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Guerra e pace
Redazione - 24-03-2007
Riceviamo e pubblichiamo. Red

Tutto lo staff italiano di Emergency, i collaboratori e i volontari esprimono la loro solidarietà e il loro affetto a Rahmatullah Hanefi e alla sua famiglia così come ai colleghi dell'ospedale di Lashkar-gah, in Afganistan.
Confidiamo in una rapida liberazione di Rahmatullah e speriamo in una risoluzione positiva della vicenda che coinvolge l'interprete Adjmal Nashkbandi.
Mentre inoltriamo questa News letter, infatti, di Adjmal Nashkbandi, sequestrato con il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo, con cui collaborava come interprete, e liberato con lui, non si hanno notizie.
Rahamtullah Hanefi, dipendente di Emergency nell'ospedale di Lashkar-gah, che si e' impegnato per rendere effettive le azioni richieste dal governo italiano, e' stato arrestato dalla polizia del governo afgano all'alba di martedi' 20 marzo. Il perdurare incomprensibile della sua detenzione e' motivo di estrema preoccupazione per la sua sorte.
Entrambe queste situazioni si collocano all'interno delle azioni compiute dal governo italiano per ottenere la liberazione di Mastrogiacomo e deve ritenersi scontato, non semplicemente auspicabile, che il governo italiano consideri questi problemi urgenze sue, sulle quali immediatamente intervenire.

Flavio Catalano


NON VOTATE LA GUERRA VIA LE TRUPPE ORA

Per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan e dagli altri fronti di guerra

Libertà per il popolo afgano, libertà per Adjmal e Hanefi

Chiusura della basi Usa e Nato

No alle spese militari

I senatori/trici, eletti/e con i voti del popolo no-war, non si coprano di vergogna tradendo il mandato elettorale, e votino contro il decreto che finanzia le missioni di guerra

27 MARZO ore 16 A ROMA SIT-IN DAVANTI AL SENATO (P.Navona)

Comitato 17 marzo

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 da Nigrizia    - 24-03-2007
«Se la chiesa avesse il coraggio di scomunicare chi fa la guerra…»

Intervista a padre Alex Zanotelli sul pensiero pacifista di don Milani. A cura di Mario Lancisi (contenuta nel libro "No alla guerra!" Piemme Edizioni 2005 - pagg. 208 - € 12,50)

Quando ha letto L’Obbedienza non è più una virtù?

Ho letto il libro in Sudan, ed è stato per me una delle letture chi mi ha più colpito e influenzato della letteratura religiosa italiana del secolo scorso.

In particolare cosa la colpì di quel testo?

Prima di tutto per me era assolutamente nuovo il tema dell'obiezione di coscienza. Così come, prima di don Milani, non ho mai pensato alla guerra, al sistema militare e alla minaccia atomica come peccato. La dimensione etica di quei problemi non mi apparteneva. È stata L'Obbedienza non è più una virtù ad aprirmi gli occhi.

Nella Lettera ai Cappellani militari don Milani si rifiuta di considerare la patria come una divisione tra italiani e stranieri e sostiene che l'unico concetto di patria che gli appartiene è quello che divide il mondo in oppressi e oppressori.

Quando per la prima volta ho letto quella frase mi ha molto impressionato. A Milani va dato il merito di aver posto per primo il problema dei poveri in chiave planetaria. Secondo il Vangelo il povero, l'emarginato, chi soffre non è mai straniero. Per cui per il cristiano la patria non è un concetto che esclude - come fa la legge Bossi-Fini, ad esempio - ma include. Don Milani si sentiva "patriota" di tutti i poveri del mondo. L'"I care", mi preme, scritto sulle pareti di Barbiana significava il superamento dei rigidi confini geografici per allargarsi al mondo dei bisogni e delle povertà.

Nella Lettera ai giudici sono contenuti temi di grande attualità come il rifiuto della guerra, anche di quella "giusta" perché i conflitti armati nell'èra contemporanea colpiscono i civili. Il "mai più guerra" di don Milani che influenza ha avuto nel movimento della pace e della non violenza?

