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Tra storia e memoria: Antonio Rigillo, appunti per una biografia civile
Pierpaolo Gallucci - 10-03-2007
Antonio Rigillo è nato il 4 maggio 1926 a Napoli.
È diventato architetto all'inizio degli Anni '50, a 26 anni.
Tra 1980 e 1982 è stato presidente dell'Ordine degli Architetti di Napoli.
E' stato assessore a S. Giorgio a Cremano negli anni '80.
Alcuni ricordano tra i suoi interventi di urbanista la 167 di Anacapri per il modo rigoroso con cui studiò il problema dei requisiti per attribuire le case popolari a coloro a cui spettavano per condizione sociale, e il meccanismo di proprietà comune che provò a mettere in pratica.

All'inizio degli anni '90 è stato consigliere alla Provincia di Napoli prima del PCI, dove ha militato per quarant'anni, poi di Rifondazione Comunista alla quale fu tra i primi ad aderire dopo lo scioglimento del Partito Comunista.

I suoi funerali si sono tenuti alle 10 di mattina del 22 febbraio 2007.

Forse sorriderebbe del tentativo di ricordarlo fatto fino a questo punto. Non che fosse particolarmente schivo: ma credeva che le proprie azioni avessero significato solo all'interno di un'organizzazione collettiva in grado di indicare una prospettiva storica di riscatto dei lavoratori.
La sua coscienza politica maturò negli anni della guerra e del dopoguerra: chi lo ha conosciuto bene lo indica come uno degli ultimi testimoni di quella generazione di uomini di cultura che costituirono la coscienza critica della città di Napoli tra gli anni '50 e '70 e nei decenni successivi furono condannati a restare inascoltati, sempre più ai margini della vita culturale e politica della città.

Coi propri occhi ha visto Napoli devastata prima dalle bombe degli Alleati e poi dalla speculazione edilizia.

A tutto quello che i suoi occhi avevano visto Antonio decise di contrapporre l'esercizio della sua intelligenza: perché le uniche alternative alla perdita del controllo di sè scatenata dall'istinto sono l'impegno di tutte le capacità di ragionare di cui si dispone e la scelta di battersi insieme ad altri invece di restare isolati.
Alle distruzioni opporre la costruzione: l'impegno politico nel PCI a fianco delle lotte dei lavoratori, i programmi urbanistici che ne concretizzavano le rivendicazioni e ne consentivano l'alleanza con altri strati della società: le case, le strade, le scuole, il verde, gli ospedali.
Forse anche per questo aveva deciso di diventare architetto e di occuparsi di urbanistica: architettura e urbanistica erano le uniche discipline che prima di decadere definitivamente nello specialismo e nel professionalismo come avviene oggi permettevano di guardare ogni questione con chiarezza e ad ampio raggio come Antonio ha fatto fino all'ultimo.

Nell'urbanistica non vedeva solo una tecnica per redigere piani regolatori: lui se ne serviva per disegnare la geografia dei processi di rendita, individuare i poteri economici e politici che li manipolano e contrastarli tutte le volte che vanno contro gli interessi delle classi popolari. Glielo consentiva quel prodigioso mosaico di piani urbanistici che la sua mente conteneva e confrontava tra loro sovrapponendone i retini tutti diversi l'uno dall'altro e intrecciandone le linee mentre ogni nuovo piano era una tessera che dopo essere stata soppesata per qualche istante andava a posto senza possibilità di errore.

Aveva la dote rara di cogliere i nessi profondi che legano tra loro cose all'apparenza distanti e conosceva un segreto: come si fa ad allargare i propri interessi fino ad abbracciare tutte le espressioni della cultura, al di là dell'architettura come nei loro rapporti con essa. (A chi l'avesse incontrato nel Centro Napoletano di Studi Mazziniani, all'inizio di via Luigia Sanfelice, avrebbe accennato con un gesto breve della mano tutti quei libri su Mazzini, rammaricato che non si trovano più giovani disposti a occuparsene).

E forse prima ancora che del partito comunista questa sua intelligenza critica l'ha messa al servizio della società civile napoletana. Il suo giudizio sulle modificazioni urbanistiche proposte per la città negli ultimi lustri e sulle trasformazioni realizzate è stato sempre severo. Antonio era un ottimista che non si lasciava lusingare dalle illusioni.

Sembrano lontane anni-luce le sue critiche al Piano regolatore del 1972, ne contestava la contraddizione tra le regole fissate con la zonizzazione e le deroghe consentite coi piani particolareggiati esecutivi.

Polemizzò anche con Vezio De Lucia all'epoca della Variante per Bagnoli, non era persuaso: il fatto che Napoli dovesse rinunciare alle fabbriche era una prospettiva misera.

Sapeva che quella maglia fitta di rapporti sociali attraverso i cui tessuti la cultura di una città si trasmette come una corrente elettrica si consolida solo se insieme a tutto il resto ci sono l'industria, il lavoro, i lavoratori.

Di recente era perplesso che l'Alta Velocità passasse per Afragola: si chiedeva perché, mentre in Catalogna il governo di sinistra la faceva passare al centro di Barcellona cambiando la decisione del governo di destra. Ricordava i piani per i collegamenti ferroviari in Campania proposti nel passato anche recente. Però non era affezionato alle parole, nemmeno "infrastruttura", non si fidava: la vedeva usata come sinonimo per quelle strutture industriali che nessuno si sogna più di prefigurare perché tanto il mercato fa tutto lui.
Antonio non ha mai smesso di dire che per parlare sul serio dei problemi di Napoli bisogna essere capaci di porsi a una distanza tale da produrre una visione analoga a quella che ebbe Nitti quando decise di far insediare l'Italsider a Bagnoli.

Quella visione che speriamo non se ne sia andata via definitivamente insieme a lui.

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