti, che portano alla conoscenza delle retrovie dove scorrono le ansie, il panico, le solitudini, i progetti immaturi che disconoscono le mediazioni.
In quelle immagini si percepisce una sensazione amara di angoscia, con la tentazione di scrollare le spalle per non chiedersi chi fermerà la mano di quel ragazzo, per evitare una seconda volta che potrebbe rasentare la tragedia, e ci faccia sentire tutti coinvolti, nessuno escluso dal farci i conti.
Senz'altro è importante che specialisti e riferimenti autorevoli sinergicamente facciano sentire il peso delle loro professionalità, con la messa in rete di interventi capaci, ma forse occorre un'azione ancor più incisiva, e soprattutto invasiva, occorre dare e fare testimonianza attraverso il proprio vissuto, la propria storia personale, dolorosa e inquietante, a tal punto da mettere con le spalle al muro il rischio di una infantilizzazione che nasconde fragilità e vuoti esistenziali.
A un giovane arrabbiato non è la predicozza a colpirlo sul mento, bensì il porsi a fronte mettendo insieme il coraggio sufficiente per spiegare la sofferenza che può scaturire da un gesto estremo.
Giovani studenti travestiti da guerrieri, a rimarcare la mancanza di rispetto del mondo adulto, affascinati dalla scoperta della violenza tra i pari, perdendo contatto con le ore ferme, ripetute, nel bisogno di fendere l'aria con il taglio della mano, nel tentativo di rincorrere il tempo che si allontana........senza però raggiungerlo mai, anzi perdendone i pezzi migliori, quelli più importanti, perché non ritorneranno più.
Gabriele Uras - 15-04-2007
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L'episodio descritto è grave, anche perché è verisimile, la descrizione è suggestiva e compenetrata della gravità del gesto; è anche capace di segnalare il dramma penoso e raggelante della fuga dell'insegnante, e l'entità dell'umiliazione inflitta. Gesto gratuito o stupida vendetta? E come interpretare l'indifferenza della scolaresca immobile? Impaurita dal bullo, distratta o complice? Beh, complice comunque, ma anche ignara di essere stata anch'essa offesa. Episodio difficile da gestire, ma V.A. non esplicita in maniera compiuta le sue vedute al riguardo e non chiarisce fino in fondo le sue proposte, si limita a soffrire e ciò lascia un po' perplessi. Ma in effetti, solo in situazione è possibile trovare il giusto modo di intervenire. Da lontano si può solo tentare di analizzare le cause, che sono molte e ci coinvolgono tutti, e anche questo deve essere fatto. Ma saremo capaci di rimettere in discussione il nostro ruolo di adulti? Perché il problema sta tutto lì: siamo tanto intenti a vivere la nostra vita nella pienezza dei suoi significati, e delle sue convenienze e comodità, che dimentichiamo facilmente di donare ai giovani ciò di cuia hanno bisogno per crescere. Per loro infatti vivere significa crescere. E il nostro dare di adulti, se deve avere qualcosa di pedagogico, deve acettare la legge del limite, e anche della rinuncia, in qualche misura, ad essere noi stessi, per non turbarli, per non aumentare la loro fatica di crescere. |