Direi profonda. Un'influenza che storicamente assume un valore profetico ancora maggiore se teniamo presente che siamo nel 1965 e il Concilio si era già concluso da un anno senza essere riuscito a fare propria la presa di posizione della Pacem in terris. Inoltre il Concilio non era riuscito a parlare della bomba atomica come peccato. Don Milani era tra coloro che avevano percepito come dopo il lampo di Hiroshima non ci poteva essere più una guerra giusta. È in questo contesto atomico che Milani rafforza il suo giudizio deciso contro la guerra. E non solo perché la guerra colpisce i civili ma soprattutto perché è intrinsecamente immorale. La guerra deve diventare un tabù come l'incesto, ad esempio.

Un altro tema molto forte è quello dell'analisi milaniana sulle guerre combattute dall’Italia, dal Risorgimento alla 2º guerra mondiale. La conclusione a cui perviene il priore di Barbiana è che tutte le guerre sono state fatte dalla classe dominante, dai ricchi, dai potenti mentre i poveri sono stati mandati al fronte a morire per i loro oppressori.

Sì, tema forte, fortissimo. Uno degli aspetti che mi aveva colpito di più, leggendo la "Lettera" fu proprio la differente lettura della storia italiana tra me e don Milani. La storia dipende infatti dal punto di vista in cui uno decide di leggerla. Don Lorenzo la leggeva dalla parte dei poveri, degli sconfitti mandati ad esempio allo sbando sul fronte delle prima guerra mondiale. Tutto questo ha pesato moltissimo sul movimento per la pace italiana.

Ho parlato a lungo con Tonino Drago, dell'università di Napoli, uno dei grandi ispiratori della non violenza attiva in Italia.

Gli ho chiesto come mai proprio a Napoli si è sviluppata questa attenzione? E lui mi ha risposto che tutto nasce negli anni Sessanta dalle posizioni dei pacifisti cattolici, da Dorothy Day, la pasionaria americana, cattolica, che fondò il giornale "Catholic Worker", da Lanza Del Vasto, dalle piccole sorelle del Vangelo che si trovavano a digiunare davanti a San Pietro per cercare di attirare attenzione e di portare la non violenza attiva all'interno del Concilio e bollare la guerra atomica. In questo contesto si inquadra anche l'apporto fondamentale di don Milani.

Don Milani scrive che "nessun cristiano può partecipare alla guerra nemmeno come cuciniere" e, riprendendo Gandhi, contesta anche la Croce Rossa. Questo è un tema molto sentito, che si pone spesso, anche Gino Strada, del fatto cioè che non si può fare la guerra e poi andare dietro con le autoambulanze e fare i cuochi o i cappellani.

Io penso che anche in questo Milani è stato chiarissimo, soprattutto sui cappellani militari che, per come sono oggi concepiti e strutturati, sono parte integrante della guerra, perché sono militari a tutti gli effetti, pagati dall'esercito.

Come mai 40 anni dopo la Chiesa è ancora così titubante incerta e non ha la forza per gridare, come Paolo VI all'Onu: "Mai più guerra"?

La ragione fondamentale è questa: la Chiesa potrà dire questo solo quando finalmente farà il passo finale, rinunciare all'essere religione civile. Purtroppo la Chiesa per tanti secoli è diventata religione civile, ha benedetto imperi ecc. Non è questo il suo compito, ma quello di essere coscienza critica per la società. Nasce da questo contesto la richiesta che più volte ho avanzato, cioè se la Chiesa vuole uscire da questa eredità di religione civile, una delle cose importanti da fare è che il Vaticano rinunci ad essere Stato.

Non è concepibile che il Papa sia anche Capo di Stato, questo mette in moto tutta una serie di trappole, la diplomazia ecc. Per cui è chiaro che bisogna barcamenarsi poi da tutte le parti. Il magistero della Chiesa deve avere il coraggio di proclamare come dogma di fede il fatto che è stato Gesù di Nazareth ad inventare la non violenza attiva. Non è stato Gandhi.

Gandhi lo ha imparato dal Vangelo e se la Chiesa ha il coraggio di proclamare questo apertamente, produrrà nel cuore della gente una rivoluzione enorme, un salto di qualità incredibile, e soprattutto in questo momento gravissimo aiuterebbe l'umanità ad uscire da questa follia bellicista in cui si trova.

L'obiezione al "No guerra" è questa: come si dirimono i conflitti internazionali e come si combatte il terrorismo se si rinuncia alla forza armata?

Ormai è sempre più chiaro che il terrorista più lo combatti con la guerra, più diventa terrorista, la violenza produce violenza, fango produce fango. Dobbiamo ritornare a credere al Vangelo della non violenza. Il male si vince con il bene, con la logica della non violenza. Qualcuno dirà che questo può valere a livello personale mentre non si può obbligare a questo un paese, tutta la società.

Ma noi siamo convinti che a questo punto della storia, l'umanità deve fare un salto di qualità. Dalle ultime statistiche abbiamo letto che abbiamo abbastanza bombe atomiche da far saltare 4 volte il mondo per aria. Stati Uniti e Russia hanno dimezzato del 50 % armi nucleari, chimiche e batteriologiche, ma abbiamo ancora abbastanza armi per uccidere la popolazione mondiale 5 mila volte. Abbiamo oltre 340 tonnellate di plutonio. Ne bastano 150kg per uccidere tutti. È la follia totale in cui ci siamo cacciati. Pertanto o l'umanità riesce ad uscire fuori dalla follia totale della guerra oppure ne saremo tutti travolti.

Che cosa deve fare il cristiano per essere costruttore di pace?

Credo che la strada sia stata indicata da Giovanni Paolo II, il 30 novembre 2003, quando all'Angelus, ha detto: "Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione! ‘Beati i miti, perché erediteranno la terra' (Matteo 5,5)". In queste parole è indicata la strada per i credenti nel senso che per le religioni e per le Chiese non è più tempo di silenzi e connivenze di fronte ai conflitti bellici e all'instaurarsi del "pensiero unico" della guerra, intesa ormai come unico mezzo per risolvere le controversie e per far girare l'economia.

Inoltre il papa indica un intreccio tra nonviolenza, perdono e riconciliazione. Si tratta di tre tappe dello stesso percorso, per il quale non si dà l'una senza le altre. Ai cristiani spetta il compito di diventare "maestri" della pedagogia della nonviolenza e i portatori sani di quella che Bernard Häring definiva la "forza terapeutica" della nonviolenza.

Il papa fa un richiamo preciso alla beatitudine della mitezza. Perché?

Non credo che il Papa l'abbia utilizzata come un abbellimento letterario. Sono convinto, che la nonviolenza ha la sua radice proprio nella Parola di Dio e nello stesso Cristo, modello di nonviolenza. Essa non è una delle tante teorie prodotte nella storia dell'umanità o da qualche personalità eccezionale, come Gandhi o Martin Luther King. Al contrario, la nonviolenza evangelica è la sintesi di quel comandamento nuovo, cioè di quell'ordine nuovo, di amarci come Dio ci ama e, addirittura, di amare i propri nemici.

Cos'era in definitiva per Gesù la non violenza?

Per Gesù la nonviolenza rappresentava il superamento della logica del vecchio Testamento dell' ‘occhio per occhio, dente per dente’. "Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli l'altra" (Mt 5,39), diceva Gesù. Per colpire uno sulla guancia destra bisogna usare il manrovescio e al tempo di Gesù veniva usato dal padrone per umiliare lo schiavo. Gesù dice: "Mettiti in piedi fratello, tu sei un uomo, non uno schiavo! E porgigli la guancia sinistra".

Se chiude la mano o usa il pugno della mano, il padrone è costretto a trattare lo schiavo come suo pari. In un mondo di onore e umiliazioni, si è impedito a un pre-potente di svergognare un "inferiore" in pubblico. Gli è stato sottratto il potere di disumanizzare l'altro. Come insegnava Gandhi, "il primo principio dell'azione nonviolenta è la non cooperazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare”.

Il compito della Chiesa?

La nonviolenza attiva deve diventare una dimensione essenziale della sequela cristiana. Le Chiese devono avere il coraggio di proclamare che è Gesù che l'ha praticata nella sua vita. Se la Chiesa scomunica chi abortisce o dice che non può fare la comunione una donna che usa i contraccettivi, non dovrebbe scomunicare chi va a bombardare in una guerra come quella contro l'Iraq ritenuta "immorale" dal cardinale Martino e "criminale" dal cardinale Tauran?

 Peacereporter    - 25-03-2007
Gino Strada: ''Abbiamo fatto quello che ci chiedevano

Le polemiche sulla liberazione e i prigionieri ancora da liberare


Gino Strada in questi giorni ha un altro prigioniero da liberare: Rahmatullah Hanefi, manager dell'ospedale di Emergency a Lashkargah. E stato portato via da uomini dei servizi segreti afgani martedì 20, all'alba, da allora non se ne hanno notizie: nessuna informazione sulle sue condizioni, sulla sua "detenzione" o sui motivi che l'hanno determinata è stata comunicata alla sua famiglia o a Emergency. Non sono state formulate accuse contro di lui né è stato prodotto alcun documento ufficiale che spieghi perché, da martedì mattina, Rahmatullah Hanefi si trovi nella sede dei servizi segreti a Lashkargah senza possibilità di comunicare con l'esterno. Grazie a Rahmatullah, Daniele Mastrogiacomo è oggi a casa tranquillo. Eppure, non si percepisce grande attenzione sulla sua sorte e impegno istituzionale per liberarlo. Come fosse, e sono in molti a sostenerlo, che Emergency e Gino Strada avessero strappato e gestito autonomamente la trattativa con i talebani.
"Non siamo noi ad essere intervenuti", dice seccamente Gino Strada. "Ci è stato chiesto, mi è stato chiesto di intervenire, di provare a fare qualche cosa. E tutto quel che ho fatto o detto è stato concordato".

Quando ti è stato chiesto di intervenire? E chi te lo ha chiesto?

Ero in Sudan, a Kartoum, dove stiamo per aprire un centro di cardiochirurgia di altissimo livello che cercherà di soddisfare – gratuitamente per tutti – il fabbisogno di una regione vasta più dell'Europa intera. Decisamente in tutt'atre faccende affaccendato, quando ho ricevuto la prima telefonata.

Chi ti ha chiamato?

Prima mi ha chiamato la Repubblica, il direttore Ezio Mauro. Poi sono stato contattato dal Governo italiano. Entrambi, il giornale e il Governo, mi hanno chiesto di attivarmi per portare a casa Daniele. Sapevano del ruolo di Emergency, del rapporto che Emergency ha con la popolazione afgana, della stima e dell'affetto che ci circondano in questo paese. E io mi sono subito attivato, ovviamente. Salvare vite umane è importante sempre e comunque.

Come?

Ho avvisato la sede di Milano, e ho attivato immediatamente Rahmatullah Hanefi, il manager dell'ospedale di Lashkargah. Lavorando laggiù, ero certo che avrebbe trovato la strada per raggiungere il mullah Dadullah. E infatti l'ha trovata. E da subito ci è stato chiarito che l'unico canale praticabile per portare i messaggi di Dadullah e le risposte del Governo italiano sarebbe stato il nostro. Proprio per il credito che Emergency ha acquisito con il suo lavoro e la sua professionalità.

Chi ve lo ha “chiarito”?
I talebani.

Ma che ruolo avete avuto? Diciamolo una volta per tutte.

Il nostro ruolo è stato quello, semplice per modo di dire, di postini, di portaparola. Ovvio che una parola portata da un'organizzazione come Emergency, proprio per quello che fa in Afghanistan dal 1999, vale più della parola portata da altri. Che nel migliore delle ipotesi sono dei perfetti sconosciuti. Nella peggiore e più realistica sono visti come dei nemici. Come coloro che stanno, ancora una volta, portando guerra in questo martoriato paese.

Ma avete trattato voi?

Non ci saremmo mai permessi di trattare. Non è il nostro compito, non è il nostro ruolo, non è nel nostro potere farlo. Eravamo pronti a chiedere un gesto umanitario, nel caso la situazione fosse precipitata. Ma più che quello non avremmo potuto fare. Ci siamo limitati a trasmettere i messaggi da un protagonista all'altro, tra il Governo e i rapitori.

Quindi non avete posto condizioni, come l'uscita di scena dei servizi italiani?

Assolutamente no. Abbiamo prima consigliato che il loro ruolo fosse il più discreto possibile. Solo perché sapevamo che la pretesa della parte talebana era di trattare attraverso Emergency. E perché sappiamo quanto controllino effettivamente il territorio. In seguito è stato proprio Dadullah, in una telefonata che ci è arrivata domenica 18, a dirci che sapeva dell'arrivo di alcuni italiani a Kandahar. “Se non spariscono – ci ha detto – Daniele e il suo interprete sono morti”. Ci siamo limitati a riferirlo immediatamente.

Ma tu non hai mai avuto a che fare con i servizi o sì?

Io no di certo. Ma so che in Italia c'era chi, per Emergency, stava in contatto con dei funzionari costantemente. E so che anche il loro ruolo è stato importante. Da quanto mi hanno detto dall'Italia, sono stati loro a gestire i rapporti con i servizi “alleati” ottenendo che non si commettessero imprudenze.

Tipo dei blitz armati?

Non lo so. Ma immagino che ci fossero alcuni che spingevano per questa soluzione.

Ma tu sai quanti canali sono stati aperti da altri, o hanno tentato di aprire altri?

No, ma so che c'è stato un momento - un altro momento in cui Daniele e il suo interprete hanno rischiato la vita - in cui persino gli afgani hanno provato ad aprire dei canali. Che ovviamente sono stati rifiutati, e hanno causato problemi.

Una delle critiche che sono state fatte è stata l'eccessiva publicità data alla vicenda e alle varie fasi della trattativa.

Noi avevamo chiesto l'assoluto riserbo. Sono stati altri a parlare di “canali umanitari”. Ed era ovvio a quali canali si riferissero. Tant'è che i centralini della sede di Milano sono diventati roventi, dopo quella frase sui canali umanitari.
Abbiamo chiesto da subito un comportamento responsabile della stampa. Ma non sempre il mondo dell'informazione ha capito quanto fosse rischioso accreditare le notizie più strampalate. Si è addirittura detto che Daniele era libero, ad un certo punto. E anche questo ha messo a rischio la sorte dei prigionieri dei talebani.

Ti riferisci a quando i Talebani hanno poi rilanciato chiedendo cinque persone invece che tre?

Uno dei tre che avrebbero dovuto uscire ha preferito rimanere in carcere. Temeva che una volta fuori, volessero ucciderlo. Per questo Dadullah ha cambiato le sue richieste.

Cosa ti ha lasciato questa storia?

Cosa mi ha tolto, semmai. Un fondamentale collaboratore. Un grande amico, di cui non ho notizie da tre giorni. Per adesso quel che rimane, oltre alla gioia per la liberazione di Daniele, è l'amarezza per la morte del suo autista, la grande preoccupazione per Rahmat e Adjmal Nashkbandi, entrambi scomparsi. E l'amarezza nel constatare che non per noi, ma per altri in Italia, la sorte di due afgani, uno dei quali indispensabile alla liberazione di Daniele, non è poi così importante.

Maso Notarianni